Feticismo Sessuale
- Note sulla logica della femminilità e della mascolinità -
di Robert Kurz
1 - La fine della vecchia critica del capitalismo e i dolori del marx-femminismo
Il soggetto moderno, com'è noto, è morto almeno quanto Dio; e tuttavia sembra ancora vivere un'esistenza da zombie, tanto irreale quanto triste e meccanica. Questo perché, alla fine, anche lui fa ovviamente parte della costituzione voodoo della società feticista occidentale e della sua ragione illuminista. E da nessun'altra parte, questo carattere patetico del soggetto illusorio, morto da tempo, riacquista maggiore visibilità che nel dibattito sul genere. Tale problematica - che è forse quella che ha raggiunto maggior profondità per quanto attiene alla sua stessa costituzione -, rispetto a tutte le altre questioni relative alla disintegrazione della modernità, può essere ancora meno discussa fino in fondo dallo stanco pensiero della ragione non morta. A quanto pare, i combattenti di entrambi gli schieramenti di un sesso diventato irreale si sono ritirati sul terreno di una normalità borghese che oramai non viene più vissuta (se un simile participio è ancora permesso) come suscettibile di essere trascesa. Su questo terreno, purtroppo già abbastanza devastato e contaminato, ora stanno cercando di giocarsi le loro rivendicazioni, continuando a ragionare come al solito, con in più un grado di indifferenza che si avvicina a quella che è la loro condizione reale.
Probabilmente, non ci si poteva aspettare molto di più dalle maschere di carattere maschili del sesso borghese. Esse erano e sono la parte difensiva nella crisi della relazione di genere. Tragicamente, tuttavia, l'offensiva femminista sembra essere in declino. Non è solamente nella triste figura della donna in carriera che si vede l'allentamento della critica sociale da parte delle donne. Ma perfino l'apparenza occasionalmente radicale dei gruppi femministi si trova ad essere sempre più diretta contro «interessi» o modelli di comportamento empirici maschili, piuttosto che contro la forma del tutto. Sempre più spesso, si tratta di occupare luoghi nel tutto della società delle merci. Nella pratica del movimento delle donne, quello che è l'elemento tatticamente indispensabile nelle rivendicazioni immanenti (cambiamenti legislativi, quote rosa, ecc.), una volta spogliato della volontà trascendente non può fare altro che affondare in una stupidità quasi sindacale. Nella crisi reale della società delle merci, tuttavia, una resistenza che si limita alla lotta per la distribuzione finisce per intaccare la propria posizione, anche sulla questione del genere.
Sarebbe oltremodo miope attribuire questo nuovo riduzionismo del movimento delle donne unicamente ai meccanismi di difesa, in parte spregiudicati in parte sottili, nei confronti della mani di una mascolinità compulsivamente eterosessuale. Per quanto l'amarezza del ripiegamento femminista nell'immanenza borghese, possa essere anche spiegata a partire dalle perfide strategie maschili di rifiuto, questo ripiegamento non è stato assimilato dalle donne. «Lasciate definitivamente in pace gli uomini» (Benard/Schlaffer); questo slogan non ricorda per niente in alcun modo la visione del mondo, apparentemente radicale, del vecchio feticcio della lotta di classe. Per cercare di cambiare i capitalisti; riconoscerli alla fine come se fossero oppositori «naturali» (o interlocutori ai fini del negoziato) e lottare contro di loro, oppure ottenere da loro ciò posseggono: dietro questo radicalismo fittizio non si è mai nascosto altro che limitarsi al quadro delle forme borghesi della socializzazione (oggettivamente insormontabile anche per il movimento operaio). La mobilitazione femminista, che ora si basa ormai solo su interessi e comportamenti empirici nella forma della merce, si scontra con un limite assai simile.
Nella guerra dei sessi, tuttavia, questa doppiezza ideologica non è più buona nemmeno per auto-ingannarsi. Neppure grazie alla migliore volontà del mondo, la moderna relazione di genere potrà essere tenuta sotto controllo secondo il modello giuridico e cittadino del lavoro salariato, visto nel senso della normalità capitalista, proprio perché fa riferimento a quelli che sono gli strati più profondi del sistema produttore di merci. Una pseudo-opposizione femminile, che è «critica degli uomini» solo superficialmente (o che intende l'uomo come un soggetto reciproco di negoziazione), nella sua immanenza rispetto alla forma merce, si trova involontariamente a incontrarsi con le posizioni di ripiegamento degli ex-rivoluzionari maschi. La comune resa alle esigenze irrazionali del sistema delle merci è semplice, ma l'apparenza di una simile capitolazione è complessa. La solitudine del manager di successo viene descritta - nel contesto di quello che è un unico ruolo sociale nella guerra dei sessi post-modernizzata - dall'Inferno in miniatura della famiglia nucleare. Sia che si tratti di padri professionali, con la pipa tra i denti e la testa completamente vuota, che spingono la carrozzina del bebè, o di yuppie tardivi che inseguono successi inutili, di cacciatori e cacciatrici di incarichi accademici, o di ambiziose personalità pseudo-sovrane in abiti classici, oppure di mistiche con la vocazione della maternità tardiva: tra questa fauna casuale, la guerra dei sessi si trascina in maniera abbastanza stanca, sostenuta da una teoria e una critica sociale disarmate.
Seguendo la tendenza generale e la prassi del movimento delle donne, un simile disarmo sembra affermarsi gradualmente nell'elaborazione della teoria femminista. Era prevedibile che lo slogan proto-borghese di «uguaglianza», separato dalla critica sociale marxista dolcemente sopita, avrebbe portato alla banalità teorica e, direttamente, all'immanenza capitalista. Ma la critica della banale idea di uguaglianza, a quanto pare, nell'elaborazione della teoria femminista, non ha portato a un rinnovamento della critica sociale radicale, ma piuttosto a una spettacolare scaramuccia tra «uguaglianza» e «differenza». Perfino il gesto radicale di Luce Irigaray non può nascondere il fatto che il concetto di «differenza», in quanto concetto di lotta dell'autocoscienza femminile, non scalfisce in alcun modo la società totale delle merci. L'immanenza dei modi di esistenza e degli interessi nel contesto della forma della merce viene mantenuta, per quanto tuttavia non viene giustificata a partire da un ideale androgino di uguaglianza ma, proprio al contrario, a partire da una «differenza» che guarda all'ontologico, se non addirittura al biologico, e da un'identità femminile a-storica per definizione. Ora, questa identità femminile mistificata deve riconoscere i suoi «interessi», e lottare per essi in quanto tali sul terreno del sistema di produzione di merci (che non viene messo in discussione in quelli che sono i suoi fondamenti). In realtà, questa svolta verso la «differenza» era già effettivamente compiuta prima da parte delle correnti della «nuova maternità», laddove erano proprio le attribuzioni patriarcali e socialmente oggettivate nelle donne (il ruolo di madre, soprattutto) che venivano assunte in maniera identitaria, e biologicamente derivate. Tuttavia, se un tale innovativo approccio teorico, almeno nel caso della «Scuola di Bielefeld» (Claudia v. Werlhof, Maria Mies e altre), rimaneva ancora legato a una critica radicale della società delle merci, le più recenti correnti della «differenza», generalizzando il concetto al di là dell'ideologia della «maternità», sembrano ora abbandonare la rivendicazione di una critica radicale del sistema produttore di merci.
Ci troviamo di fronte a una costruzione stranamente distorta. Da un lato, la soggettività femminile deve seguire uno schema identitario «altro» per eccellenza, ontologicamente differente, e in ultima analisi biologicamente derivato e in conflitto con l'eterna controparte maschile; dall'altro lato, tuttavia, questo conflitto dev'essere portato sul terreno comune della società delle merci, e nella forma - che teoricamente non viene neppure scalfita - del soggetto comune della merce, e di quelli che sono gli interessi che ne derivano. Se lo Stato e il mercato, il diritto e il denaro vengono, esplicitamente o implicitamente, ontologizzati allo stesso modo della «differenza» di genere, successivamente ecco che, a livello della determinazione della forma sociale generale, questa «differenza» si estingue improvvisamente. Ironicamente, proprio dietro l'ontologizzazione della «differenza» di genere, ecco che appare l'involontaria somiglianza con l'elaborazione teorica maschile, anch'essa disarmata nei termini della critica sociale. E così come avviene nel caso degli uomini (ex) di sinistra, la segreta cattiva coscienza di avere abbandonato l'opposizione fondamentale diventa una tacita condizione, oltre che un «convitato di pietra», della continuazione del dibattito.
In questo dibattito concentrato su «uguaglianza» e «differenza», appare evidente che la teoria e la prassi femministe, sebbene criticano la soggettività e il «dominio» maschile visibili, non mettono affatto in discussione il carattere «maschile» delle forme generali e sociali della riproduzione. Mentre il problema di come si costituisce la soggettività sociale e di genere viene di certo posto ripetutamente più volte, e in gran parte solamente in senso filosofico o sociologico/psicosociale, la forma merce della società rimane relegata a problema dell'economia politica, o dell'«economia» in senso stretto, senza che sembri essere una questione cruciale per il pensiero femminista (o che, al massimo, abbia senso per gli studi empirici, ma non per la teoria in sé).
Sfugge pertanto all'elaborazione femminista - così come, prima di loro, era sfuggito ai marxisti del movimento operaio - che la merce non è solo una «cosa» esterna, né appartiene a un sottosistema differenziato chiamato «economia», ma rappresenta la forma del soggetto generale delle società moderne. Bisognerebbe giustamente scoprire proprio fino a che punto questo forma di soggetto della modernità - non essendo stato creato solo storicamente dal patriarcato - sia strutturalmente determinato in maniera androcentrica al suo interno. Tuttavia, nella sua viscida superficie, questa forma di soggetto generale dei sistemi di produzione delle merci, in termini di genere appare come neutra, e ovviamente il femminismo ne esce ampliamente ingannato, a causa di questa apparenza androgina della forma merce in quanto tale. La critica femminista del «dominio maschile» apparente non riuscendo a cogliere la sua natura androgina camuffata, rimane essa stessa prigioniera delle forme borghesemente androcentriche della socializzazione e del soggetto della modernità.
Anche nell'ideologia femminista, la riproduzione della barriera reale del soggetto indica le radice comuni al Nuovo Movimento delle Donne e alla Nuova Sinistra, non riuscendo così ad andare essenzialmente oltre il marxismo del movimento operaio. L'accettazione della forma merce come sfondo silenzioso e (apparentemente) neutro) della riproduzione sociale delle società moderne, costituisce una difficoltà comune. In questa costellazione irrisolta, si pone con fastidiosa regolarità il problema secondo il patriarcato e il capitalismo sembrano in ultima analisi appartenere a due diversissimi livelli, incomunicabili, del dominio sociale (se non addirittura un'antitesi ontologica). Per anni, le teoriche femministe hanno passato al setaccio l'intero esistente spettro delle teorie maschili della società e dell'emancipazione, a partire dal rude marxismo operaio per arrivare fino alla teoria critica e ai discorsi postmoderni. Teoriche che fino ad oggi sono state in gran parte trattate con un'ignoranza infinita a causa della formazione dominante della teoria accademica maschile.
Solo per citare due esempi a caso: Rolf Peter Sieferle ha pubblicato una monografia sulla relazione con la natura e la relativa moderna storia delle idee ad essa collegata, che vale la pena leggere, "Die Krise der menschlichen Natur" , Frankfurt/Main 1989, nella quale l'identificazione ideologica della donna con la natura e le sue conseguenze sociali vengono del tutte ignorate; Stefan Böckler arriva a elaborare una teoria della modernizzazione fordista facendo riferimento, tra l'altro, alla teoria dei «nuovi movimenti sociali», "Kapitalismus und Moderne", Opladen 1991, in cui il movimento femminile o il femminismo non compaiono nemmeno in quello che è l'ampio indice delle parole chiave. Questa sistematica ignoranza, che può essere ampiamente osservata, ha contribuito non solo all'ermetismo dell'elaborazione teorica femminile, ma anche all'attuale paralisi della teoria sociale.
La mediazione mancata tra la critica del patriarcato e la critica del capitalismo, ora corre il rischio di essere completamente degradata a una situazione di assenza dell'oggetto. La separazione del discorso femminista, causata dall'ignoranza maschile, sta portando a una soluzione fittizia del problema della mediazione, dissolvendo la vecchia critica del capitalismo senza che essa sia stata nemmeno elaborata.
A partire dal fatto che le donne e gli uomini, in quanto maschere di carattere sessuale ed economico, si sono adagiati nella loro vita quotidiana in un conflitto permanente e senza speranza, anche al prezzo di produrre intollerabilità, potrebbe così allo stesso modo anche nascere una situazione nella quale perfino le subculture teoriche di origine femminista e marxista non vogliono essere disturbate in quella che è la loro miseria. Quanto più il discorso è immanente, e più è disarmata la critica della totalità sociale - anche se sotto il segno della «differenza» - tanto più la teoria critica della relazione di genere si riduce a un ghetto e degenera in una nicchia teorica per le carriere femminili, mentre la prassi del movimento delle donne sprofonda in quella che è una grettezza quasi sindacale. Questo pericolo era già stato visto anni fa nelle stesso movimento delle donne: «la prematura auto-accademizzazione femminista ha conseguenze non solo politiche e personali, ma anche teoriche... La ripetuta affermazione secondo la quale la teoria femminista è finalizzata a servire la liberazione delle donne, ... sta pertanto diventando sempre più mera retorica... A fronte di tali tendenze, penso che sia perfettamente possibile parlare di "deriva" della teoria femminista: soprattutto, in un adattamento strutturalmente schiacciato, ma allo stesso tempo anche volontario, che porta alla riduzione della (auto)riflessione critica, così come della modestia politica. Una simile teoria femminista avrebbe perso il suo carattere politico ed esplosivo; oramai non sarebbe più una teoria dell'opposizione» (Ulrike Helmer, "Wohin drift die feministische Theorie?", in: Feministische Studien 1/86, p. 146). Paradossalmente, sarebbe proprio questa la tardiva vittoria dell'ignoranza maschile, anche se la riunificazione «scientifica» dei sessi rimane impossibile sul terreno del sistema del mercato. La mediazione irrisolta tra la critica del patriarcato e la critica del capitalismo, diventa uno «scheletro nell'armadio», nel mentre che il femminismo - rimasto ancora solo femminista - soccombe all'androcentrismo non riconosciuto della soggettività della merce, apparentemente neutra in termini di genere. Quelle parti della letteratura femminista che continuano a dibattere alla vecchia maniera la relazione tra il marxismo e il femminismo (Ursula Beer, per esempio), in queste condizioni possono solo segnare il passo. Dal momento che la corrente di dibattito che occupano nell'ambito di quel comune movimento maschile-femminile di allontanamento dal marxismo che non viene elaborato corre il rischio di prosciugarsi, essa, con le sue preoccupazioni femministe con sullo sfondo un marxismo in rovina che diventa sempre più solitario, rimane per così dire impotente. Un progresso sarebbe possibile solo se combinato con un superamento critico del marxismo del movimento operaio. Ma è proprio sotto questo aspetto che gli sforzi della Beer appaiono essere così antiquati, anche perché, tra le altre cose, non si riferisce in maniera coerente al rapporto esistente tra relazione di genere e critica della soggettività della merce e la sua struttura feticista, ma continua a basarsi sui vecchi fondamenti della lotta di classe. Questa riduzione, oramai anacronistica, non è un'esclusiva delle femministe marxiste. Sia per mezzo di riferimenti positivi che negativi alla teoria di Marx, il blocco irregolare le marxismo del movimento operaio (che di fatto costituisce ormai un elemento irrilevante delle teoria di Marx) si trova ad essere attraversato dovunque dalla strada del rinnovamento teorico. Da Schumpeter ad Habermas, il dibattito con Marx si concentra sulla teoria della lotta di classe, mentre la critica «esoterica» marxiana del valore non viene nemmeno presa in considerazione, oppure si trova ad essere incollata alla teoria delle classi, o dell'accumulazione, in una interpretazione riduttiva e deformante (come avviene nel caso di Habermas, il cui concetto fluttuante di valore contiene degli elementari equivoci), che non riesce ad andare oltre l'orizzonte concettuale feticista.
Pertanto, sarebbe finalmente giunta l'ora di prendere sul serio il proposito femminista - tentato più volte - di criticare anche lo stesso patriarca Marx, vale a dire, smettere di continuare a negare che ci sono elementi storici obsoleti della teoria di Marx, e di partire con la mediazione teorica dal punto in cui la teoria di Marx è ancora fresca e non utilizzata, la quale addirittura solo oggi comincia a essere attuale. La critica di Marx della forma merce in quanto tale, e della costituzione feticistica in essa contenuta, lasciata a suo tempo quasi intatta dal marxismo del movimento operaio, potrebbe fornire una visione sorprendente della relazione di genere, e un nuovo approccio alla mediazione tra critica del patriarcato e critica del capitalismo. Ma questo solo se la critica della forma della merce e del feticcio verrà liberata dalla zavorra storica della metafisica del lavoro, dei lavoratori e della lotta di classe (che aveva una sua legittimità storica). Forse Marx ha dovuto ignorare la relazione di genere proprio perché tutta questa zavorra della metafisica del lavoro, che ai suoi tempi non poteva ancora essere scartata, gli impediva di vedere, nascondendolo, l'aspetto sessuale della costituzione della forma merce.
2 - Il teorema della dissociazione
Dopo il divorzio dalla metafisica del lavoro e dalla lotta di classe, la questione teorica fondamentale si pone in maniera diversa: qual è la relazione tra la forma della merce in quanto tale, con il suo carattere feticistico, e la relazione di genere? Secondo quelle che erano le vecchie intenzioni del movimento operaio, il «potere dei lavoratori» avrebbe dovuto essere stabilito all'interno della forma della merce. E per questo la «questione femminile» veniva di conseguenza gerarchizzata a partire dalla «questione di classe». Il nuovo intento di una critica della forma stessa della merce, tuttavia, non porta in alcun modo a far sì che la vecchia gerarchizzazione della «questione femminile» venga automaticamente superata. Dato che la forma stessa della merce appare da subito come se fosse «neutra in termini di genere», come una forma quasi androgina di riproduzione e di soggetto, ecco che allora anche la critica di tale forma, soprattutto dal momento che viene fatta da uno squadrone teorico tutto maschile, sembra essa stessa, a sua volta, ugualmente «neutra in termini di genere». Ancora una volta, l'uomo in quanto uomo starebbe parlando a nome di tutta l'umanità, e questo ancora prima che emerga la connotazione sessuale dell'intera faccenda.
In altri termini, la relazione di genere rischia così di essere degradata a un mero «contesto derivato», anche per quel che attiene alla critica della forma merce in quanto tale. Il valore e la merce, come involucro formale asessuato ugualmente valido per tutti i membri della società, sono pertanto gli unici a possedere «dignità» di generalità sociale, mentre tutti gli altri contesti sociali, al contrario, mantengono lo status di «concretezza». A partire da questo, la critica considera la relazione di genere come se fosse un'«area» speciale (tra le tante altre aree), alla quale può essere «applicabile» unicamente la «vera» critica fondamentale, già fatta a livello di generalità sociale. Una tale visione corrisponde al concetto di «separazione delle sfere». Contrariamente alle società agrarie tradizionali, il moderno sistema di produzione di merci si è caratterizzato differenziandosi in sfere distinte (sorte come dei sottosistemi): economia, politica, cultura, religione, ecc. Dal momento che per primo è stato lo scatenarsi della forma merci ad aver provocato questa differenziazione, ecco che le varie sfere appaiono come dei «sottosistemi» subordinati al sistema globale di produzione delle merci, e pertanto come derivati dal suo concetto generale e astratto. In questo modo, almeno per il pensiero del critico maschile della società delle merci, sembra ovvio classificare la relazione di genere e la famiglia borghese come una forma sociale in cui questa relazione appare più chiaramente se vista in relazione alle varie sfere o ai sottosistemi subordinati.
A livello fondamentale e generale di una critica della forma merce, questa apparente neutralità di genere ora viene ribaltata dal teorema della dissociazione di Roswitha Scholz (un approccio che, con intento femminista, esamina criticamente la precedente riformulazione di una critica radicale della società delle merce del «Gruppo Krisis», e che ha già portato a circa un anno di numerose discussioni, che hanno avuto riscontro anche in un seminario organizzato dalla redazione di «Krisis» alla fine del mese di gennaio 1992. La relazione del seminario, in cui viene presentata per la prima volta, a linee generali, la tesi della dissociazione è documentata e revisionata sotto forma di articolo in "Il valore è l'uomo". A seguire, mi riferirò in parte ai dibattiti realizzati in questo contesto, nella speranza di rendere trasparente per un pubblico più ampio questa nascente discussione.).
Essenzialmente, il teorema della dissociazione sostiene che la forma merce in quanto tale presenta una connotazione sessuale e una presupposizione: tutto ciò che nel mondo sensibile dell'essere umano non può essere assorbito sotto questa forma, esso viene allora - in quanto realtà femminile della vita - «dissociato» dalla forma e dai processi di economizzazione astratta del mondo nei quali la forma merce viene simultaneamente connota come maschile. La dissociazione di un contesto di esistenza femminile, il quale è responsabile di quel lato della vita umana che non può essere inteso in termini di valore, diventa così una «condizione della possibilità» di svincolarsi dalla forma merce; e la possibilità di un abbandono femminile del proprio ruolo, che è stato ciecamente creato dallo sviluppo capitalistico delle forze produttive, diventa pertanto un momento di crisi della forma merce in quanto tale.
Il contesto di vita femminile dissociato, non è pertanto, in alcun modo, una sfera differenziata rispetto alla forma generale e astratta della merce. Al contrario, fin dai primi inizi della socializzazione nella forma della merce (così come in tutte le spinte che avvengono a partire dal suo sviluppo) esistono aspetti, elementi e aree dell'esistenza umana e della riproduzione sociale che, in linea di principio, non sono (o lo sono appena) comprensibili nella forma della merce, e quindi non possono essere messi in relazione con essa in termini di semplice derivazione e differenziazione. Gli elementi (e anche le attività) dissociati si esprimono non solo nella struttura familiare, ma anche nel ruolo che viene svolto in generale dal genere femminile. Tale ruolo include sia elementi materiali (famiglia, figli) che immateriali (affetto, erotismo, "amore"). Dal momento che per queste aree, che non possono essere classificate come sfere o come sottosistemi differenziati, la natura della dissociazione non consente una mera relazione di derivazione dalla forma merce, il concetto di dissociazione deve rivendicare la medesima posizione teorica rivendicato dal concetto della forma merce in quanto tale, di cui però così smentisce la generalità assoluta. La dissociazione è l'«altro», ovvero, il rovescio della merce: non è un sottosistema, ma il suo opposto immanente, vale a dire, ciò che nella società delle merci non-é-in forma-di-merce. In realtà,è questo il paradosso più profondo, e sessualmente determinato, di questa forma della socializzazione così ricca di paradossi.
Tuttavia, ciò che nella società delle merci non-é-nella-forma-di-merce, e che viene attribuito ad un contesto di vita femminile, non va confuso col famoso «residuo non reificato» di Adorno. Con questo termine Adorno non si riferisce al contesto femminile della vita che è stato dissociato , ma va a cercare quel che rimane, il «resto», del sensibile, dell'empatia, ecc. nell'uomo stesso, nel contesto desensibilizzato della vita dell'uomo dissociatore. Si tratta pertanto, del «resto» del «non reificato» in quella stessa forma merce connotata come maschile, e non del resto della dissociazione, né delle sue forme. Per questa ragione, anche Adorno deve fare ricorso alla figura, un po' usurata, dell'«artista», che nella filosofia borghese moderna è sempre stato rappresentato come l'«altro», facendo riferimento alla sensibilità ecc., più che come uomo (l'artista, in principio, era pensato come un uomo). Tuttavia, l'artista in quanto demiurgo, egli stesso sotto forma di merce e come produttore autocratico, contrariamente alle altre figure che, sotto forma di merce, fanno parte di questa mascolinità reificante, doveva possedere, oppure aiutare a mobilitare, qualcosa tipo una «potenza di de-reificazione». In maniera significativa, il femminile appare sempre come oggetto dell'arte, e non come soggetto.
Al contrario, il teorema della dissociazione deve fare ricorso a qualcosa di completamente diverso. Innanzitutto, la dissociazione di ciò che è un contesto femminile di vita - con una responsabilità che viene connotata come inferiore riguardo a tutti gli elementi della vita umana e della riproduzione sociale che non possono essere recepiti sotto forma di merce - non è un «resto», ma è bensì l'«altra metà», il lato non ufficiale della vita. Gli elementi dissociati sono in realtà un enorme spazio di riproduzione, un presupposto muto (o che viene mantenuto muto) della forma merce connotata come maschile. In secondo luogo, gli elementi e le aree dissociate non sono il «non reificato», ma sono l'altra faccia della reificazione stessa. Questo versante oscuro e non ufficiale della reificazione nella forma merce è, per così dire, il retro bottega e l'ingresso dei fornitori, oppure per contro è lo studio privato e il luogo tranquillo, l'angolo non sistemico del sistema. Nel processo di dissociazione, il «femminile» si trova a essere soggetto a un «tipo diverso» di reificazione, che rimane socialmente informe, contrariamente a quel che avviene con l'ufficiale reificazione maschile nella sua forma di merce. Qui, la donna non è l'«altro soggetto», ma piuttosto il «non soggetto», la rappresentazione di ciò che non ha forma, che non può essere compreso a partire dalla forma maschile astrattizzante.
Forse, il problema, per un'elaborazione teorica, in relazione al teorema della dissociazione, consiste nel fatto che la «teoria in generale», nel senso finora vigente, è sempre stata connotata come maschile, ed è emersa storicamente nel contesto dello scatenarsi della forma merce. L'elaborazione teorica in sé, pertanto ha già una tendenza alla «derivazione», a ciò che definisce e che è concettualmente gerarchizzante. L'oggetto della dissociazione, è ovvio, si chiude rispetto a questa forza di gravità della comprensione teorica maschile. Dal momento che la teoria stessa è il risultato della dissociazione nel processo storico, essa non può comprendere né il processo di dissociazione né il dissociato in quanto suo spazio sociale. Naturalmente, questa cecità della teoria si scontra ripetutamente con gli oggetti oscuri e non identificati degli elementi dell'«antimateria» dissociata, i quali ricadono fuori della sua griglia di astrazione. In quelli che sono i limiti della scienza maschile in forma di merce, i problema diventa tangibile, senza che però esso possa essere chiamato per nome. Nel migliore dei casi, la logica contraddittoria del pensiero dialettico (che, naturalmente, secondo la sua stessa autocomprensione, rimane ancora astratta-universalista) potrebbe portarci in quella zona teorica grigia dove appare la paradossale relazione tra il dissociatore e il dissociato.
Ai fini di una comprensione «teorica» maschile, il problema principale sembra essere la relazione tra il «dentro» e il «fuori» nel concetto di dissociazione. Per il pensiero definitore, classificatore e gerarchizzante, qui esiste solamente un'alternativa. Se qualcosa è dissociato, allora, secondo questo ragionamento, questo si trova «fuori» e, pertanto, dev'essere suscettibile di venire definito e delimitato come un oggetto esterno «fuori» dalla società delle merci. E viceversa: se questo qualcosa è qualcosa di «immanente», una contraddizione interna della società delle merci, allora esso non può essere qualcosa di dissociato e, pertanto, deve essere «derivabile», vale a dire, soggetto alla gerarchia delle categorie nella forma di merce. Ma è ovvio che esiste soltanto una socialità, in quanto contesto generale unico, sebbene contraddittorio. Il paradosso consiste proprio nell'immanenza della dissociazione, la quale può essere insinuata solo in maniera inadeguata, attraverso concetti come quello di «rovescio oscuro» o di «controparte immanente». Il «femminile» non-nella-forma-di-merce nella società delle merci rimane nascosto, per così dire, a causa della sua assenza di forma sociale, ed è proprio per questo che non è comprensibile a un pensiero teorico abituato a rappresentare a sé stesso solo delle categorie formali (emerse e derivate dalla logica della merce, e ad essa predestinate).
Il «femminile» dissociato, o non-nella-forma-di-merce nella società delle merci è parte, o elemento, della totalità sociale e, pertanto, smentisce il carattere di totalità della forma merce; ma in quanto elemento parziale, camuffato a partire dalla sua assenza di forma, aderisce alle relazioni sociali degli stessi soggetti della merce. È un mondo doppio, di per sé frantumato, eppure solo uno. Come metafora - o simbolo di questa dualità, la quale impone al non-ufficiale non-nella-forma-di-merce nella società delle merci della totalità sociale - potrebbe valere la «duplice Avalon» del bestseller fantasy di Marion Zimmer-Bradley ("Le nebbie di Avalon").
Abbiamo una Avalon «ufficiale» cristiano-occidentale; e, simultaneamente, una Avalon del tutto differente, femminile, «pagana», che si trova quasi in un'altra dimensione di spazio-tempo, e che può essere solo raggiunta per caso e per strani percorsi. Eppure, però, è sempre una sola e unica isola. Probabilmente andrebbe detto, per gli interpreti riluttanti, che una simile metafora non significa affatto schierarsi con l'«irrazionalismo». E tuttavia non è certo un caso che l'irrazionalità viene attribuita al «femminile» dissociato. Non si tratta della sua affermazione, ma del superamento di una coscienza dissociata che ha prodotto quella che in generale è l'opposizione tra «razionalità» e «irrazionalità», vista come conseguenza della dualità oggettivata dell'«Avalon» sociale. Tutto ciò non è affatto un «AbraCadabra» concettuale, ma può essere dimostrato in dettaglio a partire dalle relazioni generali nella loro dimensione di genere. Ragion per cui, la famiglia borghese, la relazione tra i sessi e la «relazione educativa» non sono necessariamente spazi sociali non-nella-forma-di-merce, nel senso che esistono fuori e indipendentemente dalla società delle merci. Vengono rimodellati giuridicamente e secondo la logica della merce, e si tratta che qui a relazionarsi tra di loro sono i soggetti della merce. Ma in questi spazi non lo fanno direttamente, in quanto soggetti delle merci, poiché la forma della merce non raggiunge questi livelli; qui a diventare efficaci sono le attribuzioni al «femminile».
In tal modo, è proprio nella famiglia (persino in quella ridotta a essere «monoparentale») che i bambini vengono introdotti per la prima volta alle forme di relazione della società delle merci, e vengono preparati come soggetti astratti delle merci in cerca di successo. Ma questi che sono in sé i processi di preparazione, non possono essere realizzati in forma di merce, non solo per motivi di costo (una completa monetizzazione dell'educazione dei bambini sarebbe di proporzioni astronomiche), ma ciò anche perché degli elementi quali la devozione e l'empatia - che non possono essere compresi in termini di logica della merce, svolgono qui un ruolo, sebbene il suo «proposito» sociale sia la pratica di forme di relazionamento alla logica della merce. Non c'è dubbio che gli elementi, le «prestazioni» e i modelli di comportamento non-nella-forma-di-merce vengono sistematicamente dislocati verso il «femminile», sulla donna-madre e sull'«altruismo» che le viene richiesto. La stessa cosa vale anche per l'erotismo e per la sessualità delle relazioni di genere, nelle quali le donne vengono anche sistematicamente rese «responsabili» degli elementi non-nella-forma-di-merce, dalle aspettative emozionali fino alla corporeità. Ciò non significa che questi elementi non-nella-forma-di-merce non esistano dentro le strutture nella loro forma di merce. E non significa neppure che sotto altri aspetti la donna non possa e non debba essere un soggetto della merce. Ecco perché un'osservazione particolarmente sciocca, ad esempio, sarebbe quella che fa notare come la casalinga, quando va a fare la spesa, deve comportarsi come un soggetto specializzato della merce. Ciò non cambia il fatto che lo fa simultaneamente dentro il quadro di riferimento di una relazione non-nella-forma-di-merce: di fronte al venditore, lei è il soggetto delle merci, ma il contesto dell'attività in cui lo è ha una logica distinta dalla forma della merce, vale a dire, il suo modo di vita amorevole e non-nella-forma-di-merce nei confronti «dei suoi cari». In questo caso, la compravendita avviene in relazione con un'attività che si svolge non-nella-forma-di-merce, sebbene sia essa stessa, nella sua immediatezza, basata naturalmente sulla forma di merce. Questo è ancora più vero nel momento in cui la donna stessa è una salariata. Da questo punto di vista, lei è un soggetto delle merci così come lo è l'uomo, ma, tuttavia, a «livello di relazionamento» rimane di regola a quelli che cono i suoi elementi e attività non-nella-forma-di-merce. Ecco che questo allora appare, per esempio, come il ben noto duplice fardello, ma in quelli che sono i suoi elementi immateriali (affetto, «amore») va assai ben oltre. Il contesto dissociato femminile di vita, quello che è non-nella-forma-di-merce nella società della merce non è uno spazio sociale esternamente delimitato, ma esso è piuttosto l'«altra Avalon» degli stessi soggetti delle merci.
Proprio perché la dissociazione arriva fino agli aspetti più sottili della relazione, l'Ego maschile blindato può, naturalmente, passarci sopra ripetutamente, facendo uso della voce di petto dell'incomprensione teorica, e scuotere la testa di fronte alle difficoltà femminili riguardo l'articolare il problema, per poi meravigliarsi nel momento in cui le donne semplicemente si ritirano. È ovvio che questo si riferisce anche allo stesso autore di questo articolo: De te fabula narratur. La mancanza di comprensione del problema, può essere facilmente dimostrata a partire dalle pubblicazioni di «Krisis». E fin dall'inizio, nella sua semplice assenza, mentre la critica della logica astratta-universalista della merce veniva formulata in modo astratto-universalista. Così come dove, in alcuni articoli e pubblicazioni, la relazione di genere appariva esplicitamente come un tema. Tuttavia, va anche detto che fino a poco tempo fa il teorema della dissociazione non esisteva nemmeno, e che gli sforzi di mediazione teorica tra critica del patriarcato e critica del capitalismo venivano giustamente percepiti come inadeguati. Il fatto che il teorema della dissociazione di Roswitha Scholz sia stato sviluppato in connessione critica con la nostra nuova critica fondamentale della forma merce dimostra , quanto meno, l'«oggettiva» apertura al problema da parte di quest'ultima. D'altra parte, il fatto che questa connessione abbia dovuto essere critica, e che abbia dovuto affermarsi faticosamente contro la connotazione maschile astratta-universalista della critica della forma merce, segnala l'esistenza di un certo «muro», il quale non ha niente a che vedere con le mere difficoltà teoriche. Nel momento in cui una donna avanza delle pretese teoriche, e addirittura dissidenti, questo (se mi è consentito) in segreto può sembrare, ad alcuni signori della teoria maschile, per lo meno «emozionalmente», come se un cavallo avesse cominciato a parlare. Dicendo questo, mi riferisco alle osservazioni di cui sopra a proposito del teorema della dissociazione, in senso stretto ed esplicitamente, come co-argomentazione e come risposta alle obiezioni, quali sono state espresse nel mio contesto di discussione (maschile). Tutto ciò è naturalmente legato ad una presa di posizione e a un'esplicita identificazione, che non pretende di essere una «rivendicazione superficiale di femminismo», ma che accetta semplicemente il fatto che nella formazione della teoria sia stato districato un groviglio. Ci si aspetta che l'autrice ora specifichi e sviluppi maggiormente il suo teorema. Nel futuro dibattito circa il teorema della dissociazione, pertanto, c'è da aspettarsi una dura guerra fredda, in cui la difesa di un concetto di individualità astratta, neutro in termini di genere, si accompagnerà a «perturbazioni atmosferiche», irrazionalismo difensivo maschile, performance da parte di alcuni artisti del miglioramento e da tentativi di dequalificazione. In realtà, questa è forse la prima questione in cui il «contenuto» non può più essere reso impermeabile al proprio contesto di vita altamente soggettivo, poiché è proprio questo che distingue la «scientificità» maschile nella forma di merce in sé. L'intrecciarsi dei livelli di contenuto e di relazionamento, degli aspetti soggettivi e oggettivi, del «dentro» e del «fuori». L'intreccio di forma e assenza della forma degli elementi dissociati possiede il carattere di una denudazione che può rendere imbarazzante perfino l'idea di sé stessi.
3 - I Excursus: Relazione di genere e critica delle grandi teorie
Il teorema della dissociazione ha una qualità che, agli occhi del discorso teorico attuale, deve apparire come un errore imperdonabile: procede fin dal suo inizio sul piano della totalità sociale. La critica della totalità, viene duramente rifiutata da coloro che immaginano di trovarsi al di là del concetto di totalità. Pretendere di voler rivendicare un «grande risultato», non sarebbe ammissibile; dovrebbe andar bene solo la modestia, senza alcun esibizionismo; sarebbero necessarie solo delle inchieste parziali «concrete», senza alcuna generalizzazione astratta. Nella solenne condanna di ogni lotta immorale per le cosiddette «grandi teorie», questo impulso al disarmo della teoria sociale, ha trovato il suo sempre più citato slogan. E questo slogan così tanto di moda, è entrato in modo particolare nel discorso femminista. Nell'identificare e criticare la connotazione maschile della formazione della teoria scientifica con il vago concetto di «grande teoria», le donne credono così di eludere gli scheletri teorici che loro stesse conservano nell'armadio.
Ironicamente, però, è proprio nella sentenza prematura e sconsiderata emessa contro la «grande teoria» che la coincidenza con le posizioni maschili, per quanto riguarda il processo teorico, diventa chiara. Poiché ancora una volta, naturalmente, la concezione peggiorativa della cosiddetta «grande teoria» è stata introdotta dagli uomini, e per delle ragioni del tutto evidenti. Questo, ed altri discorsi simili, a partire falla metà degli anni '70, segnano le posizioni di ritirata della critica sociale maschile. Rappresentano la resa incondizionata di tutta una generazione. È quasi comico, quando si può osservare come i discorsi femministi - che si suppone seguano i propri percorsi separati dal contesto maschile - in realtà riproducano in maniera fedele beneducata i ragionamenti, le forme di sviluppo e le linee di demarcazione della parte maschile della Nuova Sinistra.
Allo stesso modo in cui, il clima di ritirata nell'immanenza borghese, è un clima generale «comune ai generi», anche la comune impotenza può essere rivelata dappertutto su quelle che sono le isole dei naufraghi della critica teorica e sociale. Le tattiche denigratorie della «grande teoria» illuminano una determinazione quasi lugubre volta a svilire qualsiasi tentativo che possa spingere l'orizzonte della comprensione oltre l'autoaffermazione dei soggetti della merce. Se il teorema della dissociazione può perfino apparire prudente - formulato in maniera piuttosto scrupolosa e senza avere quelle premesse di rivendicazione che pretendono di diffonderlo in lungo e in largo - il mero riferimento mentale alla «totalità», un tempo così tanto amata, è tuttavia esagerato. Tra i ciechi, non solo colui che ha un occhio solo è re, ma anche l'occhio rimanente gli viene gelosamente strappato;dopo tutto, questo è in realtà un aspetto dell'ideale illuminista di uguaglianza.
Sebbene la negazione della «grande teoria» dell'ideologia della capitolazione riflette un momento di verità, questa non è in alcun modo nelle corde dei suoi inventori. Tutti i sistemi idealisti dell'era borghese hanno cominciato con la pretesa di una spiegazione totale, completamente nuova, del mondo; allo stesso modo in cui le rivoluzioni borghesi hanno sempre avuto una tendenza intrinseca a voler fare socialmente tabula rasa (Stephen Toulmin, nel suo libro "Kosmopolis" - Frankfurt/Main 1991 -, tratta questa motivazione, implicita o esplicita, in maniera molto illuminante, a partire dall'esigenza di una «certezza assoluta», sebbene non riferisca la sua analisi allo scatenarsi della logica della merce nella storia e alla «storia segreta» della modernità). Per molti aspetti, la teoria di Marx contiene elementi di questa esigenza, soprattutto, naturalmente, nelle forme che sono state canonizzate dal «marxismo» nelle sue varie chiese e sette. Com'è noto, esistono scritture sacre e rivelazioni del «materialismo dialettico» e del «materialismo storico». E perfino i teorici critici, con la loro presunta apertura, non possono fare a meno di sentire un sacro fremito, riferito al loro superbo alto livello di riflessione, quando pronunciano la parola «materialismo» Forse è finalmente arrivato il momento di abbattere questa vacca sacra che continua ancora a vagare per i paesaggi dell'elaborazione teorica della sinistra.
La totalità ermetica di una spiegazione «materialista» del mondo, induce l'ideologia di una visione del mondo, perfino quando non la si vuole espressamente. Ma perché sarebbe necessario un «ismo» affinché possano essere risolti problemi sociali storicamente limitati? Perché la necessità di far ricorso a principi ontologici «eterni» («lavoro», per esempio)? Perché operare per mezzo di un concetto di ragione assoluto, e non derivabile? Perché l'abolizione delle contraddizioni sociali diventate insopportabili dovrebbe contribuire a realizzare, allo stesso tempo, una qualche base di una spiegazione «materialista» della natura, o giustificare sé stessa a proprio nome? Perché mai i sistemi di idee devono essere in qualche modo «realizzati»? Una follia in sé rovinosa. «Vieni! all'aperto, amico!» (Hölderlin) - perché è così difficile obbedire a questa sollecitazione così spesso avanzata? Sicuramente, simili questioni vengono poste in un contesto che si riflette anche nelle recenti condanne delle cosiddette «grandi teorie». E di certo non è sbagliato associare il «pensiero realizzatore» sistemico e totale, insieme alla sua esigenza di «certezza assoluta», con l'autoaffermazione maschile astratta e con la determinazione androcentrica della scienza moderna. (È chiaro che questo dovrebbe succedere anche a un femminismo diventato, a riguardo, autoriflessivo, e a partire da questo non ci può più essere alcun «ismo» - e per questo motivo non ci può essere nemmeno più un femminismo - dal momento che così facendo consegna al mondo, con sé e a proprio nome, una rivendicazione specificamente maschile).
Ma la critica e il rifiuto di qualsiasi tipo di «metafisica del fondamento ultimo», delle «grandi teorie» intese positivamente, o dei sistemi di spiegazione del mondo che hanno la «pretesa della realizzazione», dovrebbero assicurare delle basi e dei presupposti sociali reali di quelli che sono i loro obiettivi. Se infatti si dovessero assumere i deficit e i potenziali pericoli delle moderne asserzioni relative alla fondazione e alla spiegazione ultima del mondo, incluso quelle del marxismo, come se fossero semplici scorrettezze soggettive che dovrebbero essere risolte criticando e rigettando questo tipo di elaborazione teorica, questo allora significherebbe solo il proseguimento, nel campo della teoria, dell'indistruttibile illusione politica illuminista del «contratto sociale». La presunzione della teoria indica solo la presunzione di quella che è la formazione sociale soggiacente. Dal momento che le strutture del sistema dogmatico delle «grandi teorie» moderne riflettono solamente la struttura del sistema realmente dogmatico di quella che è la forma totalizzata della merce. La formazione dogmatica e astratta-universalista della teoria ricalca semplicemente la formazione dogmatica e astratta-universalista della società. È il sistema di produzione delle merci, insieme alla sua, altrettanto storicamente realizzata, pretesa di realizzare sé stesso, che si nasconde dietro la peculiare costellazione della moderna relazione tra teoria e prassi. Il pensiero maschile della dissociazione non può essere superato senza superare la reale struttura maschile della dissociazione sociale. È ridicolo pretendere di raggiungere il primo dei due obiettivo, insieme a un giudizio contro la «grande teoria», e allo stesso tempo squalificare il secondo come se fosse un'utopia che no va presa sul serio, e allo stesso tempo riuscire anche a percepire la determinazione antropocentrica della forma. Solo grazie a una notevole ignoranza teorica, questo concetto può essere negato e rimosso. La falsa positività delle «grandi teorie» può essere superata solo in virtù del fatto che falsa positività della forma sociale della merce venga sottomessa a una critica teorica e pratica, e se essa viene rifiutata come forma generale del soggetto. La verifica della sua connotazione sessuale è un passo decisivo in questa direzione. La critica a buon mercato delle «grandi teorie», che afferma ciecamente la società delle merci e le sue manifestazioni, del resto, fa un calcolo sbagliato. Non ha nessuna idea del nuovo radicalismo che si potrebbe involontariamente scatenare nel momento in cui venisse rivelata la vera relazione nascosta alle sue spalle. Dal momento che una critica seria delle «grandi teorie», che sappia ricondurre il loro oggetto alle sue radici sociali, dovrebbe scontrarsi frontalmente con quel mondo pseudo pragmatico del denaro, la cui celebrazione, che lo vede come se fosse il migliore di tutti i mondi, è così cara al cuore degli attuali pseudo critici del dogmatismo.
La critica del marxismo come «grande teoria», ci porta dalla parte opposta rispetto a quello che si spera. Poiché spinge a mobilitare quello stesso momento della teoria di Marx che finora è stato ignorato e che non può essere integrato nel marxismo: la critica radicale di ciò che in generale è la relazione di denaro. In tal senso, proprio la critica delle «grandi teorie» positive deve diventare una «grande teoria» negativa, nella misura in cui essa - insieme alla prigione ideale del pensiero ontologizzante della realizzazione - spezza simultaneamente le catene della prigione materiale del sistema produttore di merci. È questo l'unico modo reale per poter davvero uscire all'«aperto». E, in particolare, è il teorema della dissociazione a promettere di essere utile a tal riguardo, poiché esso non consente più che le categorie economiche di Marx possano essere comprese definendole positivamente.
4 - II Excursus: La dimensione psicoanalitica nella critica della forma merce
A far fallire i ripetuti tentativi di mediazione con quelle che sono state le scoperte della psicoanalisi, è stata anche la tradizionale comprensione positivista dei concetti di Marx. Sulla base e a partire dal principio e dal modo di pensare della lotta di classe e dell'ontologia del lavoro - che a loro volta generano un concetto a partire dal quale il valore, la merce e il denaro vengono definiti come oggetti positivi della lotta per la distribuzione - le categorie della critica di Marx relative all'economia, e quella di Freud relative alla coscienza non avrebbero potuto essere messe tra di loro in alcuna relazione significativa. Solo la Teoria Critica, che aveva cominciato ad allontanarsi dal marxismo del movimento operaio, fece degli ambiziosi tentativi di sintesi, e non si limitò a considerare semplicemente le scoperte di Freud come un'ideologia della concorrenza. Tuttavia, si è dovuto arrivare ai limiti di un'epoca nella quale il sistema di produzione delle merci non si era ancora completamente sviluppato sotto alcun aspetto (neanche al livello del soggetto). In queste condizioni, né la teoria di Marx, né quella di Freud, avrebbero potuto essere «superate», e perciò esse rimasero in gran parte come un'emulsione teorica. Solamente un approccio che prendesse sul serio la critica del feticcio di Marx, vista nelle nuove condizioni dell'attuale socializzazione capitalistica globale, il quale dissolva in maniere coerente la positività delle categorie borghesi di base, potrebbe avvicinarsi criticamente anche alla psicoanalisi. Poiché anche le sue categorie devono essere ontologicamente intese in maniera altrettanto poco positiva dell'economia politica. Di certo, un simile superamento non può certo più avvenire sul terreno della scientificità androcentrica; dovrebbe essere, simultaneamente, il superamento della teoria di Marx e della teoria di Freud nella loro determinazione formale e nella loro determinazione maschile.
Anche l'apparato concettuale freudiano fa riferimento a un contesto sociale reale, che non può essere eluso attraverso una mera critica teorica e delle terapie individuali oppure, al contrario, dal semplice rifiuto dei presupposti freudiani di base. Non è per caso che Freud, come Marx, abbia reso fruttuoso per la sua teoria il concetto di feticismo. Se una mediazione teorica tra Marx e Freud non ha mai avuto successo tra i marxisti del movimento operaio, ciò è stato soprattutto perché essi avevano una concezione riduttiva del feticcio della merce ovvero, per buone ragioni, preferivano evitare del tutto questo momento della teoria di Marx. Dall'altro lato, una critica radicale rinnovata e concretizzata nella forma merce, disaccoppiata dal marxismo del movimento operaio, avrebbe potuto anche rivolgere uno sguardo nuovo ai concetti freudiani relativi all'apparato psichico. Così come la relazione tra la forma merce e la forma del pensiero (Sohn-Rethel e Rudolf Wolfgang Müller (Geld und Geist [Denaro e Spirito], Frankfurt/Main 1977) aveva per prima definito questo compito, ma ancora una volta tentarono di risolverlo in termini di ontologia del lavoro. Solo il distacco dalla metafisica dell'ontologia del lavoro può far progredire in tal senso un'analisi genetica, e riuscire allo stesso tempo a includere categorie psicoanalitiche senza dover nuovamente scartare i loro propri presupposti teorici; anche la relazione esistente tra forma merce e forme psichiche andrebbe decifrata.
La formazione e la deformazione storica inconsapevole dell'Io della merce, teorico e pratico, in azione corrisponderebbero alla formazione e alla deformazione dell'inconscio. Se fino ad oggi la civiltà non è stato altro che il massimo sviluppo dell'inconscio sociale, allora la formazione di un inconscio differenziato , con i suoi meccanismi di difesa, di proiezione e di rimozione, è parte integrante di questa «preistoria dell'essere umano» (Marx), la quale continua fino ai nostri giorni. Il formarsi di maschere di carattere di tipo economico, viene mediato attraverso il processo di creazione di maschere di carattere sessuale. Ed è stato probabilmente per questa ragione che Freud rimase impressionato dall'oscura stranezza del «femminile», poiché, come Marx, aveva preso naturalmente le distanze dal costituirsi della coscienza maschile feticisticamente incantata dal mondo delle merci. La sindrome eterosessuale forzata, sarebbe pertanto un prodotto storico e parallelo allo sviluppo della forma valore. Presumibilmente, anche questa connessione potrebbe essere provata, in maniera embrionale, a partire dall'antichità greca (ad esempio, nella valutazione per lo più negativa delle relazioni omosessuali nella «democrazia» attica paragonata all'arcaica Sparta, dove tali relazioni venivano in parte ancora istituzionalizzate nei rituali di iniziazione; analogamente a quanto avveniva nelle popolazioni primitive [a tal proposito, cfr. Gisela Bleibtreu-Ehrenberg e le sue ricerche sulle relazioni sessuali degli aborigeni australiani). La forma merce, il mondo di pensare generale e astratto, la dissociazione di un contesto di vita femminile considerato inferiore e la formazione di un'identità eterosessuale forzata appaiono come i momenti di un unico e medesimo sviluppo che ha prodotto anche gli elementi di base dell'inconscio che si possono trovare al giorno d'oggi). Se a svilupparsi parallelamente rispetto alle imposizioni sociali della società delle merci, è il meccanismo della dissociazione, il quale costituisce in quella che è la sua regolazione unilaterale la dicotomia sociale della «mascolinità» e della «femminilità», allora anche il carattere eterosessuale forzato - che nella modernità appare come «normale» e «naturale» - è anch'esso solo un prodotto di questo processo.
Nel criticare il concetto senza genere dell'individualità e della soggettività astratta e sotto forma di merce, il teorema della dissociazione (ammettendone tutto il suo carattere provvisorio) apre l'accesso alle costituzioni proprie dell'inconscio e dell'apparo psichico, viste dalla prospettiva di una critica radicale della società delle merci. Si potrebbe arrivare alla conclusione che potrebbe anche essere una notevole limitazione, se il concetto di «dissociazione», al contrario, venisse considerato limitato alla psicoanalisi, essendo «inammissibile» (estraneo all'area) il suo «trasferimento» alla critica dell'economia politica. In realtà, la forza di questo teorema consiste proprio nel fatto che esso osa attraversare un tale confine (È noto come nella storia del pensiero ogni nuovo approccio originale viene stroncato dagli spiriti conservatori). Non c'è da stupirsi che questo accada maggiormente nel caso in cui l'originalità è femminile: «Ma proprio nella misura in cui le pensatrici femminili si basano sul bagaglio storico della teoria e del metodo, nel loro lavoro che fa uso, per esempio, delle intuizioni provenienti dall'esistenzialismo, dal marxismo o dalla psicoanalisi, i loro progetti vengono considerati come se fossero delle semplici applicazioni di ciò che gli uomini avevano già pensato circa i problemi specifici delle donne. Vale la pena leggerli in quanto non vengono percepiti come originali. Se diventa troppo ovvio che oramai i loro pensieri non si muovono più soltanto lungo i sentieri di ciò che è stato pensato prima di loro, ecco che questo non viene loro attribuito come se si trattasse di creatività, ma piuttosto come mancanza di specializzazione: Non avete letto Marx o Freud con sufficiente attenzione» (Carol Hagemann-White, "Was heißt weiblich denken?" ["Che cosa significa pensare al femminile?"], Osnabrück 1989, p. 16).).
In ambito psicoanalitico o psicosociale, il contesto problematico a proposito di cosa significa il termine «dissociazione» non è per niente sconosciuto nel suo riferirsi alla relazione di genere. Perfino uno sguardo superficiale sul più ampio discorso femminista, ci mostra come l'assunto, in senso lato, sia già stato trattato in vari modi (anche se il termine «dissociazione» non appaia esplicitamente così spesso), per quanto esso non sia mai apparso nel contesto di una critica della forma merce. Nella misura in cui i riferimenti politico-economici sono già stabiliti, questi si muovono nel conteso della tradizionale metafisica del lavoro (per esempio, Frigga Haug). Ma il teorema della dissociazione potrebbe fornire un'importante mediazione, soprattutto per quegli approcci che, su questa barca, si sono situati logicamente oltre le categorie «marxiste». Dal momento che, ovviamente, il legame tra la critica di Marx alla società e la critica di Freud alla coscienza, non possono continuare a rimanere su una strada a senso unico. Così come bisognerebbe trasportare i concetti freudiani relativi all'apparato psichico e renderli nei termini di una critica dell'economia politica, anche viceversa è vero. Applicare il concetto di «dissociazione» al sistema apparentemente chiuso delle categorie della critica dell'economia politica, forse comincia a toccare quelle corde che finora erano mancate per poter suonare la giusta melodia.
5 - La metafisica del valore d'uso
Ogni nuovo approccio teorico viene prima percepito a partire dalla vecchia riva ed è soggetto a delle inevitabili incomprensioni, per liberarsi delle quali bisogna lottare. Se questo era vero già per la precedente posizione di «Krisis» - per la sua critica della forma merce, in sé ancora astratto-universalista, nella sua relazione con i vecchi marxismi moribondi - allora questo problema di comprensione e di accettazione oggi è ancora più acuto per quel che attiene alla modellazione sessuale di questa critica. L'approccio del teorema della dissociazione prosegue la nuova critica della società delle merci, ma allo stesso tempo la modifica anche, in maniera fondamentale. Nel fare questo, deve vincere la forza di gravità di un pensiero maschile che potrebbe essere incline a ricadere continuamente, passo dopo passo, nella solita gerarchizzazione della logica della merce. Non deve essere facile, per questo pensiero, accettare l'uguaglianza teorica del concetto di dissociazione. Da lì in poi, in ogni momento, potrebbe infiltrarsi, in punta di piedi, tentando di ricondurre il problema della dissociazione nella gerarchia delle categorie relative alla logica della merce, in quello che finirebbe per essere un mero «contesto di derivazione». Non è certo per caso che, nel contesto della critica dell'economia politica, la difesa contro simili tendenze ci riporta immediatamente dentro dei nuovi fondamentali problemi di analisi della forma della merce.
È la categoria del valore d'uso, quella che sembra meglio prestarsi a un'interpretazione immanente del teorema della dissociazione nel contesto della logica della merce, e questo sotto molti diversi aspetti. Secondo la lettura convenzionale, il valore d'uso è gerarchizzato nei confronti del valore di scambio astratto; esso viene considerato come un elemento della merce subordinato, offuscato se non addirittura perfino al di fuori dell'economia politica. A tal riguardo, è facile e sembra ovvio identificare il valore d'uso con la sensibilità dissociata e, pertanto, con la donna. (Soprattutto se visto nel più vecchio discorso femminista, a sfondo marxista, questa identificazione la si può trovare in maniera abbastanza informale, come per esempio, occasionalmente, in Rossana Rossanda. Ed è chiaro che questa connessione non si sviluppa assolutamente in nessun caso in maniera automatica. La relazione marxo-femminista, tra valore d'uso e femminilità, segue piuttosto quella che sembra essere un'apparente plausibilità, non chiarita, secondo un senso comune marxista per cui il valore d'uso appare come se fosse il lato «buono» e sensibile della merce). Il valore di scambio astratto, e le sfere da esso determinate sarebbero quindi connotate come maschili, in termini socio-storici, ma tuttavia l'asimmetria della relazione di genere potrebbe essere mantenuta come inerente alla logica della merce, e integrata analiticamente senza alcuna discontinuità rispetto alla critica dell'economia politica di Marx.
In una maniera teoricamente sottile, questa interpretazione implica ancora una volta la neutralità di genere del sistema produttore di merci visto nel suo insieme, poiché la polarità del genere, sebbene asimmetricamente connotata, ha seguito il contrasto tra valore d'uso e valore di scambio meramente per derivazione; la guerra tra i sessi aveva luogo solo all'interno dello spazio della merce. La forma della merce in quanto tale continuerebbe ad essere il comune involucro esterno, la cui critica (marxista) maschile rimarrebbe non toccata dalle rivendicazioni femministe, le quali pertanto sarebbero autorizzate a «venire applicate», come al solito, in una sfera derivata. Il dominio maschile rimarrebbe nella critica teorica «superiore», dove l'asimmetria di genere della relazione reale potrebbe in questo modo essere riprodotta. Come contropartita incantatrice relativa a questa attribuzione caritatevole, la donna, insieme al valore d'uso, potrebbe rappresentate il lato davvero «buono» e sensibile della merce. In questo modo, la donna e il valore d'uso appaiono come la dissociazione all'interno della forma merce, che bisogna liberare - con gli uomini come veri e propri eroi, ovviamente, i quali sono naturalmente anche i principali responsabili della correlata teoria critica.
Una strumentalizzazione maschile del teorema talmente paradossale, che trasforma l'intento nel suo contrario, la quale si basa su una comprensione della categoria del valore d'uso come quella che è stata finora assunta, in una maniera assai poco riflessiva, a partire da un marxismo critica oramai antico. L'«orientamento al valore d'uso» è diventato sinonimo di critica e di possibile superamento pratico della società delle merci. Di sicuro, è da tempo che avremmo dovuto riflettere sul fatto che questo intento viene anche sostenuto da delle teorie che non si sognano nemmeno di criticare la forma della merce in quanto tale. Così, è noto che Habermas parli di «orientamento democratico al valore d'uso» (Jürgen Habermas, "Die Moderne – ein unvollendetes Projekt, Philosophisch-politische Aufsätze 1977 – 1990" [Il moderno – Un progetto incompiuto, Nuova Trauben], Leipzig 1990, p. 119.), che si suppone sarebbe abbastanza compatibile con le forme di base del sistema produttore di merci. Questa interpretazione non é una specialità del riformismo socialdemocratico o (al contempo) della Reaklpolitik verde, ma la si può trovare anche nel linguaggio degli stessi marxisti radicali; e, finora, anche nelle formulazioni delle posizioni di «Krisis», per quanto questa si sia staccata da parecchio tempo dalla comprensione della teoria di Marx propria del movimento operaio.
Forse qui, ci possiamo fare inaspettatamente aiutare dalla critica di uno degli ultimi circoli francofortesi di esegesi marxiana, che non ha ceduto alla pressione della Realpolitik verde. In un contributo, dal titolo significativo "Feticismo del valore d'uso", Kornelia Hafner ha esaminato criticamente i teoremi della metafisica radicale del valore d'uso nella Nuova Sinistra (Krahl, Reinicke, Pohrt, Breuer) (Il saggio di cui dispongo è un manoscritto inedito del luglio 1989, per ISF Freisbur; tutte le citazioni che seguono si basano su questo testo che, secondo l'autrice, appariranno in una pubblicazione dell'editore Ça ira di Friburgo nell'estate del 1992) proponendosi di «scoprire il valore d'uso come categoria chiave di una critica del capitalismo e di una teoria della rivoluzione», la quale coltiva l'intendo «che il sensibile e il concreto si rivolti contro il generale e l'astratto» (Hafner, op. cit., p. 4s.). Kornelia Hafner, da parte sua, sostiene che «la relazione tra valore di scambio e valore d'uso non è una relazione di sussunzione, bensì una relazione di presupposti ed esclusioni reciproche» (Hafner, loc. cit., p. 12.). Con Marx, è fondamentale «che i valori d'uso appaiano come creature del capitale stesso» (Hafner, op. cit., p. 1), p. 16.), che il valore d'uso divenga un'«utilità generale» solo per mezzo dell'auto-valorizzazione del denaro: «Significativamente, anche l'idea di pura utilità, così come viene rappresentata nelle teorie dell'utilitarismo, si sviluppa solo quando la produzione delle merci si è in qualche modo già affermata socialmente» (Hafner, loc. cit., p. 7s.).
A tal proposito, secondo Kornelia Hafner, difficilmente si potrebbe parlare in maniera enfatica di una potere della rivolta - addirittura esplosivo - del valore d'uso contro il capitale. Allo stesso modo in cui «il concetto di valore è già contenuto nel valore d'uso, anche il significato ambiguo del concetto di valore d'uso appare già evidente nello stesso Marx» (Hafner, loc. cit., p. 7.). È vero che «a livello de Il Capitale, potrebbero venire citate un numero bastante di cose che giustificano il discorso della resistenza, vista in connessione con il concetto di valore d'uso, e non solo a partire da questa chiarezza millenaristica, ma anche nel senso ambivalente che viene attribuito alla relazione di capitale in generale» (Hafner, loc. cit., p. 14).
Kornelia Hafner riassume la sua critica del «feticismo del valore d'uso» sottolineando il nefasto dualismo della teoria della rivoluzione che ne deriva: «Ci sono sempre due principi che si contrappongono: astratto e concreto, generale e individuale, morto e vivo, identico e non identico, valore di scambio e valore d'uso, capitale e lavoro. Il pessimo millenarismo della "teoria della rivoluzione" che a tutto ciò si lega, è diventato evidente quando si riassume meramente quello che è solo un lato di ciascuna di queste coppe di termini come se si trattasse, da un lato, di tutto ciò che è falso, in opposizione all'altro lato visto come un principio di speranza; o per dirla in maniera ancora più semplice, come il bene e il male» (Hafner, op. cit., p. 29).
L'argomentazione di Kornelia Hafner dovrebbe ora proseguire verso un concretizzarsi della critica della forma merce, soprattutto secondo quel che dice il teorema della dissociazione di Roswitha Scholz (ammesso che siano queste le intenzioni della Hafner). In effetti, questa argomentazione si avvicina in un certo qual modo ad un'affermazione di base di quella che è la posizione di «Krisis», così come essa è stata finora sviluppata, soprattutto in relazione ai concetti di soggetto e di «lavoro». Nel contesto di una critica fondamentale del marxismo, questa riflessione si basa sul presupposto secondo cui - contro il «Male» della riproduzione capitalista, mobilitando una forma «buona» del soggetto che già esiste «in sé», per così dire «svegliandola con un bacio» - non è possibile abolire la società produttrice di merci. L'idea di un «Bene», già esistente ontologicamente «in sé», fa parte dell'illusione borghese dell'Illuminismo. All'interno della socializzazione nella forma di merce, non esiste alcun soggetto «vero» completamente differente. Al contrario, al livello decisivo della determinazione della forma sociale, ciò che esiste è un sistema senza soggetto; un contesto di costituzione feticista. Pertanto, il compito della teoria della rivoluzione non è quello di andare alla ricerca del «soggetto». Al contrario, si rende necessario sviluppare e costituire coscientemente la soggettività dentro le fratture della socializzazione capitalista, nel contesto della forma merce diventata pericolosa per la vita, a un livello in cui prima non è mai esistito alcun soggetto, ma sempre e soltanto una forma feticista senza soggetto (Di certo, in questo modo, si mette in discussione anche il concetto di soggetto in generale. Può essere che la comprensione che abbiamo della soggettività, così come la conosciamo, sia legata alla logica della merce in quanto tale, e che il suo superamento richieda una determinazione differente da quella dell'autocoscienza e dell'azione, e che non segua più una relazione oggettuale esterna e reificatrice).
A partire da questa argomentazione, la metafisica marxista della lotta di classe e del «lavoro» può essere superata secondo i termini della teoria della rivoluzione. L'invocazione di una in sé «buona» ontologia del «lavoro», insieme a tutti gli elementi della teoria di Marx che da essa derivano, e cha ha generato il punto di vista marxista del lavoratore o della classe e una teoria della lotta di classe, va decifrata in quanto parte integrante della storia dell'emancipazione del soggetto borghese nel contesto della forma merce della socialità costituita dal feticcio. Ma ciò che vale per la metafisica del «lavoro», allora si applica anche a tutti gli altri momenti della società della merce e della sua critica. Né tantomeno esiste un altro «in sé» della forma soggetto della società delle merci, il quale avrebbe solo bisogno di essere risvegliato con un bacio. I dualismi infiniti della soggettività borghese, in sé già sempre schizofrenica, non contengono a nessun livello un polo «buono» e un polo «cattivo».
In questo senso, non è difficile estendere un tale argomento anche alla categoria del valore d'uso. Il valore d'uso non è - così come non lo è il «lavoro» - una chiave ontologica per sospendere la logica di astrazione reale della forma merce. Se nella sua comprensione convenzionale il valore d'uso rappresenta il lato sensibile, il «lato della fruizione» delle merci, la necessità concreta ecc., questo vuol dire che qui abbiamo una confusione dei livelli. Circolazione e consumo, vengono confusi in termini categorici. Il valore d'uso corrisponde alla merce solo laddove essa non viene realmente «usata» (consumata), vale a dire, nel processo di circolazione, nella sua esistenza in quanto oggetto di mercato. L'«uso» è qui, in principio, in quello che è uno stato di mera potenzialità, vale a dire, una mera potenzialità astratta. Perché la merce come oggetto di mercato è semplicemente la sua potenzialità d'uso, indipendentemente da qualsiasi uso reale. Pertanto, come valore d'uso, il prodotto si trova nello status di utilità astratta, al di fuori della sfera effettiva del consumo. In tal senso, lo stesso valore d'uso continua ad essere una categoria feticistica dell'economia astratta.
Il valore d'uso rappresenta la materia astratta in relazione al valore di scambio; mentre, al contrario, il valore di scambio rappresenta la forma astratta. Qui, il «trucco» logico-strutturale è che la forma astratta di una merce viene «espressa» proprio per mezzo della materia astratta di un'altra merce. Nella relazione tra la forma equivalente e la relativa forma di valore, il corpo del valore d'uso astrattificato in una merce esprime il valore di scambio dell'altra merce. Questo «trucco» rende possibile il paradosso delle società delle merci: l'apparenza letteralmente fisica dell'astrazione in quanto astrazione reale («È» - scrive Marx nella prima edizione de Il Capitale del 1867 - «come se accanto e oltre ai leoni, alle tigri, alle lepri e a tutti gli altri animali reali, che raggruppati costituiscono i differenti generi, le specie, le sottospecie, le famiglie, ecc., del regno animale, esistesse anche l’animale, l’incarnazione individuale di tutto il regno animale.» (Karl Marx, Das Kapital Bd. 1, Hamburg 1867, Reprint Hildesheim 1984, p. 27,); il paradosso di una forma vuota senza contenuto, poiché è lo stesso contenuto astrattificato a diventare espressione della forma. Nella merce che è stata scelta come merce generale, vale a dire il denaro, questo processo si compie e arriva alla sua conclusione: il corpo materiale della merce denaro detiene il valore d'uso di rappresentare il valore di scambio universale; la sua materia ormai non è più materia sensibile, il suo contenuto è diventato la forma astratta stessa. Questa connessione è inerente a priori all'astratto potenziale di utilità della merce come «valore», ossia, come valore d'uso che non scaturisce dal contenuto sensibile, ma solo dalla determinazione del prodotto nella logica della merce.
A partire da questa argomentazione, alcune ambiguità del dibattito abituale sul valore d'uso possono essere superate. Il tentativo frequente di un «orientamento al valore d'uso» da parte dell'economia sovietica, come presunta caratteristica strutturale non capitalistica, può essere decifrato come un momento dello sviluppo capitalista nel contesto di una società borghese nella fase di una modernizzazione in ritardo. Un tale orientamento al valore d'uso, rappresentato nella famosa «ideologia delle tonnellate», non avrebbe potuto essere un modo di andare al di là della logica dell'astrazione della forma merce, poiché essa rimaneva in relazione con quella che è un'utilità astratta, con la materia astratta, al di fuori dei bisogni sensibili e del godimento concreto. La duplice proiezione della «crescita» economica nazionale nelle categorie del valore d'uso e del valore di scambio, rifletteva solo la funzione strategica della burocrazia statale, per imporre, nel processo di industrializzazione in ritardo in forma di merce, alla società nel suo insieme delle priorità (industria pesante, infrastrutture), perfino contro il movimento degli interessi particolari delle unità economiche individuali. Non potrebbe avere avuto nulla a che fare con un «liberazione dei bisogni» dalla costrizione all'astrazione nella forma della merce.
Anche alcuni altri tipici equivoci, che inevitabilmente sorgono a partire dal riferimento positivo a un orientamento verso il valore d'uso, avrebbero potuto essere eliminati per mezzo di una critica sistematica del concetto di valore d'uso. Perciò si dice ripetutamente, e non senza ragione, che è proprio la logica capitalista dell'economia d'impresa che esige un controllo rigoroso della qualità dei valori d'uso. Al fine del successo sul mercato, allora non ci sarà alcuna differenza se un'impresa ottimizza la qualità materiale dei suoi prodotti pe affermarsi sulla concorrenza? Ovviamente sì, ma questo non si riferisce a ciò che riguarda il godimento sensibile e la soddisfazione dei bisogni sociali. In primo luogo, un oggetto non deve necessariamente essere qualitativamente«ottimizzato» per poter essere fruito (le ottimizzazioni materiali unilaterali, ad esempio la coltivazione dei pomodori che viene fatta secondo le norma di imballaggio che li rende quasi insipidi, tendono ridurre la soddisfazione sensibile). In secondo luogo, nella loro qualità materiale possono essere ottimizzate anche le produzioni distruttive. Se un tipico progetto piramidale di socializzazione feticistica (armamenti, centrali nucleari, oggetti di prestigio, ecc.) riversa nel paesaggio centomila tonnellate di cemento, non riveste alcuna utilità il fatto che si tratti di cemento di prima classe che sia stata materialmente testato. Esempi simili potrebbero essere fatti a molteplici livelli. Abbiamo sempre a che fare con l'orientamento al valore d'uso, ossia, con l'utilità astratta di materiali socialmente astratti. L'ottimizzazione qualitativa di questi materiali continua a muoversi nell'astrazione della logica della merce, poiché è la sua utilità stessa che rimane relazionata con un particolare punto di vista astratto di utilizzo. La materia astratta è - per usare un'espressione di Stephen Toulmin - «decontestualizzata»: pur essendo un oggetto sensibile, non si colloca in alcun sistema di riferimento che sia concretamente sensibile rispetto al suo utilizzo. A partire da un certo stadio di sviluppo, un simile sistema di valori d'uso tende a divenire una minaccia per la vita, su scala planetaria, dal momento che riesce a realizzare il paradosso di costituire una rete globale di forze e movimenti materiali sensibili della riproduzione umana, la quale allo stesso tempo si trova ad essere astrattizzata e decontestualizzata rispetto a qualsiasi riferimento materiale sensibile.
6 - Il misticismo della sfera del consumo
In quanto utilità astratta, il valore d'uso non può perciò andare a costituire un controcanto alla logica di astrazione del valore di scambio, ma è in sé un momento di tale astrazione reale e, in tal senso, anche parte integrante dell'universo maschile della società astratta e desensibilizzata. Se vogliamo trovare la relazione tra la forma merce e ciò che da essa è «dissociato», allora dobbiamo rivolgerci alla sfera che, nella realtà (e in contrasto con la forma astratta del valore d'uso della circolazione), ricade e si colloca fuori dal contesto formale delle astrazioni reali nella logica della merce: vale a dire, il consumo. Soltanto nel consumo i prodotti vengono liberati per il loro godimento sensibile o per l'uso reale, dopo che sono stati socialmente forgiati e temprati dalla macchia astrattificante che plasma la logica della merce. Tuttavia, qui va fatta ima differenziazione decisiva, al fine di evitare dei nuovi malintesi. In realtà, solo i prodotti realmente destinati al consumo individuale (ossia, il consumo umano diretto) vengono «liberati» per il godimento sensibile. Solo in questo senso si può parlare di consumo come una sfera dissociata, o caduta fuori. Al contrario, tutti quei prodotti il cui consumo diventa direttamente parte di un processo di valorizzazione dell'economia imprenditoriale (beni di capitale, come i macchinari, gli utensili ecc.) e che non abbandonano mai la compulsione alla forma astratta della logica di mercato, pertanto non escono mai dall'universo «maschile». In questo «consumo produttivo» non c'è mai né dissociazione né fuoriuscita. All'attuale livello di sviluppo del sistema totale delle merci, che rivela il suo assurdo proposito proprio a partire da questa sua nudità, questi prodotti, il cui consumo «produttivo» non esce mai dallo spazio di astrazione della forma merce, dovrebbero ormai già costituire la stragrande maggioranza. Solamente il consumo individuale, che viene realmente erogato ai fini del bisogno umano, appare come uno spazio dissociato, in cui si dissolve la costrizione a conformarsi alla logica della merce.
Questo consumo individuale, che si colloca fuori dalla forma astratta delle merce, sembra pertanto essere quella sfera che inizialmente corrisponde maggiormente al dissociato contesto femminile della vita. È a partire da questo che dovrebbe essere fondamentalmente chiarita la relazione tra dissociatore e dissociato. La logica della merce, nel suo dispiegamento storico, è un processo nel quale una forma diventa paradossalmente un contenuto; o, detto in altre parole, un processo in cui un'astrazione diventa un oggetto tangibile in sé. Questo paradosso sociale costituisce uno spazio di astrazione reale, che deve stabilirsi come una totalità, come un assoluto che deve affermarsi come un universo. Però, da qualche parte questo movimento apparentemente autosufficiente e totalizzato deve poter lasciare aperta, per così dire, una via d'uscita o una scappatoia pe risensibilizzare la materia paradossalmente astrattificata, poiché la logica autoimposta è «logicamente impossibile». Il passaggio al consumo individuale ne è il complemento. Questo consumo è, per così dire, la necessità accettata a malincuore, con riluttanza, di dover fare una concessione alla vera non universalità della forma astratto-universale. Il prodotto astrattificato, forgiato sotto forma di merce, «ricade» fuori dalla sua forma sociale, in un altro mondo che dal punto di vista della totalità universalista, in realtà non dovrebbe neppure esistere.
È così che questa insidiosa sfera viene vista nella forma della merce, attraverso lo sguardo astrattificante dell'identità maschile; come in un mix di rabbia, ripugnanza, paura o, perfino, riverenza e senso di colpa. Dalla prigione dell'astrazione della forma totalizzata della merce, la banale sfera del consumo viene percepita come attraverso un oblò che apre uno sguardo ristretto su qualcosa di assai diverso, quasi mistico, ma anche di estraneo e sconosciuto che dev'essere rifiutato e represso. Questo Altro mistico è la materia in sé sensibile, indipendentemente dalla forma astratta, ma che proprio per questo appare in maniera minacciosa (o repulsiva) come priva di forma, amorfa, fluida, agonizzante. Anche le analisi di Marx, circa questo punto pericoloso (così come quelle di Freud), si fermano, nella misura in cui esse hanno le proprie radici in quella che è la comprensione maschile della scienza; ed egli si limita solo a mormorare qualcosa a proposito del fatto che qui il «valore d'uso» ricade fuori dall'economia politica. E poiché è qui che è situato l'ingresso alla «stanza proibita», alla terra incognita del contesto femminile di vita dissociato, il quale appare bizzarro proprio a partire dalla sua banalità del tangibile.
A partire da questa analisi, appare già chiaro che la costituzione di questa dissociazione non può essere separata storicamente dallo scatenarsi della produzione delle merci. La «condizione» per la forma merce è la dissociazione del contesto femminile di vita, non nel senso una precedenza temporale, ma nel senso di una «condizione di possibilità». Non è che gli uomini abbiano prima, in un'epoca propria (pre)storica, dissociato il contesto femminile di vita, per poi ad un certo punto cominciare a produrre merci e la loro logica di astrazione. Al contrario, la precondizione nasce insieme a quello di cui essa ha bisogno. Dissociatore e dissociato stanno in una reciproca relazione causale, e dipendo l'uno dall'altro. Le condizioni e i processi storici empirici, a partire da quali si è sviluppato questo paradosso della civiltà in forma di merce con la sua connotazione sessuale, non sono di certo senza significato (e l'etnologia, l'archeologia, la filologia ecc. hanno di certo già accumulato una massa di fatti da valutare). Tuttavia, la ricostruzione della genesi storico-empirica non può essere decisiva si fini della comprensione della relazione logica strutturale, e neppure, pertanto, per la formulazione del teorema della dissociazione in quanto tale.
Nella misura in cui dissociazione e dissociatore sorgono l'una dall'altro, questa relazione si consolida anche come una struttura che può essere considerata a sua volta una meta-struttura delle strutture interne alla forma merce. La sfera dissociata è l'«Altro» della forma merce, come una sensibilità che esiste in sé, ma che è anche come dissociata e, pertanto, nuovamente no lo è in sé stessa. Il paradosso della struttura stessa della merce si riproduce come paradosso della meta-struttura. Esso non può più essere compreso per mezzo della logica (maschile, in forma di merce) della scienza e della sue categorie, poiché queste corrispondono alla logica interna alla forma merce e devono definire tutto ciò che ricade al di fuori di essa in quanto non-logico, per cui non esistono né termini né categorie, eccetto il concetto di non-concettuale. La logica della dissociazione è dunque l'unità del logico e dell'«illogico», della forma e della (apparente) mancanza di forma. SI tratta di una meta-logica, la cui comprensione critica potrebbe portare oltre la comprensione della scienza fin qui esistenze (essa stessa successiva alla dissociazione, e quindi priva di conoscenza di sé stessa).
Tuttavia, l'unità negativa tra forma merce e contesto dissociato femminile di vita rende anche chiaro che, a questo livello della meta-struttura, non esiste un contro-polo ontologicamente «buono», così come non esiste al livello della struttura interna della merce stessa. Il contesto femminile vita, dissociato (e ciò per l'appunto proprio nella sua situazione di dissociazione), è tanto un momento alienato della storia della deformazione e distruzione della produzione di merci quali il «lavoro» e il «valore d'uso», nello spazio interno della merce; con la differenza che si tratta solo di un momento segregato della forma stessa, che tuttavia non diventa qualcosa di meramente esterno, ma aderisce all'«interno» delle relazioni sociali dei soggetti della merce. In contrasto con la forma dell'astrazione reale connotata come maschile, il femminile dissociato non rappresenta l'altra forma sociale concreta liberata, ma è piuttosto l'«altro» di quella che è la forma stessa in sé in generale, vale a dire, l'assenza di forma. La forma dell'astrazione totalizzante della merce non tollera altra forma che non sia quella di sé stessa; si vendica di quello che non può assorbire e integrare totalmente, degradandolo alla mancanza di forma. Ed è per l'appunto questa assenza di forma a rendere davvero terrificante il contesto femminile di vita dissociato, presentandolo come se fosse qualcosa di estraneo (reso estraneo perfino per le loro portatrici), come qualcosa di minaccioso e irritante nella sua terribile banalità. Pertanto, non è ciò che è dissociato in quanto tale a dover essere modificato (questa sarebbe la logica della «differenza»), e non si tratta neppure di eliminare la dissociazione in quanto mascolinizzazione e astrattificazione della donna vista come essere somigliante alla merce (e questa, invece, sarebbe la logica dell'«uguaglianza»). Piuttosto, al contrario, la dissociazione va superata insieme alla forma merce stessa, connotata come maschile, dal momento che «è» questa dissociazione il suo stesso «altro» nel contesto del contro-polo sessuale degradato.
Il consumo che ricade al di fuori del contesto della forma merce (e questo è l'unico di cui ci siamo occupati finora, nella misura in cui esso costituisce l'ingresso nel regno dissociato del femminile) non è una sfera indipendente in grado di costituirsi socialmente, ma è piuttosto il momento dissociato della riproduzione sociale, il quale non può essere compreso attraverso ciò che nella forma di merce ne costituisce la formazione ufficiale. Esso rimane dipendente e inferiore proprio perché è una sfera dissociata, e come tale, a un meta-livello, è anch'essa astratta, dissociata dal regno del movimento sociale della forma, connotato come maschile. La forma astratta corrisponde all'astratta assenza di forma. L'utilizzo e il godimento tangibili, degradati a sfera dissociata, non possono sfuggire al potere desensibilizzante della forma merce, poiché il prezzo per la liberazione da questa compulsione alla forma, è la mera assenza di forma sociale. Per questa ragione, il femminile dissociato «in sé» non resiste alla dominante astrazione reale, ma si limita a modellare e decorare quello spazio sociale di consumo personale nel quale i prodotti, dal punto di vista «maschile» del movimento della forma capitalista, appaiono come se fossero solo escrementi tangibili del processo «reale» di valorizzazione. La donna in quanto donna non contesta la mania della mascolinità, ma soccombe alla mania della femminilità socialmente senza forma. Come femminilità attribuita, non attacca e non aggredisce la follia distruttiva e oggettivata - per esempio, quella del trasporto automobilistico individuale - ma si limita a fare solamente un coperta di lana all'uncinetto, da usare per il rotolo di carta igienica nel ripostiglio.
7 - Che cos'è la sensibilità?
Naturalmente, il contesto di vita femminile non si esaurisce nel concetto di consumo. Il consumo è innanzitutto il «punto di cerniera» (R.Scholz) che segna la transizione. Il regno della femminilità dissociata è, nel suo insieme, assai più ampio; oltre che il consumo in senso stretto, include anche delle «sfere» come l'affetto umano, la cura e l'assistenza, l'erotismo e la sessualità, l'«amore». Pertanto, non si tratta solo della preparazione dei prodotti che non rientrano nella loro forma di merca ai fini del consumo umano reale, ma piuttosto di uno spazio che ha l'aura della sensibilità per eccellenza. Questa problematica allargata solleva naturalmente la questione che riguarda il concetto e il carattere della sensibilità. Dopotutto, ciò che abbiamo detto finora dovrebbe aver chiarito che questo concetto di sensibile, in primo luogo, non può essere colto senza fare riferimento alla logica della merce e, in secondo luogo, proprio per questa ragione, non può essere formulato come concetto critico del modo astratto-universalista, ma soltanto nella sua duplice e contradditoria connotazione di genere (e questo si riferisce di nuovo al problema delle categorie logiche in generale, che qui non può essere trattato più in dettaglio). In ogni caso, anche queste piste preliminari mostrano come il concetto di dissociazione, in questo senso ampio (andando al di là di un mero significato psicologico o psicoanalitico), potrebbe guadagnare una nuova dimensione nella critica del pensiero che definisce il sistema logico delle categorie e il concetto di scienza. Fino a oggi, ogni categoria logica (inclusa la dialettica) ha nascosto la connotazione sessuale dei concetti e ha anche incoraggiato così facendo il loro carattere riduttivo, anche quando li ha criticati nella sua volgarità positivista.
Significativamente, o la filosofia maschile astratto-universalista non era interessata al sensibile nella sua esistenza concreta e qualitativa, lasciandolo ricadere fuori dalla logica sistemica ai suo vari livelli (come fa il Marx del «valore d'uso» dell'economia politica), oppure il sensibile, nel suo essere improvvisamente astratto, veniva trasformato in pensiero sotto la forma maschile della merce e, quindi, reso inoffensivo. Con il crescente progredire della totalitarizzazione della merce, con le sue sofferenze e i suoi deficit, questo concetto astratto di sensibile (assai spesso sinonimo di «vita»), si è tuttavia trasformato nella mobilitazione di un irrazionalismo astratto (filosofia di vita, pessimismo culturale ecc.) che è stato osservato già a partire dal Romanticismo. Qui, la cosa essenziale è che il sensibile è considerato separatamente dalla forma sociale (sotto questo aspetto, anche astrattamente) e pertanto rimane concettualmente non problematico, ma è proprio per questo che rientra, per così dire, problematicamente dalla porta di servizio, e quindi sotto forma di figure bizzarre e strane.
Ovviamente, la difficoltà consiste nel fatto che quello che è un duplice concetto di «sensibilità» viene realmente trasferito già scisso tra «etica» ed «epistemologia» (costituendo in generale, apparentemente per la prima volta, un tale dualismo filosofico). In primo piano, il sensibile appare come epistemologicamente neutro e non caricato di valutazioni, come se fossero delle semplici oggettualità sensibili, come se fosse un qualcosa di esterno al «mondo sensibile»; e questo indipendentemente dal fatto che si tratti di un labbro che bacia, di una foglia, di un albero, di una sedia; oppure di una «donna». Ecco perché, al livello della kantiana «cosa in sé», c'è una vecchia battuta secondo cui non si riesce a distinguere tra una donna e una sedia. Questa reificazione messa in atto per mezzo di un grossolano umorismo, può ben presto diventare una triste «realtà», per esempio, nell'allucinazione come nel caso di quell'«Uomo che scambiò sua moglie per un cappello» (Oliver Sacks). Qui, la dimensione nascosta è data dalla griglia sociale e storica di ciò che i sensi (intesi come un mero apparato cognitivo strumentale) percepiscono. Il summenzionato neurofisiologo Oliver Sacks, si occupa soprattutto di quelle deficienze neuronali causate da incidenti o tumori. Tuttavia, egli mette in discussione il prevalente concetto meccanicistico della realtà e della scienza. L'«assurda astrazione della posizione», che può essere osservata in pazienti con sindromi del lobo frontale, gli appare come un «avvertimento e una parabola» per la stessa neurofisiologia, e per la scienza in generale: «Come se fosse il risultato di una comica e deplorevole analogia, quelle che attualmente sono la nostra neurologia e psicologia cognitiva hanno parecchio in comune» con i pazienti. Mentre la «capacità di giudizio» di un cervello intatto porta a un giudizio olistico che è «intuitivo, personale, esauriente e concreto», l'«atteggiamento astratto» riesce a percepire solo elementi astratti, e non può mai designare gli oggetti in quanto tali (per esempio, una rosa o un guanto), o riconoscere dei tratti personali (per esempio, le facce); esso ha «problemi con tutti gli esseri viventi» in generale. Dal momento che le scienze cognitive bandiscono «il sentire e il giudicare, e quindi il personale», e così facendo «riducono la percezione del concreto e del reale», esse finiscono per soffrire «perfino di un'agnosia», la quale non è «sostanzialmente diversa» da quella di coloro che sono neuralmente disturbati (Oliver Sacks, "L'uomo che scambiò sua moglie con un cappello"; qui non è difficile riconoscere la struttura di base, socio-storica e di genere, del meccanismo della dissociazione, e di come avviene: Kant presenta per la prima volta questo problema della griglia, ma ne fa immediatamente un problema a-storico relativo alle forme di pensiero umano in generale, la cui costituzione sotto forma di merce non deve pertanto essere considerata). Il carattere «sensibile-soprasensibile» e «fantasmagorico» (Marx) del mondo delle cose costituito nella forma della merce (e che viene anche percepito inconsciamente sotto questa forma), come preformazione dell'apparato sensoriale, è del tutto assente in questo concetto troppo semplice di sensibile, ma insieme ad esso si trova ad essere assente anche la connotazione di genere di questa struttura sociale di percezione, di esperienza e di azione. In un mondo stregato dal feticismo della merce, la determinazione astratto-universalista, puramente espistemoligica (in realtà, nella forma maschile di merce) ignora completamente il fatto per cui l'apparato cognitivo sensibile, fisiologicamente identico, consente che uomini e donne percepiscano e sperimentino ciò che è sensibile in maniera completamente differente.
Clandestinamente, tuttavia, all'improvviso, nel contesto del meccanismo di dissociazione sociale sessuale, ecco che il sensibile appare del tutto carico di «valorizzazione». «Che cosa dovrebbe essere sensibile in una casalinga coi bigodini nei capelli?» (questa domanda esemplare - vista come se fosse una critica orale del teorema della dissociazione - è stata effettivamente formulata in questo modo nel corso del seminario sulla relazione di genere che era stato organizzato dalla relazione di «Krisis»). La comprensione del sensibile - neutra, in termini di valore e di genere, e puramente epistemologica - ecco che si smentisce e si vergogna non appena il femminile viene «valorizzato» in maniera sensibile, e ciò di fatto avviene non in quanto soggetto che percepisce la conoscenza, ma come oggetto di essa. La «valorizzazione» e l'oggettificazione (reificazione) del sensibile nella figura speciale di quello che è un dominio femminile dissociato (come l'altra faccia della reificazione, in forma di merce) si trovano, pertanto, ovviamente in sintonia. In quanto modo apparentemente neutro dei sensi, per eccellenza, il sensibile resta preso nella rete dell'astrazione della «conoscenza» maschile sotto forma di merce; come oggetto femminile, invece, il sensibile dev'essere qualcosa che viene valutato positivamente, come se fosse una qualche sorta di prestazione, o di qualità speciale che può anche non esserci.
Sostanzialmente, abbiamo di nuovo a che fare con la differenza tra valore d'uso e godimento reale. Il sensibile in generale, come corporeità neutra, o percepibile dalla volontà sensibile, appartiene all'universo maschile; gli fa corrispondere la materia astrattificata del valore d'uso, restando indifferente rispetto a quella che è la sua astratta utilità e, pertanto, la sua astratta sensibilità. Il sensibile, viceversa - in quanto «confort» desiderato che la donna deve organizzare, tra l'altro, per mezzo di quei prodotti espulsi dal processo di valorizzazione -, dev'essere protetto grazie al contesto femminile di vita; e corrisponde a un uso reale (almeno è questa la sua intenzione) o un godimento reale. In questo spazio dissociato, le differenze qualitative diventano visibili e tangibili; abbiamo una sensibilità «buona», una meno «buona», e una «cattiva». Ed è qui, per esempio, che incontriamo il «maestro» della dissociazione, vale a dire, l'uomo votato a quella che è l'espressione compulsivamente eterosessuale e astratta, e che ottiene sempre esattamente quel che merita: ossia, proprio quella megera con i bigodini nei capelli.
La donna, nella misura in cui è un «essere dissociato», diventa così responsabile della preparazione del consumo. È ben noto che quando il prodotto esce dal suo contesto formale, nel momento e nel punto in cui ridiventa un prodotto tangibile, ha luogo tutta una serie di attività di trasformazione, che difficilmente sono meno sudate del lavoro astratto che lo ha prodotto. In quanto cose imballate, standardizzate, essiccate, surgelate o quanto meno semplicemente morte e crude, i prodotti non sono commestibili. Ma è chiaro che non si tratta solamente dell'attività di preparazione che è a carico della donna. Lei, lo deve anche fare con «amore», vale a dire, deve creare un'aura di affetto e di erotismo intorno alla mera preparazione, che è complementare alla maternità e alla cura dei figli. In ultima analisi, lei deve «prepararsi», in quella che è la sia corporeità, come se fosse un prodotto per il godimento sensibile dell'uomo. È lei che prepara i prodotti, ed è lei stessa ad essere un prodotto che prepara sé stessa. In questo dissociato contesto femminile di vita, l'uomo, esausto per lo svolgimento dei suoi compiti astratti riferiti alla forma merce, deve poter posare la testa, in modo da riposare; e così, alla fine, abbiamo un contesto femminile di vita per l'uomo.
Rispetto a una simile costellazione (ideal-tipica, strutturale-logica), è implicito fin dall'inizio un vero e proprio dilemma. Il punto decisivo che non può essere superato sul terreno del sistema delle merci è, innanzitutto, la sensibilità maschile. È chiaro che in termini puramente fisiologici, l'uomo sia un essere altrettanto sensibile di quanto lo sia la donna. Tuttavia, in quanto ideale prototipico lavoratore astratto, e portatore socio-storico dell'astrazione reale, l'uomo deve realizzare su sé stesso la medesima operazione di astrazione che egli impone al mondo. Il suo corpo diventa una una macchina corporale corazzata che deve funzionare, e che viene alimentata ed è dotata di accessori. Un uomo non è (non deve essere) buono. La sua sessualità viene ridotta al famoso punto singolo, a brevi colpi o a rapidi movimenti della mano, alla penetrazione rapida e aggressiva (sindrome del coniglio). È un lavoro che dev'essere eseguito (le espressioni che identificano tanto le azioni monetarie quanto i bisogni, possono essere tranquillamente estese anche alla sessualità maschile, come se fosse tutto ideal-tipico). Il suo vestiario (in special modo gli abiti di lavoro e quelli sociali) è rigido, opaco, grigio o nero, quanto meno sobrio; e sempre con una corda al collo, tanto più imprescindibile quanto più l'uomo è importante e rilevante. La sua esperienza vitale è stimolante non ha a che vedere con il godimento sensibile, quanto piuttosto con il successo astratto. Il godimento nel mondo dei sensi e il successo nel mondo della merce si escludono a vicenda. L'insensibilità dell'astrazione reale, diventa così la proverbiale insensibilità dell'essere maschile di successo, il deserto interiore. Per l'appunto, l'uomo non riesce a rimanere nella sua mascolinità della merce. E di conseguenza, diventa intrattabile.
La sensibilità maschile si trova così a essere ridotta fino all'atrofia, e lo diventa ancora più nella misura in cui la forma merce divora quelle che erano le forme premoderne della riproduzione e del soggetto. Gli uomini, «smettendo di amare» (Wilfried Wieck), smettono anche di essere «sensibili», poiché devono diventare insensibili loro stessi. Il modo in cui gli uomini dominano sul contesto femminile di vita creato dal meccanismo della dissociazione, ricorda fatalmente il modo in cui il capitale domina sulla materialità del mondo: nessuno dei due riesce ad arrivare al contenuto reale in sé. Esiste un aneddoto a proposito di Henry Ford, il quale, nel corso di un'udienza in tribunale, ammise la propria incompetenza personale per quel che riguardava un problema concreto, materiale, dando come risposta: «Su tale questione sono un esperto assoluto, così come lo sono in qualsiasi altra questione, dal momento che in qualsiasi momento sono in grado di poter comprare i migliori esperti del mondo». Questa «competenza», esternalizzata e reificata rispetto al contenuto, al di là della sua spiritualità e corporeità, per rivelare la sua totale assurdità e perversità, non ha alcun bisogno di venire esagerata. Visto che Ford avrebbe potuto anche dire: «sono brutto come la merda e sono impotente, ma posso mandare per scopare al mio posto il più bell'Adone che esista; il mio stomaco è stato asportato, ma posso avere, che mangi al mio posto il più raffinato dei gourmet.», e così via. Si tratta della stessa relazione, ripugnante e perversa che l'uomo, in quanto essere desensibilizzato e di successo, intrattiene con quell'eterno godimento, nel suo dominio sulla sensibilità della donna confezionata «per lui», ma che non può più raggiungere. L'uomo è il Sisifo della sensibilità, per così dire, ma egli lascia che sia la donna a spingere il masso.
La sensibilità dissociata della donna sta in una relazione di reciprocità con quella dell'uomo dissociatore. In certo qual modo, ai fini di questa relazione strutturale del meccanismo di dissociazione, si può anche assumere l'immagine biblica di Eva che esce dalla costola di Adamo. Interpretato in maniera diversa, questo quadro non mostra tutta la superiorità, la priorità e l'«autenticità» dell'uomo, ma piuttosto la perdita oggettivata dell'«uomo integrale». Adamo perde la propria «costola» (vale a dire, la sua sensibilità, la capacità di sentire), mentre Eva viene resa semplicemente il mero recipiente di ciò che è stato dissociato. Pertanto, non è che Eva viva la sensibilità che Adamo ha perso. Vivere la sensibilità significa viverla con consapevolezza, e non essere solamente tale sensibilità. In ogni caso, l'uomo considera la coscienza, la capacità di astrazione, la «comprensione» come se fosse una sfera del «lavoro» e del successo, separata dalla sensibilità. In questo modo, la mascolinità dominante, in quanto coscienza mentale astratta della forma merce che non può più tornare a essere sensibile, e la femminilità, posta come inferiore in quanto sensibilità dissociata che non può tornare ad essere mentalmente consapevole, sono irrimediabilmente contrapposti. Un essere che deve letteralmente passare gran parte (e a volte la maggior parte) del suo «tempo libero» «a vestirsi» come un «oggetto del desiderio» non può, per questa sola ragione, qualsiasi significativo interesse intellettuale. Qualsiasi capacità intellettuale, per quanto possa essere grande, deve sentirsi disonorata quando la sua portatrice viene socializzata come un attaccapanni ambulante e una bambola Barbie a grandezza naturale, per non parlare delle gioie della maternità e altre cose del genere. L'impulso femminile (per effetto socializzato) a doversi perennemente vestire in maniera da attrarre compulsivamente l'attenzione come se fosse un oggetto, non ha niente a che vedere con la questione estetica. Questa compulsione nevrotica della mania della femminilità, è semplicemente complementare a quello che è il triste abbigliamento cadaverico della mania della mascolinità astrattificante che si eccita per il successo. Già a partire da queste apparenze esteriori, la sensibilità dissociata del femminile diventa chiara quando viene vista come ridotta e a sua volta come reificante: la donna è sensibile attraverso, e nel suo farsi oggetto per l'uomo.
Ma così come l'uomo senza sensibilità sa ben poco di cosa farsene delle performance sensibili senza spirito delle donne, ecco che si preannuncia quel diverbio che per secoli è stato tema di storie e battute sessuali e coniugali. La sua indistruttibilità sottolinea quanto sia tenace una tale costellazione. Proprio perché l'uomo, il quale è obbligato alla compulsione della propria prestazione nella sfera pubblica delle merci, egli tende costantemente ad una totale incapacità di godere, e si accorge a malapena della costante sintonia con la donna nella vita quotidiana. Si ingozza, spingendo il cibo dentro la bocca, «si siede come se fosse un pilastro di cemento di fronte al televisore» (detto da una donna nel corso di un sondaggio televisivo sull'argomento), parla in maniera autistica dei suoi progetti, comunica a malapena personalmente, accetta le azioni sensibili della donna come se fossero quelle di un distributore di sigarette. Non c'è da stupirsi che la donna cominci gradualmente a ridursi con indifferenza ad una «casalinga con i bigodini nei capelli». Ma, in più, è sotto il peso di richieste ridicole che la «buona» sensibilità della donna si sgretola e diventa «cattiva». Le prestazioni della famosa «vacca che depone uova e dà anche la lana e il latte» vanno valutate al ribasso rispetto a ciò che viene richiesto alla femminilità ideal-tipica vista nel suo contesto di vita dissociata. Allo stesso tempo, gestire la casa (anche facendo uso di moderni elettrodomestici), diventare madre o prendersi cura dei figli, e possibilmente presentarsi, fino alla vecchiaia, come un oggetto eroticamente desiderabile diventa un'esigenza generale che richiede capacità sovrumane, che praticamente non può mai essere soddisfatta. Pertanto, la donna deve necessariamente fallire e scatenare la lugubre domanda maschile circa cosa mai sarebbe così sensibile in lei, dopo che è stata resa uno spaventapasseri dalle impossibili pretese della sfera dissociata.
8 - La miseria del lusso capitalista
In questo perverso legame tra desensibilizzazione e sensibilità reificata, troviamo anche tutto quello che nel sistema della produzione di merci viene etichettato come «lusso».Naturalmente, da un punto di vista puramente esterno, lo sviluppo delle forze produttive capitaliste ha stimolato, e ha tremendamente aumentato la produzione di lusso. Tuttavia, questo non è in alcun modo un contrappeso per l'«etica protestante» (Weber) del lavoro astratto. A suggerire questo è Werner Sombart, che dichiara, in un misogino attacco di ironia, la «necessità del lusso per la femmina» come origine del capitalismo moderno. Nell Roma del XVI secolo, alcune cortigiane di alto bordo sarebbero state presumibilmente responsabili del decollo del capitalismo, nella misura in cui la «femmina» alla «ricerca del piacere», e desiderosa di lussuosi «incontri clandestini», ottenne quasi segretamente un nuovo concetto di lusso. Il lusso pubblico e personale (tornei e sfilate, numerosi servitori) venne sostituito dal lusso privato e oggettivato (vita familiare, mobili, opere d'arte, prelibatezze). In questo modo, la «golosità» delle «femmine» avrebbe realmente stimolato l'accumulazione originaria del capitale (Werner Sombart, Liebe-Luxus-Kapitalismus, 1912) [Werner Sombart, Lusso e Capitalismo. All'Insegna del Veltro, 1982]
È ovvio che quest'argomentazione è così tanto grottescamente esagerata che lo stesso Sombart poteva presentarla solo a partire da un risentimento maschile. L'oggettività della ricchezza nella prima fase di decollo del capitalismo, a partire dalla colonizzazione iberica avvenuta nel XVI secolo, venne realizzata principalmente per mezzo di edifici pubblici rappresentativi e attraverso la formazione di eserciti permanenti, dando inizio a un'industria degli armamenti (armi da fuoco) che lo stesso Sombart conosce e sviluppa altrove. Tutto ciò non suona molto femminile. Anche nel periodo successivo, il consumo di lusso borghese privato rimase un settore troppo limitato per innescare impennate di accumulazione indipendenti. Ciò che Marx aveva chiamato «il lato civilizzatore del capitale», la massa di merci anticamente di lusso (e che perciò hanno quindi perso il loro carattere di lusso), non solo è ora un'altra storia, ma non ha quasi niente a che vedere con la peculiare «golosità delle femmine». Pertanto, nell'argomentazione di Sombart (L'opera principale di Sombart tratta i diversi momenti della storia del sorgere delle moderne società capitaliste, ciascuna delle quali viene elaborata nel corso di estese monografie, analoghe per esempio a quelle di Marx Weber a proposito dell'etica del protestantesimo, sul ruolo della «personalità imprenditoriale» ecc.). Il libro significativamente breve sul lusso e sulla «femminilità» nella genesi del capitalismo, appare quindi solo come una sorta di «ciliegina sulla torta» di una «grande opera» di diligenza scientifica maschile. Sembra quasi di trovarsi piuttosto davanti al risentimento misogino dell'uomo desensibilizzato, che cresce a dismisura inasprendosi fino al grottesco dell'analisi, ironizzando sul femminile dissociato da esso in quella che è la sua esistenza inferiorizzata come il vero motore della storia (potendo così assicurarsi ancora oggi l'applauso derisorio del club degli uomini).
Innanzitutto, però, il punto non è che una donna possa mobilitare la necessità sensibile del lusso «per sé stessa» e nel suo proprio «interesse». Per farlo, dovrebbe essere quel soggetto cosciente, capace di appropriazione cosciente, che non è. Di fronte all'«etica protestante» dell'uomo astrattificatore, la donna non rappresenta il polo opposto del godimento lussuoso, ma solamente la ricchezza reificata e oggettivata , di cui lei non può più godere. Pertanto, la femmina che fa un bambino e che si veste come un oggetto erotico non è altro che l'altra faccia della stessa incapacità di godere. Dal momento che al donna deve classificare anche sé stessa e la propria corporeità tra gli oggetti di lusso, non può esserne la beneficiaria. Inoltre, il contesto femminile di vita, nella sua reale quotidianità, non è di per sé libero da quelle che sono le norme «protestanti», come dimostra uno sguardo a quella che ancora oggi è la volgare esistenza delle casalinghe (mania della pulizia, puntualità delle faccende ecc.).
Sia per gli uomini che per le donne, per quanto la logica del meccanismo di dissociazione sia invertita, il «lusso» in forma di merce rimane un'oggettività morta. Per entrambi, il «lusso» scompare fagocitato dall'arbitrarietà della forma merce, la quale colloca in uno stato di indifferenza perfino il più raro dei godimenti (è ovvio che ci siano delle grandi differenze storiche tra le corti romane del XVI secolo, l'atteggiamento di Werner Sombart relativamente alla vita nel 1912 - a partire dalla quale ha creato la sua «femmina di lusso», ironicamente apostrofata - e il concetto di lusso proprio del «capitalismo da casinò», a partire dalla metà degli anni '80, che esamineremo da qui in avanti). Fondamentalmente, mi preoccupa soprattutto la relazione logico-strutturale che, per poter essere esposta, giustifica i più diversi livelli di riferimento, senza cercare di livellare le differenze storiche. Marx, per esempio, nel primo capitolo del Capitale non procede diversamente in quella che è l'analisi strutturale elementare della forma merce; e lo stesso procedimento lo si può vedere quando si tratta dell'analisi altrettanto importante del meccanismo della dissociazione e del suo formarsi (per esempio, per quel che dice riguardo al concetto di lusso). In entrambi i casi, il godimento degenera in un mero status symbol esterno, in una disgustosa confusione, il cui sfondo è la più misera autoaffermazione in situazioni di eterna concorrenza. La desensibilizzazione dell'uomo meccanizza il suo godimento, così come la sua sessualità, riducendola a una esecuzione meccanica. In assenza di altri sensi, ritiene di stare nel «lusso» quando ordina il più costoso, senza essere realmente in grado di distinguerlo dalla spazzatura. Il godimento della donna, invece, porta all'acquisto compulsivo, al kitsch e alla bulimia. Né la coscienza dissociatrice né la coscienza dissociata sono capaci di banchettare; per loro non sono accessibili né un bel banchetto né un godimento raffinato. Ciò che viene scambiato per essi, sono solo del patetici lampi di un'agonizzante furia di autoaffermazione, di autorappresentazione e di auto-reificazione. Lo yuppie pseudo lussuoso incarna la menzogna della vita.
Nemmeno la ricchezza reificata del mondo infinito delle merci è vera ricchezza. La vera ricchezza è la ricchezza del «tempo libero» (Marx), non solo in senso quantitativo ma anche in quello qualitativo: ricchezza di tempo che non sia preformata dall'autoaffermazione astratta e dall'autorappresentazione compulsiva del soggetto delle merci. Ecco perché la guerra contro i «falsi bisogni» non era semplicemente sbagliata, e non è affatto terminata. Ad essere sbagliata, fu la svolta reazionaria contro le forze produttive in sé, il fissarsi sul lato tecno-industriale della società totale, senza mettere radicalmente in discussione la sua forma (la critica della forma sociale, da parte del vecchio anticapitalismo era riduttiva e, pertanto, assai miope, dal momento che si riferiva soltanto all'«appropriazione» del «plusvalore» da parte dei «proprietari privati», ma non alla forma feticistica della merce in sé. Una critica della tecnologia e della scienza, che era critica delle forze produttive, divenne perciò un inevitabile complemento antipode (e, a sua volta, altrettanto riduttivo); così, inizialmente, nella storia della Nuova Sinistra sostituì, sotto forma di ideologie verdi alternative, il vecchio anticapitalismo. Oggi è in atto una svolta e un cambio di rotta verso la critica della forma, ma stavolta è incline alla critica fondamentale della forma merce feticista in quanto tale. Qui non si tratta solo della forma sociale delle cose, che le avvelena, ma anche, allo stesso tempo, della forma degli stessi soggetti, la quale appare, nei sessi, come se fosse una dicotomia del meccanismo di dissociazione. Abbiamo a che fare con povere creature infelici che mangiano tagliatelle col salmone e che si considerano importanti se tengono tra le mani una coppa di champagne. Soprattutto nel loro tempo libero sono molto poveri, e quanto meno devono comportarsi disperatamente come «occupati», perché il processo permanente e astratto di rendersi auto-produttivo costituisce la sua auto-immagine, cosa che dà origine alla vuota gestalt del «successo» (che quasi sempre rimane in qualche modo nello status di «millantatore».
Ad esempio, senza la compulsione del lavoro, del lindore e del successo il lusso, senza la mediazione del denaro né la deformazione competitiva del soggetto, il lusso sarebbe quello di praticare per un anno l'ascesi monastica; scelgo questo esempio come una provocazione consapevole, anche con il rischio che un tipico critico di sinistra (o un postmoderno illuminato) scelga proprio questo passaggio e faccia apparire che io voglia mandare le masse in un povero monastero, e cavalcare così l'onda esoterica. Il fatto che uno stato consapevole e temporaneo di ascesi, di auto-immersione e di riflessione - che elimini la sazietà come stimolo esterno - possa essere un'esperienza gradevole, potrebbe forse, tuttavia, essere compreso. Un grossolano concetto materialista di lusso, può essere comprensibile in condizioni in cui la brutale povertà offusca tutte le altre questioni, e la fame diventa letteralmente dittatoriale; ma quando si tratta di riflettere sul livello storicamente raggiunto dalle forze produttive, un concetto «materialista» di lusso così riduttivo può sembrare solo esageratamente stupido. In realtà, nessun individuo socializzato nel fordismo può permettersi il lusso di un anno di ascetismo monastico, né oggettivamente è soggettivamente, e questo anche se i monasteri, in difficoltà finanziarie, abbiano cominciato recentemente a offrire corsi di meditazione di 14 giorni. Dal punto di vista capitalistico, naturalmente c'è «tutto», ma solo come imitazione e sostituto, ridotto nel guscio di plastica della logica della merce. Oppure, per puro piacere, si può realizzare un progetto di ricerca sull'architettura barocca. Nel racconto "La Sirena", Tomasi di Lampedusa descrive l'incontro erotico tra un giovane e una immortale; ma proprio in una situazione in cui la ricchezza reificata, logicamente deformata. si era ritratta: «E, a dire il vero, il sole, la solitudine, le notti passate sotto il roteare delle stelle, il silenzio, lo scarso nutrimento, lo studio di argomenti remoti, tessevano attorno a me come una incantazione che mi predisponeva al prodigio.». Ecco, questa è una metafora del vero lusso, in cui i momenti di semplicità e di frugalità non appaiono come forme di povertà e perdita di civiltà, ma si combinano con il più alto livello di godimento e di coscienza culturale.
Se misurato a partire da un simile concetto di lusso, lo yuppie orientato alla performance e al successo, com la sua pseudo conoscenza e il suo esteriorizzato sfoggio di lusso senza vita, può essere considerato tutto tranne che la manifestazione di un essere umano capace di godere. Al contrario, questa manifestazione è forse ancora più evidente proprio laddove le donne e gli uomini che criticano il consumo cercano di evitare la pressione della competizione e del successo, e rinunciano all'eterna finzione dell'autorappresentazione e propugnano «La scoperta della lentezza» (non è un caso che questo titolo di un romanzo di Sten Nadolny sia diventata un'espressione di successo. Forse il desiderio di un mondo "lento", che ci consenta di vivere nel tempo e nello spazio, che non accetti più i criteri della ricchezza reificata, è già maturato sotto la superficie, come se fosse una forza travolgente, ma ancora non consapevolmente mobilitata). L'esteriore edonismo compulsivo frenetico e disordinato della fine degli anni '80, resta ancora dietro rispetto alle ideologie alternative della «vita semplice», o alle predicazioni conservatrici della rinuncia, anziché superarle. Una critica radicale del consumo reificato e miseramente esteriore, rimane il presupposto per qualsiasi critica della società delle merci e della sua relazione di genere, ivi inclusi i suoi intrinsechi ruoli feticizzati.
Il gesto falso, e inoffensivo in termini di critica sociale, di un edonismo urbano che è anch'esso una bolla come quella del «capitalismo da casinò» associato alla sovrastruttura speculativa globale ( e che, insieme a essa, si incammina verso il suo fatale schianto) non è che poi sia così «elevato» e che rispetto alla logica della merce si ponga così al di sopra dei ruoli di genere stereotipati, come vorrebbe suggerire. Il tentativo, tanto disonesto e ignorante quanto insensibile «voler essere al di sopra», deriva dalla vecchia «pretesa di sovranità» maschile nei confronti della natura e del cosiddetto femminile («stare al di sopra» e «sovranità», sono le formule fondamentali della desensibilizzazione maschile, che come un corpo blindato affonda le sue radici nell'auto-addomesticamento dell'essere produttore di merci. Significato di «stare al di sopra» coinciderebbe con un cervello separato dal corpo, che fluttua da qualche parte su Marte, sospeso in una soluzione nutritiva e che comunica con i suoi sensi terrestri solo via radio e per mezzo di dispositivi tecnologici. Questo distanziamento assoluto non è più capace di alcuna auto-riflessione, poiché il collegamento che permetteva il feedback con il mondo sensibile dell'ematica è stato reciso. Ma dal momento che non può di fatto essere tagliato del tutto il collegamento con la sua esistenza sensibile, ecco che chi «sta al di sopra» è una sorta di auto-violentatore che vive con le natiche serrate, ma deve sempre far finta che non ci sia niente che possa ferirlo. «Voler stare al di sopra» è la manifestazione di una pseudo competenza astratta ed esterna del capitale relativa al contenuto sensibile, che si riflette sui soggetti stessi.) Se viene solamente occultata o invertita, rispetto all'esterno, in questa relazione non cambia niente.
9 - Forme di pseudo-emancipazione di genere
Così come, nel processo di riproduzione espansa del legame merce-denaro, la struttura elementare della forma merce viene preservata attraverso tutte le trasformazioni e inversioni di polarità, anche la forma elementare del meccanismo di dissociazione sessuale viene riprodotta sulla scala allargata dello sviluppo logico della merce. La forma di base della dissociazione, la quale in relazione alla logica della merce è «arcaica», essa costituisce, per così dire, il «codice genetico» (non biologico, ma socio-storico) dei ruoli feticistici di genere che riappaiono in tutte le ri-modellazioni, trasformazioni, feedback e inversioni di polarità nel corso della storia.
Pertanto, l'obiezione secondo cui oggi troviamo donne di successo e famiglie monoparentali con genitori maschi, calcio femminile e striptease maschile, genitori gay e matrimoni tra lesbiche in chiesa, non ha senso. Si tratta sempre comunque di forme di mera differenziazione rispetto al meccanismo originario di dissociazione, che non viene superato in quanto tale, anche se questa differenziazione rende la relazione sempre più precaria e meno vivibile. Le donne e gli uomini viventi ed empirici sono sempre stati incapaci di far fronte ai ruoli di genere forzati che il meccanismo della dissociazione delle società produttrici di merci aveva scritto nei loro corpi. Oggi, non è certo per caso che la crisi della forma merce in quanto tale, e la crisi della dissociazione coincidano. Tuttavia, questa crisi e le risultanti forme di decomposizione ed evoluzione dei caratteri sessuali, di per sé sole non superano il «codice genetico» di questa relazione, ma lo riproducono soltanto, per mezzo di rotture multiple nel prisma sociale delle inversioni di polarità, di occupazioni secondarie e di trasformazioni reciproche. Quello che era il proverbiale piatto della vecchia relazione di genere, e matrimoniale, borghese sta andando in mille pezzi, ma in ognuno di essi riappare la struttura di base della dissociazione.
È vero che al giorno d'oggi le donne possono prendere l'iniziativa sessuale più frequentemente e che gli uomini si presentano più frequentemente come «oggetti del desiderio»; ci si aspetta che i profumi e gli accessori intimi per il corpo maschile guadagnino terreno sul mercato. Ma la relazione soggetto-oggetto tra i sessi, creata dal meccanismo della dissociazione, viene preservata, e viene spezzata o invertita solo superficialmente. Da una parte, gli uomini gay o le donne lesbiche, per esempio, si limitano semplicemente ad adottare i gesti e le abitudini del polo di genere opposto; dall'altro lato, nel caso delle inversioni eterosessuali della polarità soggetto-oggetto, il carattere dissociato o dissociatore del genere non fa altro che riprodursi secondo la connotazione opposta. Pertanto non è affatto casuale che le donne sessualmente proattive e formalmente sicure, dotate di un orientamento al successo e di tutte le mistificazioni della soggettività capitalistica, non scelgano quasi mai come oggetto di lussuria l'uomo "soft" o fisicamente fragile e con aspetto fanciullesco, ma, al contrario, la macchina corporale che continua a esser venduta come «biologicamente vantaggiosa» è l'immagine erotica del corpo del «macho», quello muscoloso che si rimane a guardare con gli occhi spalancati. Ed è ovvio che a non essere più adeguata è l'intera costellazione, dal momento che non esiste più quello che era l'essere sensibile addomesticato della donna che si arrende castamente al mondo maschile sotto forma di robot, ma sono piuttosto gli stessi soggetti femminili della merce, desiderose di successo, e pertanto «mascolinizzate», che prendono l'oggetto erotico di loro scelta. Ma poiché la relazione basica in quanto tale non viene superata, ecco che allora le immagini unilaterali del corpo vengono mantenute, e così si riproducono in un movimento vuoto, senza senso. (Ciò viene notato persino dalle donne critiche, in riferimento allo striptease maschile, nel quale i vecchi cliché vengono riprodotti per l'appunto nel loro status di oggetti stilizzati: «Come se, dopo tutto, la guerra dei sessi, contro ogni voce contraria, si fosse recentemente risolta a favore delle donne . Come se per le donne, gli uomini esistessero davvero in quanto «oggetto del desiderio», e non fossero solo una delle invenzioni più recenti, nel mondo degli affari, per clienti paganti. Come se ora qualcosa fosse cambiato solo a partire dal fatto che adesso le donne spendono denaro in prodotti che vengono pubblicizzati come uomini nudi» - Gabriele Riedle, "Heute tun wir so, als ob" ["Oggi facciamo finta che..."]; in: Die Zeit 26 del 19.6.92 - . Ad un simile verdetto sugli spogliarellisti dei «California Dream Men», non c'è niente da aggiungere). Nell'immaginario della nuova donna in carriera, perfino - se non addirittura proprio - il capo di maggior successo deve mostrare le gambe ed essere eroticamente attrezzato fino alla radice dei capelli. Non si tratta di un passo nella direzione dell'abolizione del meccanismo di dissociazione quando - come se fossero degli espositori della propria sensibilità - l'essere agghindate e allo stesso tempo nella posa di offrire la propria pelle, viene congelato dentro la postura robotica dell'armatura corporale maschile, al fine di poter intervenire al tavolo delle conferenze oppure nella sfera pubblica dei media. Vale lo stesso anche per gli pseudo machi castrati, sessualmente funzionali, i quali nei loro atteggiamenti di manager o di pistoleri presentano i propri corpi cavi come se fossero bambole accessoriate o oggetti sessuali. Queste inversioni multiple possono arrivare a progredire fino alla follia sorridenti, ma rimangono modellate dal «codice genetico» della dissociazione.
In ogni caso, l'ampiezza sociale e l'effetto di profondità che può avere l'inversione di queste caratteristiche di corpo e di genere è discutibile. Probabilmente, nel contesto della logica della merce, la decomposizione della relazione di genere avviene per lo più nelle costellazioni esterne del tutto convenzionali, cui ci si aggrappa ostinatamente, e la cui scomparsa oggettiva viene vissuta come una sequela di catastrofi personali. Perfino con l'emancipazione della donna, nella forma merce, negli spazi del lavoro astratto, non si è arrivati nemmeno a parlare di una sospensione «tendenziale» del meccanismo di dissociazione nel contesto della società delle merci. La maggior parte delle professioni femminili si limita solo a prolungare quelli che sono i diversi momenti della dissociazione dello spazio «privato» rispetto al mercato e alla sfera pubblica borghese. La possibilità di una «dissociazione nella dissociazione» rende professionalmente presentabili, e pertanto monetizzabili, i singoli elementi della mania di quella femminilità oggettivata, dei quali, notoriamente, solo alcuni di essi possono essere sfruttati anche commercialmente.
In senso lato, la sensibilità socialmente degradata è stata data in consegna al contesto femminile di vita, proprio perché i suoi contenuti sono di per sé preclusi alla produzione di merci. Pertanto, a poter essere commercializzati con relativa facilità, sono solo i suoi momenti esternati nelle dissociazioni secondarie invertite. Il cliché secondo cui i protagonisti dell'industria della moda sono gay o donne sembra che in gran parte corrisponda alla realtà. Adornarsi e presentarsi come imballaggio materiale delle merci è, naturalmente, il modo più semplice di presentare una storia di successo professionale attraverso abiti, profumi e altre simili futilità. Com'è noto, da sempre, l'auto-reificazione della donna vista come oggetto corporale, di per sé «privato», è stata convertita in una merce commercializzabile attraverso la «professione più vecchia del mondo». Le modelle e le altre rappresentanti commerciali della sensibilità stilistica professionale, possono in questo modo apparire esteriormente sicure di sé come delle granduchesse, e soggetti di merci costose nello stile di Claudia Schiffer (questa donna che si veste in maniera particolarmente scialba, rappresenta una situazione nella quale «il pubblico dell'era della televisione considera la pubblicità della gomma da masticare e delle saponette altrettanto importante di un nuovo film di Godard»; e in questa situazione, anche se lo fa per 10 milioni di $, lei rappresenta ancora una volta solo il cliché sentimentale della corporeità femminile dissociata: «Ogni volta che da qualche parte ti scattano una foto, per la tua bocca passa quel sospiro lieve che ti solleva le labbra e rende il tuo broncio dolce e rotondo... Sorridere, respirare, risplendere, qualche parola su tutto questo. Perfetto» (Spiegel 26, 22.6.92).); anche senza parlare, va incontro a quel perfido verdetto che è stato lanciato contro una sua collega da un essere maschile in un film tedesco: «Il tuo maggior talento rimane sempre ancora il tuo culo.» E tutto questo non cambia quando, in quella che è un'altra trasformazione secondaria, si tratta di un Arnold Schwarzenegger che vende e presenta il suo culo di macho alla migliore offerta. Qui non si è verificato alcun superamento, ma solamente una duplice inversione, o feedback: per prima cosa, l'uomo non opera come soggetto dell'astrazione; e seconda cosa, è proprio il corpo robot desensibilizzato ad apparire come un oggetto di riferimento sensibile.
Anche le altre forme, nelle quali il lavoro astratto della produzione di merci viene occupato da parte di una massa di donne, possono essere riconosciute come una monetizzazione precaria di momenti originariamente dissociati. Da quella che era la vecchia e familiare segretaria fino alle sempre più numerose e differenziate «prestatrici di servizi personali», si tratta di elementi trasformati di ciò che viene attribuito al contesto femminile di vita, e che ora viene reso più economico ed è attribuito all'universo maschile delle merci (anche dentro questa trasformazione economica delle attività originariamente attribuite al "femminile" dissociato, l'asimmetria di genere continua, a cominciare dal pagamento). Di modo che non appena un posto di lavoro viene occupato dagli uomini, la sua posizione sociale aumenta, e viceversa. In Germania, i medici (soprattutto quelli che hanno uno studio privato) sono ancora in prevalenza maschi e, in quanto «semidei in bianco», sono tra le professioni più redditizie; nella ex Unione Sovietica, la professione medica è principalmente femminile e, pertanto, una delle attività mal pagate e poco attraenti. Quanto più donne entrano in un'attività (in Germania, per esempio, le donne medico negli ospedali), tanto più rapidamente scende il livello di rendimento. In generale, i settori commercializzati o monetizzati come servizio pubblico, che si sono sviluppati a partire dal contesto femminile di vita dissociato, non solo sono ancora prevalentemente occupati da donne, ma sono anche famosi a causa dei loro salari da fame. Ma non c'è dubbio che questo universo rimane pesantemente determinato dal capitalismo industriale. La maggior parte dei «servizi personali» può essere considerata «improduttiva» nel processo generale di riproduzione capitalistica, vale a dire che la forma merce rimane esterna rispetto ad essi, e limitata alla copertura monetaria nella quale appaiono come «costi». Tuttavia, no è solo la crisi finanziaria a mostrare i limiti dell'economificazione di quelle che sono parti del contesto femminile di vita. In contrasto con la moda, con la «bellezza» sessualmente normalizzata sotto forma di maschera, con lo stile ecc., la dedizione umana, l'aiuto e la solidarietà, l'empatia e la relazione emozionale difficilmente possono essere commercializzate, anche riguardo al contenuto. Le donne (è chiaro, anche gli uomini per molto tempo) dei settori dei servizi «femminili» di Stato, o finanziati dallo Stato, soffrono fino all'intollerabilità a causa della contraddizione tra forma (lavoro astratto) e contenuto (attenzione umana). La critica della «medicina delle apparecchiature», degli specialisti, dell'amministrazione delle persone ecc., evidenzia come in ultima analisi l'area dissociata e attribuita al «femminile» non può essere integrata nel mondo della merce. Ciò diventa assolutamente impossibile quando si tratta di prendersi cura di piccole creature (è ovvio che ci sono asili nido e altre strutture di assistenza all'infanzia che devono essere apprezzati e ampliati. Il problema non è che la «madre» non possa essere sostituita da altre forme istituzionali. Il problema è che i bambini piccoli hanno bisogno «per tutto il tempo» di persone di riferimento empatiche, e questa attività non può essere fornita come un «servizio» commerciale o governativo in una forma monetaria, né può essere svolta in unità di lavoro astratto. Dove si è tentato questo, i bambini finiscono in ospedale oppure, in alcuni casi, muoiono senza che vi sia alcuna causa esterna apparente, come alcuni studi hanno dimostrato. La funzione sociale che viene assegnata alla «madre» nel meccanismo di dissociazione rimane inaccessibile al mondo delle merci. Come momenti speciali della dissociazione ci sono, a un'estremità dello spettro, la modella che si trasforma in merce corporale, che evita la gravidanza per ragioni puramente professionali, e, all'altro estremo, la madre dis-erotizzata. Nella loro unilateralità, contraddizione e limitazione sono entrambe figure che rappresentano perfettamente l'identità della dissociazione.
10 - L'«illusione della grande coppia» alla fine della società delle merci
Analogamente a come avviene con la rimozione fittizia del meccanismo di dissociazione, che compare nelle diverse inversioni di polarità, di trasformazioni e retroazioni, e che viene sempre rispedita con vergogna nei poli individuali , feticisticamente costituiti, della relazione di genere, la cosa si verifica anche nella relazione di coppia borghese, la quale, anch'essa, logicamente non può liberarsi dal suo «codice genetico» socio-storico. Da nessuna parte, l'autonegazione di «quelli che sono in posizione privilegiata» riesce a essere più grottesca di quanto lo sia nelle loro reali relazioni di genere. Si dovrebbe palare di quella che é quasi un'auto-percezione gravemente disturbata, nel momento in cui si assiste all'impertinenza per mezzo della quale si tenta di far passare come «emancipate», e «al di là del matrimonio tradizionale», quelle che sono delle «relazioni di dissociazione». Si può notare che assai spesso le persone che vorrebbero collocare nel XIX secolo - visto come se fosse «da tempo superato» - tutti quei topoi o archetipi della relazione borghese di coppia, non fanno altro che vivere, in quella che è la fine del XX secolo, tutte le fantasie del secolo precedente, senza volerlo ammettere.
Nemmeno le differenti e contraddittorie apparenze possono nascondere questo fatto. Il «matrimonio cameratesco» era già stato propagandato negli anni '20, e l'attuale proliferante letteratura di consulenza e di genere dei nostri giorni opera attraverso termini descrittivi come «partnership» e «relazionamento», i quali arrivano migrando dal dizionario commerciale e cibernetico approdando nel linguaggio quotidiano della relazione di genere. In realtà, di fatto, la relazione borghese di coppia è stata solamente spogliata di alcuni vecchi abiti e di qualche insegna, senza che ci sia stato alcun cambiamento strutturale fondamentale o sostanziale. A essere radicalmente cambiata, è stata solo la consistenza, la fermezza e la naturalezza della relazione. Il fatto che, per ciascun caso individuale, il matrimonio sia solo più facile da sciogliere non costituisce una liberazione. Con il pretesto del respingimento delle «rivendicazioni di proprietà», l'unica cosa che trionfa in realtà è la mancanza di un impegno personale. Ed è solo sotto questo aspetto di egocentrismo narcisistico e di demarcazione autistica del «partner», degradato in quanto superficie speculare della propria autorappresentazione disperata, che i due attori della relazione diventano entrambi individui ugualmente astratti. Nel contesto di questo narcisismo nevrotico, tuttavia, la vecchia relazione di genere borghese si riproduce secondo i suoi schemi di base. Il carattere «in serie» di una tale relazione (in contrasto con la vecchia monogamia a vita), che non a caso è stata rappresentata pe la prima volta dalle stelle di Hollywood, non muta affatto la forma strutturale nella quale inevitabilmente confluisce la relazione di coppia borghese. La naturalezza e l'impegno personale sono scomparsi, ma si tratta sempre degli stessi ruoli, che ora vengono rappresentati letteralmente in un teatro della relazione.
Le forme, nella loro continuazione, sono pertanto povere, trasparenti e noiosamente stereotipate. Per alcuni, in realtà la relazione di genere degenera in un «business», in un affare della propria vita, per così dire, nel quale una coppia modernizzata pianifica e realizza ininterrottamente la vita fino alla nausea. Queste «persone che vanno d'accordo» non vivono. ma eseguono dei progetti per un percorso di vita calcolato nel modo più redditizio possibile, dall'assicurazione sulla formazione fino a quella sulla vita. Ovviamente, tutto questo in stretta collaborazione e su un piano di parità. È qui dove avvengono le trattative per determinare quale dei due sia più adatto a iniziare e porre fine a una carriera di maniera professionalmente competente, per poi così sostituire il «socio» nella gestione domestica; naturalmente, con la ripartizione delle tasse, le quali devono essere cronometrate con precisione millimetrica. Inevitabilmente, simili figure progressiste si trovano ben presto a guidare la distruzione del paesaggio oppure rivolgono i loro sforzi di pianificazione della vita alla costruzione di un bungalow. E, alla fine, il vuoto sociale e la mancanza di prospettive della loro squallida esistenza non può che portare a una guerra con dei bambini, pianificata perfettamente. Tutt'al più, da questo punto in poi, tuttavia, riemergono nella loro trasparenza i modelli tradizionali dei ruoli. La parte femminile dell'«associazione» si trasforma in madre e ne trae così un «senso» esoterico da questa riduzione sociale; in tal modo, il progetto di vita è terminato. Gli attriti risultanti da tali circostanze, senza alcuna pianificazione, finiscono per fare arenare l'«associazione» e vanno a foraggiare notai, avvocati, consulenti educativi e assistenti personali,i cui consigli per fare «andare d'accordo» gli aggregati famigliari devono essere doverosamente scartate.
Le cose diventano più difficili, ma a dire il vero anche più datate, come quando una coppia modernizzata insiste a voler vivere in maniera sofisticata le rappresentazioni romantiche della «coppia» borghese, o volerle rappresentare sulla scena come se fossero già bell'e pronte. Non è un caso che sia proprio un simile tentativo - vecchio e di cui esiste testimonianza - risalga alla fine del XVIII secolo, quando venne creato nei salotti dei romantici. Si tratta di una variante di quel gioco socio-filosofico in cui si tenta di superare la banale realtà quotidiana borghese attraverso l'«idealità» della medesima condizione, tanto nella teoria quanto nella pratica. Anche in questo caso, l'ideale è la «relazione aperta», libera, come in partenariato (il termine «relazione aperta» viene spesso interpretato nel senso di una presunta tolleranza delle infedeltà sessuali del «partner»; perfino in costellazioni nelle quali una «partnership» rappresenta solo l'interfaccia, la stazione di servizio e di riposo di una rete di interrelazioni erotiche e sessuali).
È forse questa la forma più estrema, in cui la narcisistica assenza di impegno si maschera da imparzialità, «assenza di volontà» e «sovranità». Le profonde ferite che un tale reciproco disprezzo infligge all'individualità, devono essere sopportate e represse mostrando un «superiore» viso sorridente. Un vero e proprio percorso sicuro che porta alla rovina psicologica, ala quale dovranno poi essere iniettati nuovi stimolanti (alcol, droghe, «esperienze di successo». La pianificazione della vita, del bungalow e dei figli viene piuttosto malvista, ma le cose possono peggiorare ancora, fino a essere disastrose. Infatti, per far sì che la «relazione» venga «presentata» come tale, al di là di quelle che sono le banalità borghesi della vita quotidiana, si rende quanto meno necessario lo scenario proprio della case aristocratiche russe a Parigi (ciò spiega anche l'affinità tra l'istrionismo di una relazione del genere e il lusso simulato della cultura yuppie). Naturalmente, gli ingredienti effettivi, la cui importanza, per gli attori dell'«apertura» e della «sovranità», non può essere sopravvalutata, provengono dal cosmo reificato della pubblicità e del glamour capitalista.
Tuttavia, dietro questa cortina di estetica postmoderna, si riescono sempre a vedere i vecchi cliché dei ruoli, in maniera ancora più rapida e maldestra di quelli degli artefici della vita pianificata. Poiché al di là dell'«efficienza» domestica, l'unica idealità immaginativa che rimane è quella di una relazione tra i sessi borghese, secondo i modelli de «La Bella e la Bestia» o «Il Genio e la Dea», che provocano sbadigli fa circa duecento anni. L'uomo ha da puzzare di mascolinità (di cavallo?) (seppure anche solo grazie a un profumo) o deve agire come King Kong (liberato, ma con moderazione, è chiaro). Inoltre, gli uomini hanno scienziati eccezionali, artisti brillanti (anche se forse incompresi), sportivi famosi o, quanto meno, che meritano di essere iscritti nel Guinness dei primati. Nel contempo, viene anche permesso (vengono perfino autorizzate) che le donne si presentino come professionalmente «di successo». Per quanto sia di una dimensione più piccola di quella dell'uomo, vale a dire, ci sia una taglia «specifica per le donne» che può essere trovata tra le lunghe gambe apprezzate e la singolare competenza androgina nella scienza dei materiali. Tuttavia, deve profumare ed essere bella come sempre, sussurrare, essere «vittoriosa» nei sogni da fanciulla con apparenza «femminile» ecc.: tutti i famigerati cliché della pubblicità del prodotto. Lei deve brillare nelle chiacchiere; coltiverà anche interessi intellettuali a livello di hobby, ma sotto questo aspetto lascerà che venga prima suo marito (e sempre con un gesto ironico, come se essa lo esibisse; qualcosa come la pubblicità del Grand Mariner, dove una creatura vestita elegantemente da cow-girl porta al guinzaglio un uomo con la testa di leopardo: «Gli uomini sono sempre ciò che le donne fanno di loro». E guai a loro se non ci «arrivano»!
Queste immaginazioni imbarazzanti rappresentano in maniera caricaturale i ruoli di genere borghesi del meccanismo della dissociazione - per così dire - per mezzo di immagini fisse sintetiche, e al di fuori di un museo di accessori specifici di genere. Ma nel mondo capitalista della fine del XX secolo, vengono vissute e fraintese dai loro portatori come se fossero espressione della loro propria «individualità» in una «relazione aperta». Tuttavia, quando i partecipanti non riescono più a uscire dal proprio ruolo accuratamente studiato e preparato, ecco che il carattere spettacolare di questo «partneriato» diventa una spiacevole relazione di coercizione, lo spazio di intimità diventa un palcoscenico e bisogna essere continuamente applauditi dal «partner». Neppure Sartre avrebbe potuto concepire un inferno più bello!
L'artigianale «andare d'accordo» e il «gran mondo» pseudo sovrano che emula gli attori del relazionamento come se fossero i presunti vincitori della costellazione matrimoniale convenzionale (ancora maggioranza nella società nel suo insieme) il più delle volte non riescono nemmeno ad annusarsi l'un l'altro, ma condividono la medesima identità della relazione di genere borghese, sebbene per ciascuno di essi siano responsabili differenti dipartimenti di marketing.
Analogamente, possono diversificare il meccanismo di dissociazione, ma non possono superarlo. I due mondi, nella misura in cui riflettono su questo, tendono entrambi a ironizzare con falsa disinvoltura sugli innegabili e ovvi momenti di cliché dei ruoli di genere nelle loro vite, oppure a considerarli come «accidentali», e di preferenza a spiegarli catalogandoli come «manie personali», piuttosto che riconoscersi nella costrizione senza speranza della ferrea struttura di base della relazione di genere borghese (Questa struttura è «ferrea» nella sua relazione con la forma di merce della riproduzione, in tal senso, si può usare la metafora con il ciclo del carbone e dell'acciaio de Il Capitale, proprio perché si riferisce alla persistenza e al trascinarsi della struttura di base attraverso tutte le modifiche e tutti i processi di modernizzazione; per non parlare poi della relazione ironica con il concetto di Max Weber della «gabbia d'acciaio» della modernità). Solamente a partire dalla consapevole negazione dell'adattarsi alla forma merce e all'estetica della merce di genere, si possono ottenere momenti di critica e di superamento pratico, e non a partire dall'affermazione della pseudo emancipazione postmoderna, nella quale il vuoto fantasmagorico della maschere di carattere di genere viene presentato come se fosse un mezzo superamento.
Persino nei salotti romantici, parlare di individualità egualitaria dei sessi era una pura menzogna. Karoline von Günderrode, quasi due secoli dopo andrebbe dissotterrata grazie alla sagacia di un detective, come se fosse stata una persona con capacità intellettuali e poetiche che non aveva mai espresso. Celata in delle affermazioni orali e scritte, tutt'al più ammirate grazie ad alcuni eccezionali fenomeni, la creatività femminile ha dovuto languire restando ai margini della cultura ufficiale. Non si è trattato solo della pressione esterna della volontà maschile di dominare, ma anche della struttura feticistica della dissociazione nella testa delle stesse donne, che ha imposto loro questo ruolo inferiore. Ancora oggi, ci sono molte donne che, proprio nella loro autocomprensione, preferiscono lavorare all'uncinetto, o ricamare qualsiasi tessuto, piuttosto che sviluppare le loro capacità intellettuali e creative nello spazio sociale al cospetto dell'uomo (soprattutto quando è il «suo»). Ma così facendo l'«amore individuale» dell'epoca borghese viene screditato fino all'osso.
Essenzialmente l'individualità astratta del sistema produttore di merci continua a essere essenzialmente quella della «mascolinità», anche con l'aumento dell'occupazione e della qualificazione delle donne. L'occupazione femminile di questa individualità è un'occupazione secondaria derivata, la quale non nega il meccanismo della dissociazione. L'«illusione della grande famiglia», così come esposta da Ulrike Prokop in un'indagine su larga scala sulla famiglia Goethe (Ulrike Prokop, Die Illusion vom Großen Paar, 2 vols., Frankfurt/Main 1991). Non è un caso che questo lavoro sia nato nel contesto degli «studi psicoanalitici della cultura». A partire dall'interpretazione del «teorema della dissociazione», tuttavia, le sue affermazioni potrebbero essere ampliate nei termini dell'«economia politica», visto che contiene il nucleo della menzogna della vita sessuale moderna. Ovviamente, l'invenzione borghese dell'«amore individuale» nel XVIII secolo è certamente apparsa per certi aspetti come un vero e proprio progresso rispetto alle condizioni premoderne nelle quali «un campo sposava un altro campo» (Marx): «Nel vecchio ordine di una cultura agraria, la coppia non formava un'isola dei sentimenti delimitata; anche nel matrimonio,a dominare era il gruppo. Intimità, amore, distinzione dell'individuo, tutto questo richiedeva una delimitazione nei confronti di altre persone, e uno spazio per poter vivere tale delimitazione. Nel mondo agrario, perfino il confine spaziale era assente. Le persone, compresa la coppia, non stavano quasi mai da sole. Come osserva Flandrin, il controlla si estendeva fino al letto matrimoniale» (Prokop, op. cit., p. 385.).
E' chiaro che non si può più tornare a simili condizioni. L'«individualità», in riferimento alla quale si era sviluppato l'«amore individuale» borghese, non era in alcun modo neutra in termini di genere: «Il progetto di emancipazione borghese trova la sua espressione più elevata nell'”uomo creativo” che produce il suo mondo. L'artista è l'immagine ideale per un Concezione di esseri umani visti come esseri che riproducono sé stessi. Per il genio, esiste solo materia che dev'essere plasmata. Il modello della conquista borghese del mondo, è l'officina dell'artista, il dominio della natura, del materiale che viene trasformato fino a diventare una completa espressione di individualità... Solo l'elemento della produzione maschile trova la sua strada nel modello borghese della soggettività di successo. Si tratta di un lavoro delimitato, che può essere attribuito all'individuo ad esclusione di tutti gli altri, che esiste al di fuori dell'individuo, ed è in ultima analisi un oggetto che può essere venduto. Ciò che conta è il prodotto, non il processo» (Prokop, op. cit., p. 381s.).
In contrasto con questo, il «prodotto femminile», la «produzione culturale delle relazioni sociali», la «produzione riproduttiva delle merci della cultura quotidiana», -che aveva ancora il suo posto nella «comunità delle donne del passato» (prima della divisione borghese tra produzione centrata sulla famiglia e produzione orientata al mercato) e nelle forme riproduttive «della famiglia nel suo insieme» - «sparisce dal progetto dell'umanità». In questo modo, «in quanto parte della cultura popolare, tutta l'area della creatività sociale attribuita alle donne diventa secondaria» (Prokop, op. cit., p. 382s.). Per le donne, la nuova individualità borghese è quindi inseparabilmente legata allo statuto strutturale di seconda classe, e comporta perdita di importanza e degradazione. La sua «area» originale è sostanzialmente corrotta e distrutta dal mercato, o è dissociata e pertanto ridotta, mentre l'«area» dell'uomo ascende fino a diventare progetto totale. Lo sviluppo culturale in direzione dell'individualità, la differenziazione dei sentimenti e l'espansione dei bisogni quotidiani - che naturalmente permeano anche lo «spazio dissociato» dell'intimità, la moderna famiglia nucleare e le moderne relazioni di coppia, e che si concretizza solo insieme ad esse - viene in tal modo comprato al costo della «femminilità», la quale viene posta come inferiore. L'«amore individuale», in questa individualità, maschera, sebbene in maniera sempre più precaria a causa della crescente possibilità di un distanziamento femminile dal proprio ruolo, un'asimmetria sistematica a spese della donna. Per la donna, «amore individuale» non significa altro che «la fusione delle proprie necessità, aspettative e possibilità di vita nella costituzione di una «bella coppia». Per la donna, questa «illusione della grande coppia, dell'altro idealizzato» diventa una trappola strutturale di relazionamento: «L'altro come quello che realizza le propria possibilità di realizzazione» (Prokop, op. cit., p. 400 passim.).
Questa trappola di relazionamento e questo progetto ridotto e inferiore di «femminilità» esiste proprio dentro l'individualità moderna (così come l'atomo si è dimostrato fisicamente divisibile, anche l'individuo moderno si rivela divisibile nella sua struttura interna di genere). Il meccanismo di dissociazione sessuale non è in opposizione all'individualità, ma è piuttosto la sua «condizione di possibilità». Il progetto teorico fondamentalmente maschile della modernità in tutte le sue varianti passa sistematicamente a lato di tutto questo, non è una «reliquia» delle condizioni premoderne e neppure una caratteristica specifica del XIX secolo, ma è la base strutturale del moderno sistema di produzione di merci e del suo concetto di soggettività in generale: «Mi ero convinta che avrei compreso l'idea dell'amore come facente parte dell'emancipazione femminile. Oggi non ho più questa visione. Alla fine del XVIII secolo, l'ide di amore diventa un progetto maschile che serve a completare il grande ego maschile. Amore significa che la donna dev'essere lo specchio dell'uomo... Perciò dev'essere perfetta, bella, desiderata e appetibile. Per le donne, una simile fantasia maschile è servita per dotarsi di un'immagine di sé stesse. Ed essa è l'istruzione per una produzione femminile di segni attraverso quel mezzo che è la corporeità» (Prokop, op. cit., p. 9.). È precisamente questa «produzione di di segni», feticisticamente costituita, del femminile che oggi, in maniera più evidente che mai, a bloccare la vera emancipazione della donna. Malgrado tutte le rotture, il ruolo del genere femminile, ancora prigioniero del «contesto della corporeità», non è stato abolito, ma viene solamente diversificato. Tutte quelle che, sul mercato e nella sfera pubblica, sono le estensioni di questa «produzione femminile di segni attraverso la corporeità» alla fine sono solo un movimento laterale ed evasivo del «femminile» non ancora emancipato, per mezzo del quale il meccanismo della dissociazione sessuale della società delle merci non può essere intrappolato. Che sia come Claudia Schiffer e Jil Sander, che si tratti di Dagmar Berghoff o di un'anonima prestatrice di servizi personali, la donna continua a rimanere coinvolta nell'asimmetria feticistica della relazione di genere in quanto la «madre dei suoi figli». Per quanto sia apparentemente scollegata dall'illusione della grande coppia (nella quale la donna può cadere in qualsiasi momento), in quanto narcisismo femminile dell'individuo tardo-borghese, la donna continua a essere ancora«lo specchio dell'uomo» nel «contesto della corporeità»: della «mascolinità» in generale, anche indipendentemente dal matrimonio borghese. Anche la sua solitudine formale quasi maschile, nello spazio pubblico dei successi e dei fallimenti capitalistici, avviene essenzialmente attraverso questo perfido mezzo. E perfino nel reciproco narcisismo di quelli che sono gli attori di relazioni disperatamente autoreferenziali, il narcisismo femminile appare ancora stereotipato nella forma di una corporeità maltrattata.
Lo spettro dei progetti individuali femminili, tra madre e modella, resta legato al progetto globale maschile e, pertanto, rimane una prigione nell'inferiorità assegnata. Continua a essere lo stesso, sia che la «femminilità» appaia nella forma polverosa del matrimonio e nei cliché dei suoi ruoli, sia che si presenti sotto forma di una maschera corporale, sia che, al contrario, appaia come riferimento alla «naturalità» , senza trucco e vestita di pelli di animale, come «aiutante» sociale e come materna «badante» sociale dell'uomo. Se il fascismo e gli apostoli della naturalità riformatrice della vita si giocavano l'immagine dei riccioli biondi virginali, e quella della maternità prosperosa contro l'immagine della vampira che uccide gli uomini, o quella dell'elegante femminilità della grande borghesia, si trattava sempre, solo e comunque, di calchi alternativi del medesimo ruolo, il quale a a partire da Rousseau in poi era stato discusso e recitato secondo delle variazioni sempre nuove. Questa produzione di segni non viene superata dalla formale «uguaglianza di diritti».
Il carattere angosciosamente paralizzante di questa relazione può essere spezzato solo quando, e nella misura in cui la possibilità di distanziamento del ruolo femminile, creata involontariamente dal capitalismo stesso, non si perde in movimenti laterali di apparente emancipazione immanente, ma quando viene coscientemente infranto e scardinato «lo schema che istruisce circa la produzione di segni nel contesto della corporeità». Ciò significa un fondamentale rivoluzionamento dell'erotismo in senso lato, vale a dire, dello spazio auratico della sensibilità, del godimento, dell'intimità e della distribuzione dei ruoli nella sensibilità. Tale rivoluzione è qualcosa di diverso rispetto a una mera inversione della polarità sessuale. Se le galline diventano galli e i galli diventano galline, senza tuttavia smettere di essere galline e galli, allora vuol dire che essenzialmente non è cambiato nulla. Di fronte a uomini con un 'autoaffermazione abbastanza maschile e con un'esibizione maschile, ma che ora si vestono e si abbigliano in maniera colorata, come erano solite fare solo le donne (o cominciano perfino a «mostrare le gambe», si è tentati di implorare misericordia.
Tutti gli pseudo superamenti della relazione di genere borghese, così come vengono attualmente realizzate, in pose dissociative, sono determinate dall'estetica delle merci e, pertanto, rimangono esterne e poco serie. Un superamento effettivo del superamento del meccanismo della dissociazione sessuale, può essere logicamente e praticamente solo se identico a un superamento della forma stessa della merce feticista, della quale la dissociazione costituisce un «rovescio oscuro». La relazione di genere mette in evidenza la radice più profonda dell'economificazione astratta in quello che è il processo di totalizzazione della società delle merci. Ciò, all'inizio può sembrare ancora più spaventoso e paralizzante, dal momento che indica la dimensione e la profondità del problema. Ma così facendo non si riproporrebbe altro che un impulso di base del 1968, rimasto sepolto e mai più ripreso: rivoluzionare sé stessi nel rivoluzionamento della società, ritrovare la critica del tutto nella critica dell'individuo ( e viceversa), mediare vita quotidiana e movimento rivoluzionario, insieme.
La liberazione sessuale è diventata solo un peep show o il nudismo inibito della televisione familiare; la pseudo-emancipazione capitalista alla fine ci ha portato la donna d'affari o il giudice distrettuale in minigonna e calze a rete. Il dibattito femminista su «uguaglianza» e «differenza» si muove in questo circolo vizioso del meccanismo della dissociazione, e quindi della logica della merce. L'«uguaglianza» si realizza precariamente nelle forme della soggettività femminile nel mercato, e allo stesso tempo viene smentita proprio in questa «istruzione per la produzione femminile di segni nel mezzo che è la corporeità». Viceversa, la «differenza» feticisticamente costituita, e quindi socializzata, che appare nello stesso «milieu» non può costituire una leva per il suo superamento. Su questo punto, tuttavia, è necessario qualcosa a una sorta di difesa dell'onore dell'allegramente e grandemente flagellato «Gruppo di Bielefeld» costituitosi intorno a Claudia v. Werlhof, Maria Mies e altre. Il loro riferimento reazionario alla «fertilità» e alla maternità ecc. non si libera del progetto femminile nel «milieu che è la corporeità», determinato dal meccanismo della dissociazione, e cerca perciò di mobilitare, in termini di critica sociale, la sensibilità dissociata nella sua insuperabile forma «femminile». Ma almeno queste donne, in contrasto con la maggioranza della sinistra, che è condizionata dall'economia di mercato, insistono costantemente sull'intenzione di una critica radicale del sistema di produzione delle merci. Se ora è diventato di moda, tra le femministe che si definiscono cosmopolite e meta-illuministe francofortesi, storcere il naso di fronte all'approccio di Bielefeld e sottolineare gli elementi biologici e la mancanza di sviluppo teorico con le dita curate dalla manicure alla moda, questo vuol dire allora che le donne stanno cercando, segretamente o apertamente, di liquidare contemporaneamente anche la critica radicale della società della merce. Perché nel frattempo, non solo gli uomini ,ma anche le donne si sono trasformate in cadaveri postmoderni dell'auto-valorizzazione, edonistici e pseudo-sovrani, ai cui contorti e permanenti sorrisi urbani non si addice più nessuna critica alla società della merce. Naturalmente, nessuno ne verrà fuori così a buon mercato. Non si può tornare alla comunità premoderna di uomini e donne, alla produzione sociale della cultura agraria della vita quotidiana con la sua cruda collettività che aveva ancora dietro di sé l'individuo moderno. Ma la sensibilità, che nell'individualità moderna viene dissociata come «progetto femminile» (e auto-progetto), rimane in questa dissociazione il polo socialmente informe e inferiore di questa individualità, e come tale non può diventare un punto di partenza positivo per la critica e il rivoluzionamento del tutto. La mobilitazione della contraddizione immanente emergente, deve invece istigare il superamento dell'intera relazione. Così ci troviamo di nuovo di fronte alle questioni fondamentali della critica sociale del 1968, anche se abbiamo attraversato un quarto di secolo di esperienza e di sviluppo capitalista. Quando il femminismo cessa di essere un semplice «ismo» (e quindi un impulso che segue ancora gli insegnamenti di base maschili e illuministico-borghese), non porterà acqua ai mulini degli esteti della merce, dei capitalisti realisti o dei nuovi amici dell'economia di mercato. Al contrario, mobiliterà il vecchio impulso della critica radicale delle merci e del consumo in una forma nuova, più riflessa e a un livello di sviluppo superiore. In questa forma non sarà più un progetto particolarista della femminilità, ma esigerà l'auto-superamento maschile.
- Robert Kurz - Pubblicato sulla rivista Krisis nº 12 (1992) -
fonte: Exit!
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