Lewis, Gabe, Rick e Cassidy sono quattro indiani del North Dakota sulla trentina. Cresciuti insieme, hanno abbandonato la riserva dalla quale provengono, si sono lasciati alle spalle gli eccessi di gioventù e si sono più o meno integrati nella società bianca. Un ricordo cruento, in particolare, li lega: dieci anni prima, durante una battuta di caccia illegale, hanno ucciso una femmina di alce incinta particolarmente testarda. Ora quell’incubo torna improvvisamente a perseguitarli. È Lewis il primo ad accorgersi di una presenza inquietante nella sua vita: quella di un grosso alce ferito che sanguina sul tappeto del soggiorno. Tutti, uno dopo l’altro, iniziano ad avere visioni, visioni che però uccidono davvero in modo sanguinoso ed efferato. Il primo a morire è Rick, anche se la sua morte viene inizialmente attribuita a una rissa fra ubriachi.
(dal risvolto di copertina di: Stephen Grahma Jones, "Gli unici indiani buoni", Fazi, pp.320, €18,50 )
Solo un'esemplare punizione può riuscire a spezzare l'eterno ciclo della violenza
- di Laura Pezzino -
Quattro ragazzi Piedi Neri, appartenenti a una delle più grandi comunità di nativi americani degli Stati Uniti, partecipano a una battuta di caccia illegale e uccidono, sparandole tre volte, una wapiti femmina incinta. Parecchi anni dopo, Ricky, Lewis, Cassidy e Gabe sono ancora perseguitati da quell'episodio, nato come bravata e diventato scoperchiatore di una serie di sfortunatissimi eventi. Ed è proprio così che si apre "Gli unici indiani buoni", il romanzo horror dell'americano Piedi Neri Stephen Graham Jones. Ricky, che ha lasciato la riserva e lavora con una squadra di trivellazione che lo chiama (sarcasticamente?) Capo, esce da un bar per espletare un bisogno corporeo e si imbatte in un grosso wapiti - una delle specie di cervo più grandi che esistano - che sta distruggendo le macchine del parcheggio. Tenta di fermarlo, ma gli avventori del locale lo incolpano del disastro e lo massacrano di botte. A seguire, anche gli altri amici subiranno la giusta punizione per il sacrilegio commesso, tentazioni che acquisiscono tinte sempre più raccapriccianti e gore, vera cifra e talento di Jones che, con questo romanzo, ha vinto il suo quarto Bram Stoker Award, gli Oscar degli horror (il primo, nel 1987, andò a "Misery" di Stephen King, il secondo a "Il silenzio degli innocenti" di Thomas Harris). A lungo sottorappresentati, da qualche anno i nuovi autori della First Nations - da Natalie Diaz a Cherie Dimaline, da David Heska Wanbly Weiden a Andrea Rogers - stanno contribuendo a ridisegnare i mondi «alternativi» della narrativa di genere, anche attingendo alla fertilissima sfera delle tradizioni a cui appartengono che, al contempo, trasformano. Un esempio. Ne "Gli unici indiani buoni", Jones prende uno dei tropi dell'immaginario bianco sui nativi, la «maledizione indiana», e se ne appropria ribaltandone addirittura il significato: quelli che per secoli sono state le vittime (gli «indiani») si fanno a loro volta carnefici di creature indifese, finendo così per rompere il patto con le regole della propria comunità e per fomentare quell'eterno ciclo della violenza che, forse, solo una punizione esemplare potrà riuscire a spezzare. "Gli unici indiani buoni" in definitiva è sì un romanzo da incubo che parla di vendetta e dolore - con anche quella che King ha definito «la più terrificante partita di basket della storia», disputata tra Denora, la figlia di Gabe e astro nascente di quello sport, e una donna con la testa di wapiti - , ma offre anche una riflessione sull'identità e sul prezzo da pagare quando si voltano le spalle alla tradizione.
- Laura Pezzino - Pubblicato su Tutto Libri del 22/4/2023 -
Non uccidere là nella foresta
- di Vanni Santoni -
Stati Uniti del nord, ai confini con il Canada; territori indiani, o meglio - oggi come oggi - una riserva povera e malmessa. Quattro amici, prima giovani poi adulti; un momento decisivo per le vite di tutti, alla maniera di certi testi ormai classici del contemporaneo americano — viene in mente ad esempio Il corpo, ovvero Stand by me, di Stephen King, che non a caso ha elogiato questo romanzo. Ci troviamo dentro a Gli unici indiani buoni, dello scrittore nativo americano Stephen Graham Jones, autore di venti libri ma ancora semisconosciuto nel nostro Paese, dove finora era uscito un solo suo testo, i racconti neri, o fiabe weird, di Albero di carne, pubblicato da Racconti Edizioni nel 2016. Arriva oggi Fazi, nell’interessante collana Darkside — da diversi anni capace di muoversi con grazia tra il noir e l’orrore puro — a presentare ai lettori italiani, nella traduzione di Giuseppe Marano, uno dei suoi più recenti, e migliori, romanzi. Con Gli unici indiani buoni facciamo dunque la conoscenza di Ricky, Lewis, Gabe e Cassidy, quattro giovani nativi americani cresciuti insieme e molto legati tra loro, almeno finché Ricky viene ucciso in «una rissa tra ubriachi» — questo stando alla definizione data dai media controllati dai bianchi. Dieci anni più tardi, resta il dubbio su quella morte, come su ogni morte violenta di qualunque «indiano» in un mondo di cowboy, e un’ombra ancor più scura sulle vite dei superstiti. L’ombra di una battuta di caccia al wapiti (il cervo canadese) finita male, e non solo perché i quattro giovanissimi bracconieri furono intercettati dalla polizia, ma anche per un dettaglio, rilevantissimo per chi come loro fa capo, volente o nolente, a certe tradizioni, magari fruste, spesso fraintese, certamente violate e impoverite dall’uomo bianco, ma comunque fonte d’identità: aver ucciso una cerva incinta. Dopo il prologo, in cui si racconta la morte del primo dei quattro, che, certo, è stato linciato dai bianchi, ma con lo strano, molto strano, aiuto di un branco i cervi che gli ha impedito la fuga, il romanzo si articola in tre parti, ognuna dedicata a un protagonista e al suo tentativo di sfuggire alla vendetta di uno spietato spirito naturale, la cui azione è misteriosamente ma certamente legata al misfatto di caccia di un decennio prima. Si sa come sono gli spiriti naturali, o almeno lo sanno i nativi americani: capricciosi, ingannevoli, proni al gioco, lontanissimi dalle logiche umane, ma inesorabili nella loro risoluzione e a volte crudeli, se non sadici. Che Stephen Graham Jones sia un narratore dall’ossatura solida e con molti romanzi alle spalle lo si capisce presto, dal modo in cui riesce a costruire personaggi plausibili in poche righe e a inserire efficacemente un’aneddotica capace di calarci in un certo mondo, come quando, nel prologo, introduce il landmark storico del «Salto del bufalo schiantato», ma lo si comprende ancor meglio un po’ più in là, quando si mostra capace di delineare la personalità, appunto, di uno spirito, rendendola plausibile in modo peraltro terrificante. Pare quasi che lo spirito di Gli unici indiani buoni sia un agente malevolo del Fato, la cui volontà, più che punire direttamente i colpevoli, sia agevolare una rovina che venga in fondo da loro stessi, dai loro difetti, e dalla tragica eredità che non possono scrollarsi di dosso. Ma si può davvero credere agli spiriti, oggi? In realtà no, e Stephen Graham Jones lo sa, visto come lascia precipitare i suoi personaggi, e in particolare Lewis, quello maggiormente afflitto dal senso di colpa per la tragica battuta di caccia di dieci anni prima, nella più lacerante paranoia. A quel punto, la narrazione stessa va a mutare e il lettore viene subdolamente calato nel suo punto di vista e nell’incapacità di stabilire cosa sia vero e cosa immaginato. Per quanto la scrittura sia quella che è — prosa lineare che va dritta al punto senza troppi fronzoli, a volte con qualche luogo comune di troppo — Stephen Graham Jones è abile nella modulazione di tempi e scene (va da sé che ce n’è una in una capanna sudatoria, la location visionaria per eccellenza delle culture nativo-americane), a volte giocando in modo diabolico col rapporto tra ciò che sanno i personaggi e ciò che sa, invece, il lettore, e tutto questo risulta in un’opera che finisce per trascendere i suoi obiettivi primari, quelli orrorifici. Solo quando le pagine macinate sono molte, infatti, il lettore comincia a prendere atto di essere di fronte a diversi sotto-testi: la reinvenzione del classico tema horror dell’uomo contro la natura, come negli Uccelli di Alfred Hitchcock, nello Squalo di Steven Spielberg o nel Cujo dello stesso Stephen King; la riappropriazione di un classico topos colonialista, quello del «cimitero indiano maledetto»; infine, una riflessione sopra un’altra, ben più grande, maledizione. Quella di coloro che, strappati con la violenza dalla loro storia, dalle loro tradizioni, dalla loro identità e in fondo anche dalla possibilità di ottenere un ruolo nella società costruita sulle ossa dei loro nonni, non possono trovare redenzione, e pagano ogni loro errore dieci volte tanto. E ancora una: non è forse una colpa, pare suggerire l’autore, anche adottare la forma mentis del colonizzatore, per quanto tutto cospiri in tal senso? «Gli unici indiani buoni sono quelli morti», disse il famigerato generale Philip Sheridan, e Jones gioca con tale idea, arrivando a suggerire che nel mondo creato dai responsabili di un genocidio non c’è nessun modo per essere un indiano buono, dato che l’adesione alla cultura dei colonizzatori risulterà impossibile finché si ha la pelle rossa, e anche la reverenza per la defunta cultura dei padri finirà per rivoltarsi contro chi la pratica. L’intelligenza narrativa dell’autore scintilla così in modo particolare nelle modalità d’azione dello spirito maligno, che non pare seguire mai una morale chiara o facili rapporti colpa/punizione (uccide del resto anche gente innocente): è una furia, nel senso mitologico del termine, figlia di culture ormai defunte. Un veridico fantasma culturale, e guai a chi si ritrova in mezzo alla sua azione, non importa se buono o cattivo. Guai del tipo sanguinoso; del tipo splatter, anzi. E chi pensasse che si tratti di esagerazioni da scrittore horror, ripassi i capitoli più neri della storia americana.
- Vanni Santoni - Pubblicato su La Lettura del 30/4/2023 -
Dalla parte degli indiani
- di Alberto Anile -
Si dice che Philip Henry Sheridan, il generale statunitense a cui si deve la reclusione dei nativi americani nelle riserve, abbia risposto a un capo indiano che gli si presentava come amico: «L'unico indiano buono che conosco è un indiano morto». Sheridan ha poi smentito di aver pronunciato un'oscenità simile; pare che la famigerata frase (da alcuni attribuita a Custer, da altri a un deputato del congresso) fosse comunque all'epoca già coniata e circolante. Gli unici indiani buoni, il titolo del romanzo di Stephen Graham Jones appena pubblicato da fazi, viene da lì. È volta al plurale perché i protagonisti sono quattro nativi americani, Ricky, Lewis, Gabe e Cassidy, inseguiti dal trauma di una violenta battuta di caccia; "inseguiti" alla lettera, perché uno degli animali uccisi, una femmina di wapiti incinta, torna a vendicarsi sotto varie forme. Il wapiti (nella letteratura scientifica, cercus canadensis) deriva il suo nome dalle lingue indiane shawnee e cree: un nome pittoresco per noi ma comunissimo per statunitensi e canadesi. È un tipo di cerco dalla corporatura robusta, con zampe sottili e una zona chiara sul posteriore (wapiti significa "sedere bianco"). È l'animale ufficiale dello Utah e compare perfino sulla bandiera del Michigan. Questa familiarità tutta americana si perde naturalmente nella lettura: avere a che fare in Nord Dakota con un wapiti è come trattare di tori in Spagna o di lama in Perù. In Italia, magari, di mucche. È difficile per noi comprendere fino in fondo quanto questo animale sia connaturato nella vita dei nativi americani, che da secoli ne utilizzano le pelli per farci abiti o coprirci i tepee, ne mangiano le carni, adornano con i denti i loro gioielli. E quindi quanto spaventosa possa essere l'improvvisa vista di un esemplare in mezzo al soggiorno, o di una donna con una testa di wapiti. Senza fare troppi spoiler: Ricky muore subito, nelle prime pagine, pestato da un gruppo di bianchi razzisti in conseguenza dell'apparizione della fatale wapiti. Agli altri capita in modo più lento e misterioso, mentre poco a poco si svela cos'era successo dieci anni prima, quando quattro giovani Piedi Neri si erano trovati di fronte a un'immensa mandria di wapiti pronti a essere massacrati. Malgrado il pestaggio inaugurale, il richiamo alla frase attribuita a Sheridan non nasconde un vero sotto-testo antirazzista: nel romanzo viene citata di sfuggita una sola volta, all'interno di un coro (certo, sì, razzista) di tifosi di basket contro una squadra in cui giocano delle native americane. Più congrua e sottolineata è invece la macabra filastrocca che battezzò il più celebre dei romanzi di Agatha Christie, con i piccoli indiani che muoiono uno dopo l'altro. Gli unici indiani buoni è in fin dei conti un onesto revenge horror, debitore di Stephen King (che lo ha adorato) e di Louise Endrich (il suo The Antelope Wife è citato fra i ringraziamenti), con la particolarità di immergere il tutto nella cultura dei nativi americani. Curiosa, fra le altre cose. è la parte ambientata nella "capanna del sudore", una sorta di sauna organizzata all'interno di una tenda con pietre caldissime su cui versare acqua da trasformare in vapore, usanza pare antichissima. Stephen Graham Jones è un nativo lui stesso, appartenente alla tribù dei Piedi Neri, scrittore prolifico di romanzi e di racconti (circa trenta degli uni e trecento degli altri), capello lungo da guerriero, grossa esperienza di cacciatore e una cattedra di lingua inglese all'università di Boulder, in Colorado. È letteratura di consumo, parliamoci chiaro, pronta per essere trasformata in sceneggiatura per un thriller soprannaturale, o una miniserie per le piattaforme, dove le pagine migliori (che sono anche le più spaventose) consistono in una lunga partita a basket fra il mostro e la ragazzina figlia di uno dei quattro cacciatori. Un romanzo appena nobilitato dallo stile ambiguo, un po' onirico un po' flusso di coscienza, che lascia continuamente nel dubbio se ciò che si sta leggendo sia realtà o delirio, come fosse uno slasher movie degli anni Ottanta diretto da Polanski giovane. Sangue e complessi di colpa vengono illuminati di tanto in tanto da tocchi onirici, come quando Lewis, beccato dalla moglie insieme a un'altra nativa, si dà da fare, con zelo eccessivo «come se cercasse di nascondere un cadavere sul prato coprendolo con altri otto». Ma se dovessi scegliere la frase più bella di questo libro (emblematica di come cuore e orrore possano rimare in modo perfetto), la prenderei fuori dai suoi confini, nella parte della nota finale in cui Jones riconosce la propria gratitudine alla collega Louis Endrich: «Le sue storie, i suoi personaggi e i suoi scenari sono frammenti sparsi in tutto il mio cuore. Se ne togliessero uno qualsiasi, morirei presto dissanguato».
- Alberto Anlie - Pubblicato su Robinson del 13/5/2023
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