martedì 28 settembre 2021

Capitalismo in Lockdown: la “grande rassegnazione” ?!!??

De Virus Illustribus - Un anno e mezzo dopo
«Non è la "regolamentazione" dell'economia, a dover essere valutata, ma la sua fine»
di Sandrine Aumercier - pubblicato su lundimatin#306, 27 settembre 2021 -

Il libro "De virus illustribus" è stato scritto a caldo nel corso del lockdown del marzo-aprile 2020 da quattro persone che partecipano alla corrente teorica conosciuta come la «critica del valore». Penso che siano molti ad essere d'accordo sul fatto che il primo lockdown sia stato qualcosa di eccezionale, di inaudito, di storico. Soggettivamente, molte persone l'hanno vissuto come un momento di stupore: si sono trovati da un giorno all'altro apparentemente liberati dalla pressione di dover lavorare, di correre dappertutto, di essere ovunque contemporaneamente, di moltiplicarsi per stare dietro agli impegni, di consumare, di ottimizzare il proprio rendimento tanto a scuola quanto al lavoro, di occuparsi della propria reputazione, e così via. All'improvviso, le strade erano vuote e si poteva quasi percepire come mezzo mondo fosse stato appena fermato. Assomigliava tutto a un film di fantascienza. Ovviamente, coloro che hanno perso tutto, e la cui vita è diventata ancora più precaria non hanno certo apprezzato allo stesso modo un tale momento. Ma anche per quei privilegiati, cui era stata concessa una sorta di pausa dalla loro frenetica vita (ivi compresa l'introduzione di misure di lavoro a orario ridotto), anche per loro, la sensazione dopo non fu più la stessa, e quella che si è instaurò fu una lunga depressione. Gli episodi successivi non meritano più effettivamente il nome di lockdown, nel senso in cui era stato chiamato la prima volta. Piuttosto, si trattava di semi-confinamenti, di coprifuoco parziali, di proibizioni di uscire che significavano obblighi di lavoro, chiusure che erano allo stesso tempo anche aperture, negoziazioni con la realtà pandemica, inversioni politiche incomprensibili, la maschera da indossare e la maschera da non indossare, una cacofonia europea, ecc. Non sorprende che questa storia, vissuta essenzialmente sugli schermi, abbia finito per colpire il sistema nervoso di tutti e alimentare così un'esplosione di teorie della cospirazione.
Come possiamo spiegare infatti questa crisi sanitaria e la sua gestione politica? In cosa possiamo credere ancora oggi? Come unica bussola, ci restano solo le cifre da capogiro delle statistiche e i nostri sentimenti personali? Non siamo quasi nemmeno più in grado di dire se questa situazione incredibile, che dura da un anno e mezzo, sia seria o meno. Sì, ci sono già stati tra i 4 e i 5 milioni di morti per Covid registrati, ed è assurdo mettere in dubbio la validità statistica - che è l'unica guida per la politica sanitaria - della vaccinazione su larga scala. Ma non c'è forse un rapporto dell'ONU a dirci che l'inquinamento causa circa 9 milioni di morti premature ogni anno? Che 3,2 miliardi di persone vivono su terreni degradati e che 1,4 milioni di persone - almeno - muoiono ogni anno a causa dell'acqua contaminata (Global Environment Outlook, 2019)? Perché nell'ultimo anno e mezzo abbiamo acconsentito a vivere tracciati, mascherati, testati, disinfettati, vaccinati, se durante quello stesso tempo non viene fatto nulla per fermare tutte queste altre forme di enormi rischi per la vita umana? È ciò solo in quanto non colpiscono affatto le stesse popolazioni? Però, forse non faremmo meglio a non cedere alla relativizzazione di tutto con tutto, e non mettere in atto un confronto affrettato tra le diverse cause di mortalità, poiché la pandemia avrebbe potuto fare molte più vittime in assenza di una reazione politica? Ma allora che senso ha tutto questo tergiversare sul lockdown? Questo virus è abbastanza grave da privarci per un anno e mezzo di una cosiddetta «vita sociale», ma non è abbastanza grave da farci smettere di lavorare? È interessante vedere che, da questa pandemia, alcune persone hanno tratto la conclusione che dovremmo disertare il mercato del lavoro - un fenomeno questo, che è stato soprannominato la «grande rassegnazione» - anche se non sappiamo ancora se alla fine questo fenomeno verrà assorbito dal lavoro "ibrido" o "remoto", cosa che non farebbe altro che ingrossare la coorte dei nomadi digitali.
Tra di noi. ci sono molti che ora sentono che non finirà mai, che saremo oppressi da misure sempre più intrusive che sembrano giustificate da ragioni superiori - quali la nostra salute e sicurezza - ma che di fatto nascondono una realtà molto più sordida che attiene a un mondo che fa tutto, assolutamente tutto, pur di rimanere lo stesso, qualunque cosa esso sia. Ci stiamo già preparando alla prossima ondata o alla prossima pandemia, come se questa fosse diventata la nostra nuova realtà, tutto purché le linee di produzione funzionino a pieno regime. Tutto quello che è successo dopo il primo lockdown, assomiglia pertanto a un balbettio politico senza fine, a tutta una serie di compromessi traballanti fatti per dimenticare, per cancellare, per rendere nullo quel momento iniziale di shock, allorché i responsabili della politica mondiale hanno fermato l'economia per un breve periodo. Io propongo di tornare a questo momento iniziale - a quello che ha accompagnato la scrittura del libro - al fine di metterlo in prospettiva con la situazione in cui ora ci troviamo, quasi un anno e mezzo dopo. Sappiamo che la distruzione delle aree naturali, la deforestazione, l'allevamento industriale, il riscaldamento globale e la frenesia dei voli internazionali hanno avuto un ruolo importante nello scatenare e diffondere rapidamente questa crisi sanitaria. Tutte queste cause, che sono state riportate in letteratura, e che non verranno mai affrontate dalle varie politiche attuate per combattere il virus. L'unica e sola ossessione, che è emersa fin dall'inizio, è stata quella di contenere il più rapidamente possibile qualcosa che era al di là di ogni previsione e che minacciava di far crollare l'economia mondiale. Il vocabolario marziale, e l'inflazione dell'autoritarismo testimoniano come ci sia stato un panico prima dell'irruzione dell'incontrollabile. L'instaurazione di uno stato di eccezione permanente, è in questo senso la risposta inevitabile di una sfera politica messa all'angolo da una contraddizione insormontabile.
A partire dal fatto che proprio in quel momento, l'immagine trionfale del mercato e della democrazia si incrina, e le cose spiacevoli vengono alla luce, anche se solo per poco, come in un momento di vertigine. Ne citerò tre che sono stati sviluppati nel libro:

1/ No, alla vigilia della crisi sanitaria, l'economia globale non era affatto in buona salute. La pandemia arriva e irrompe nel bel mezzo di una crisi iniziata ben prima, e anche prima della crisi del 2008. A partire dagli anni '70, c'è stato un declino economico strutturale il quale ha portato a una crisi del debito pubblico e all'aumento della disoccupazione. Prendiamo un esempio molto concreto, quello dell'industria aerea. È un settore che tutti immaginano fiorente, al punto che gli si rimprovera di avere effetti sul cambiamento climatico. Ma nonostante il costante aumento del numero totale di voli aerei, dagli anni 2000 i profitti netti sono in calo. Air France, per esempio, è una compagnia aerea in perdita da molto tempo, e dal 2008 non è stato pagato alcun dividendo. La crisi del Covid-19, in un simile contesto, ha messo in pericolo molte compagnie aeree, e notoriamente il governo francese è venuto in loro soccorso. Il direttore generale della IATA (International Air Transport Association) ha chiesto alla fine del primo lockdown, «l'aiuto dei passeggeri, è vero, e ve lo stiamo chiedendo in ginocchio» perché, ha detto, «la liquidità delle compagnie si trova in uno stato assolutamente apocalittico» (Les Echos, 15 luglio 2020). Implorare in ginocchio il sostegno dei consumatori si scontra, a dir poco, con la così tanto strombazzata ripresa economica verde e sociale. In questo caso, i passeggeri dovevano rinunciare al rimborso dei voli cancellati durante il primo lockdown e accontentarsi di una nota di credito, cosa che è in contraddizione con il diritto dei consumatori. Questo piccolo esempio, tra molti altri, mostra lo stato reale dell'economia su cui si è abbattuto il virus Sars-Cov-2. Ciò che sta minando irreversibilmente l'economia - come mostrano le analisi di Robert Kurz - è la costante diminuzione della quantità di lavoro vivo coinvolto in un processo produttivo sempre più automatizzato. Ciò porta a una crisi irreversibile della valorizzazione, dal momento che senza lavoro non c'è sostanza economica. L'aumento esponenziale del denaro fittizio, non è altro che un tentativo di contrastare tale tendenza speculando su una futura creazione di valore che da molto tempo non si sta più realizzando nella misura prevista.
2/ In un simile contesto, è comprensibile come né lo Stato né i suoi rappresentanti abbiano la capacità finanziaria per riuscire a svolgere le funzioni di protezione sociale che sono state loro devolute dopo la guerra, in un periodo di crescita allora favorevole alla loro istituzione. Eppure una certa ideologia populista, ossessionata dagli osceni profitti che vengono realizzati da alcuni, continua ad attribuire loro queste capacità. Ma il fatto che la ricchezza venga accaparrata solo da alcuni attori non dice nulla sullo stato reale dell'economia. Il capitalismo dovrebbe essere inteso non solo come il mercato, ma  anche come l'intreccio di diverse sfere funzionali e complementari, tra i quali il mercato e lo Stato. La sfera dell'economia e quella della politica sono reciprocamente dipendenti tra di loro. Lo Stato può adempiere alle sue funzioni solo se raccoglie le tasse, il cui volume dipende dalla crescita del PIL. Per questo, nel contesto della crisi economica strutturale di cui sopra, sono le funzioni dello Stato a essere ridotte, come abbiamo visto con il taglio del personale ospedaliero o del numero di letti d'ospedale nel corso degli anni. È problematico attribuire questa situazione unicamente al disimpegno dello Stato, o alla cattiva volontà di questo o quel governo. Il rigore di bilancio è stato a lungo l'unica risposta possibile alla crisi endemica della valorizzazione. Invocare un intervento positivo dello Stato senza tener conto di questa situazione generale, porta in definitiva alla personificazione di problemi che sono invece di natura strutturale.
3/ Ma allora come si spiega l'intervento massiccio dello Stato durante questa pandemia; una cosa che avevamo già visto nel 2008, per poter salvare le banche? Ingannati dai miliardi che piovevano, molti cominciarono a pensare che, finalmente, «quando vuoi, i soldi ci sono»! Che corrispondenza c'è tra questa manna e il fatto di dover leggere sul giornale che in alcune scuole non c'è abbastanza carta igienica e che bisogna lottare per avere abbastanza sedie per gli alunni? (Libération, 27 settembre 2019). Situazioni simili, così tante e assolutamente scandalose richiedono una détournement teorico per poter essere collocate nel quadro più generale delle regole di funzionamento del capitalismo. Come abbiamo detto, lo Stato è investito di funzioni essenziali, legate alla riproduzione del capitale stesso, e così garantisce l'intero funzionamento dell'economia e quindi, alla fine - ma solo alla fine - la fornitura da parte della Pubblica Istruzione, per esempio di carta e sedie per le scuole. Se l'economia crolla, non c'è più carta igienica né sedie. Lo Stato liberale garantisce il quadro della valorizzazione capitalista e allo stesso tempo anche il gioco della concorrenza, perché il suo funzionamento dipende da questo. Non si tratta quindi in definitiva del «benessere dei cittadini», ma piuttosto di garantire la stabilità relativa di un tale quadro. Con lo scoppio della pandemia, tutti gli artifici di questa costruzione moderna si sono trovati improvvisamente messi a nudo. Gli Stati sono improvvisamente di fronte alla loro contraddizione strutturale. Hanno intenzione di «proteggere i cittadini», come sostengono continuamente, oppure hanno intenzione di occuparsi per prima cosa dell'economia? In questo momento, devono occuparsi urgentemente di salvare vite umane - a rischio di screditare ulteriormente dell'altro il discorso della «protezione» data dal servizio pubblico - e allo stesso tempo devono salvare l'economia minacciata da un crollo senza precedenti dalla fine della guerra. È in questo contesto che va collocato il caotico valzer di misure contraddittorie, che sono state assunte dall'inizio della pandemia, la cui tendenza a lungo termine è effettivamente quella dell'aumento del controllo sociale. Perché è inevitabile che gli individui si troveranno sempre più a dover pagare sulla propria pelle il "conto" invisibile dato dalle contraddizioni dell'intero sistema capitalista nella sua totalità. Non esiste alcuna soluzione politica e nessun lieto fine; perciò la rete si sta naturalmente chiudendo su quegli stessi individui i quali erano disposti a credere nelle meraviglie di questo modo di produzione. Ciascuno Stato, come abbiamo visto e come descritto nel "De virus illustribus", ha avuto il suo modo di gestire questa contraddizione, a volte più autoritario, a volte più liberale. Ma il punto comune è il moltiplicarsi delle forme di compromesso traballante, cosa che alla fine non ha evitato né milioni di morti per Covid né un debito pubblico globale arrivato nel 2020 al suo massimo storico.

I punti appena sviluppati, permettono di avvicinarsi all'attualità, evitando forse di sprofondare ancora una volta nelle nostre peggiori illusioni. Non posso fare a meno di pensare a ciò che scrisse Freud di fronte al disastro della prima guerra mondiale: «Noi stessi non riusciamo a renderci conto del vero significato delle impressioni che urgono su di noi, e del valore dei giudizi che siamo indotti a pronunciare.[...] Ogni cittadino di una nazione può, in questa guerra, vedere con terrore... che lo Stato ha vietato all'individuo l'uso dell'ingiustizia, non perché voglia abolirla, ma perché vuole averne il monopolio, come con il sale e il tabacco. [...] Così il cittadino del mondo civilizzato ... può trovarsi disorientato in un mondo che gli è diventato estraneo - la sua grande patria in rovina, i beni comuni devastati, i suoi concittadini divisi e avviliti! La sua delusione potrebbe essere oggetto di una critica. A ben guardare, non sarebbe giustificato, perché si tratta della distruzione di un'illusione. Le illusioni si raccomandano a noi per il fatto che ci risparmiano sentimenti di dispiacere, e ci fanno invece provare soddisfazione. Dobbiamo quindi accettare senza lamentarci che un giorno si scontreranno con una parte della realtà, e lì si frantumeranno. Questa guerra ha suscitato la nostra disillusione per due motivi: la bassa moralità, nelle loro relazioni esterne, degli Stati che si comportavano invece internamente come guardiani di norme morali e, negli individui, una brutalità di comportamento, di cui non si sarebbe creduto che, in quanto partecipanti alla più alta civiltà umana, fossero capaci». (Sigmund Freud, "Considerazioni attuali sulla guerra e la morte"). Freud rimane pienamente impregnato, anche in queste righe amare, di un concetto idealizzato di civiltà, la sua naturalmente. Tutta la sua opera reca le tracce sia di questa idealizzazione che di una lotta teorica contro di essa. È completamente stupito del fatto che «la più alta civiltà umana» possa cadere così in basso. Ma l'importante è il fatto che così facendo essa rimanda il "cittadino" alle sue illusioni infantili; in questo caso a credere nell'alto valore degli ideali di "civiltà", e nella falsa protezione dei numi tutelari della sfera politica che invece poi si comportano con tanta ferocia sulla scena internazionale. Insomma, di fronte a un tale pasticcio, siamo responsabili dell'immensa delusione che proviamo, finché continuiamo a immaginare lo Stato come se fosse un buon capofamiglia, e la "civiltà" come il luogo dove si realizza la nostra felicità, delegata ai nostri rappresentanti. Freud è lontano dal considerare tutte le conseguenze di queste indicazioni, ma ci indica quanto meno un percorso che per noi rimane. Possiamo tradurre questo avvertimento freudiano, vecchio più di un secolo, in termini più contemporanei: i «valori europei» non sono altro che una costruzione ideologica destinata a consolidare l'edificio politico-giuridico-economico che ha visto l'Europa colonizzare più di tre quarti del pianeta e modellarlo nella sua forma moderna. Come è noto, ci sono stati sgradevoli dibattiti su quelli che sarebbero i presunti fondamenti giudeo-cristiani dei valori europei, ma anche, in maniera speculare, circa la loro relatività rispetto ad altre culture non europee. Tutti questi dibattiti rimangono bloccati nell'idealizzazione di certi valori morali, occidentali o non occidentali - a seconda dei gusti - che sono il «supplemento d'anima» del modo di produzione capitalista, il quale non conosce la morale e non la conoscerà mai, poiché il suo unico punto di riferimento sono le cifre della crescita. Ugualmente, questi dibattiti rimangono anche ingabbiati nell'ineliminabile proiezione edipica di un uomo forte - quello che ci tirerà fuori da questa impasse - e delle istituzioni che dovrebbero garantire la sua creazione ed elezione. La Francia ha di certo una storia del tutto particolare con gli «uomini provvidenziali». Essi non hanno mai evitato le guerre che hanno segnato il ventesimo secolo, perché erano il risultato della dinamica dell'instaurazione del sistema internazionale degli Stati nazionali. Questo non significa che non ci possano essere decisioni migliori o peggiori. Significa che queste decisioni non sono dettate solo da intenzioni personali e non hanno gli impatti previsti sulle dinamiche globali. Per esempio, ci sono alcuni politici che si vantano della lotta contro il riscaldamento globale mentre altri sostengono che non esiste: siamo convinti che il risultato sarà il medesimo.
Ma è da qualche tempo che l'attenzione si è concentrata anche su quelle che Roswitha Scholz chiama «donne forti», riferendosi con questo termine alle donne che sono sopravvissute scavando tra le macerie delle città distrutte dopo la guerra. Alcune donne, salendo ai vertici della gestione del capitalismo in crisi, sembrano voler raccogliere il guanto di sfida, a volte con l'aiuto di valori considerati femminili, o addirittura "ecofemministi", senza vedere che questi cosiddetti «valori femminili» - proprio come i «valori extraeuropei» proposti dal movimento de-coloniale - sono solo la reificazione di una parte dissociata dell'unico valore che conta, il valore economico. Non è possibile invertire la logica della valorizzazione del valore basandosi sulla sua parte dissociata: le cosiddette funzioni di cura femminile non sono alternative gradite al capitalismo dal momento che esse sono indispensabili alla sua riproduzione, per quanto siano ritenuti servizi gratuiti. Pagare i cosiddetti servizi gratuiti e dare un "riconoscimento" alle donne non è la via d'uscita da questo modello. Cosa comporta una simile asserzione? La risposta ci viene data da Delphine Batho, ex candidata alle primarie dei Verdi, che si è appropriata del vocabolario della decrescita. In un dibattito, il suo opponente, François Asselin (capo della Confederazione delle piccole e medie imprese), ha reagito ribattendo: «Questa nozione di decrescita... è incompatibile con la logica dell'impresa. Chi è che ha voglia di decrescere? Quando si è un imprenditore, si vuole intraprendere!» Cosa gli risponde Delphine Batho? «Alcune [aziende] chiedono una regolamentazione, poiché esse si devono confrontare con delle regole del gioco che sono 'truccate', visto che oggi la crescita si basa sulla distruzione gratuita del clima e della biodiversità». (Libération, 15 settembre 2021). Ma la cosa stupenda è che alla fine di questo genere di dibattito, dietro tutti i distinguo a proposito delle diversità politiche, sono tutti d'accordo: la politicante della decrescita, la quale si definisce «eco-femminista al 100%», e l'imprenditore: «Per me, la decrescita significa più posti di lavoro», sostiene Delphine Batho. Una cosa del genere non è più assurdo che affermare, in linguaggio orwelliano, che: «La decrescita è la crescita». È questo, più o meno il punto a partire dal quale si cerca di bilanciare e conciliare le due cose opposte, e salvare capra e cavoli.
Questo modo di produzione non è in grado di far fronte a un'interruzione dell'attività economica tanto lunga quanto necessaria, anche quando questa attività economica viene descritta come «non essenziale». Pur di salvare l'attività economica, ci siamo anche simultaneamente precipitati nella digitalizzazione accelerata di tutte le attività, come se il contatto umano non fosse anch'esso un bisogno essenziale. È significativo che ci siamo trovati a non sapere più come salutarci o baciarci. Ci siamo allo stesso tempo ingolfati nel consumo disinibito di beni online, i quali vengono pubblicizzati  in maniera insolente sui muri della città. Che senso ha farsi consegnare un cartone di uova a casa, come invitava a fare una pubblicità a Berlino? Che genere di precarietà nel lavoro del personale di consegna, e che tipo di aumento dei costi energetici comporta questo sviluppo? Abbiamo motivo di pensare che ci sia qualcosa di sbagliato nel modo in cui stiamo parlando di rischi collettivi, e nel modo in cui li affrontiamo oggi. È accettabile che la nostra salute sia così dipendente dalla «buona salute» dei mercati? È accettabile che quel che rimane della nostra socievolezza, già atomizzata da duecento anni di liberalismo, venga sacrificata sull'altare del lavoro astratto? Oggi, alcuni marciano contro il «lasciapassare sanitario», facendo ricorso a riflessioni e ad ammucchiate ripugnanti. Così facendo, conferiscono come un'apparenza di senso a questa specie di stupore che ci assale di fronte a così tanta assurdità e disorientamento generale. Sarebbe meglio iniziare a decifrare questa situazione guardando alle sue caratteristiche strutturali. Ciò che si sta verificando, è la cristallizzazione di tutti gli elementi del cocktail originale: un governo impotente deciso a imporre la ripresa economica a qualunque costo; una popolazione che sta vivendo la sua crisi adolescenziale, continuando a chiedere protezioni fantastiche, ma se possibile senza tutto quel tono autoritario (ragion per cui, ecco che delle misure più o meno identiche appaiono più accettabili in altri paesi, come la Germania); una situazione globale ancora più debole e vulnerabile di prima, che alimenta il pozzo senza fondo del debito pubblico e la fuga in avanti verso il credito fittizio, il quale verrà poi scambiato per la malizia di una classe egoista preoccupata solo di facili profitti, mentre invece si tratta dell'unica risposta disponibile nella situazione delle «regole del gioco» economico: vale a dire che l'unica risposta disponibile è quella di finanziare la ripresa speculando su un valore futuro, e che probabilmente verrà rimandato, fino al prossimo crollo. Pertanto, ciò che dobbiamo pensare, e prendere in considerazione, non è la "regolamentazione" dell'economia ma piuttosto la sua fine. E questo è stato anche il motivo per cui molti di noi, per qualche settimana hanno avuto la debolezza di crederci, durante il primo lockdown. Lo abbiamo visto quasi come se bastasse un buffetto - un'interruzione di qualche settimana - per poter fermare l'intera economia e far venire ai leader mondiali più di un sudore freddo. Abbiamo intravisto come potrebbe essere vivere, non da reclusi e connessi ma liberi dai nostri 'lavori' e dal bisogno di «guadagnarsi da vivere». Naturalmente, non è stata affatto una liberazione, perché tutto quanto è stato impostato al fine di ricominciare immediatamente. Era tutt'altro che un nuovo inizio, ma è stato come dare una sbirciata dall'altra parte. Era ancora un'illusione in senso freudiano, ma è anche qualcosa che ci dice molto. Questo virus ha decisamente colpito il tallone d'Achille del sistema capitalista, ed è per questo che fino a oggi i governi hanno dichiarato una guerra spietata e universale contro di esso. A volte mi chiedo se non sia proprio quel primo lockdown che i governi occidentali non riescono a perdonarsi, e cercano di cancellarlo dalla nostra memoria, come se volessero scongiurare un altro passo falso e assicurarsi che non accada più.

- Sandrine Aumercier - pubblicato su lundimatin#306, 27 settembre 2021 -

fonte:  Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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