Barbie: Apocalisse in rosa
- di Bruna Della Torre -
«La lotta tra il vecchio e il nuovo è lotta di classe». (Jean-Luc Godard, "Che fare")
Quando si scrive di prodotti dell'industria culturale, da una prospettiva di sinistra, si consiglia cautela. In quanto egemonici, essi non hanno bisogno né di più propaganda né di avvocati. Sempre, più o meno, uguali a sé stessi, nascosti sotto le luci al neon allo stesso modo di quei bar e di quelle palestre "instagrammabili" che adottano sempre più questa estetica accecante, simili oggetti non sopportano la critica immanente, che esige densità. Ma visto che il poco tempo di riposo che abbiamo - in una società la cui precarietà rappresenta una sorta di nuova ontologia - viene sprecato davanti agli schermi, finisce che ci riduciamo a essere sempre più i commentatori di un'industria; realizzando così ciò che Huxley aveva predetto in "Il mondo nuovo": «parlare significa discutere di merci» (si tratta per lo più di film e di serie tv, come in altre occasioni ho sottolineato in questa rubrica). Tuttavia, se visto come un fenomeno sociologico, il brusio che circonda il film Barbie costituisce una dimostrazione del potere che questa industria (vale la pena notare che stiamo parlando di un'industria americana, il cui più grande prodotto di esportazione rimane l'ideologia) ha sulla nostra società, sulla nostra immaginazione e sulla nostra (in)capacità di orientare a sinistra quello che è il dibattito culturale e politico.
Il film, per essere prodotto, è costato circa 145milioni di dollari (più altri 100milioni di pubblicità) e, grazie alle vendite al botteghino, ha già superato un miliardo di dollari di incasso. L'equivalenza, tra costo di produzione e di diffusione, dimostra quanto fosse corretta la diagnosi di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer: l'industria culturale è un sistema che fonde cultura e pubblicità senza che possano essere distinte. La fatturazione conferma che si tratta allo stesso tempo sia di infrastruttura che di sovrastruttura. Ultimamente, oltre a Barbie, tanto i film quanto le serie TV sono diventati una forma intensiva di pubblicità diretta di beni come giocattoli e videogiochi. Probabilmente a spingere alla produzione del film, è stato il calo delle vendite di una bambola che è stata in parte responsabile di disturbi come l'anoressia, la dismorfia corporea, la bulimia e il senso di inferiorità delle donne che sono state razzializzate nelle ex colonie di tutto il mondo (per quelle poche privilegiate che potevano permettersi una bambola costosa come questa). La ragione del crollo delle vendite risiede senza dubbio negli sconvolgimenti femministi degli ultimi decenni. Nel film troviamo inclusa questa critica della "Barbie fascista" (ed è in tal senso che si rivolge alle nuove generazioni, più consapevoli dei problemi del giocattolo) proprio per sottolineare come non sia vero che, dietro la bambola, si nasconda ancora un'utopia; e femminista per di più. È dal 2009 che il marchio Mattel continuava a rivolgersi agli studi di Hollywood, come Sony, affinché realizzassero un lungometraggio sul loro prodotto. Tuttavia, la cosa si è resa possibile solo grazie al duo Margot Robbie (la cui società di produzione ha portato a termine le trattative con gli studi della Warner Bros) e Greta Gerwig, la quale aveva già realizzato un adattamento all'acqua di rose del romanzo di Louisa May Alcott, “Piccole donne” – uno dei primi romanzi scritto da un'artista donna. Barbie rappresenta il volto del femminismo liberale, il quale considera l'ingresso delle donne nel mercato del lavoro come se fosse la massima conquista del femminismo.
La cosa si rende evidente fin dall'inizio del film: Barbie ha scatenato la soggettività femminile infantile, sostituendo le piccole cucine e le bambole formato bebè con una donna adulta pinup, la quale, in seguito, sarebbe poi stata venduta nelle forma di astronauta, di medico e di versatile imprenditrice, che dismette gli abiti da lavoro del giorno, per indossare in un attimo gli eleganti abiti da sera. Ecco fatto, l'emancipazione è servita: una Barbie in tailleur con la faccia da amministratore delegato costituisce tutto ciò che le donne avrebbero potuto sperare. È curioso notare il fatto che il progetto sia emerso un anno dopo la crisi del 2008, la quale aveva dato nuovo impulso ai movimenti femministi contro la disuguaglianza, da parte di quel 99%, in tutto il mondo. È ovvio che trasformare Barbie in un'icona femminista rappresenti una sorta di contraccolpo, che conferma la tesi dell'estrema destra (la quale, evidentemente, non ha capito il film, come tutto il resto) secondo cui, in fondo, tutto ciò che una femminista vuole è solamente diventare una bambola del genere; ma non potrebbe farlo poiché ciò è fuori dagli standard che si è imposta. Gerwig amplia ulteriormente la portata della diversità della bambola, rendendola inclusiva. Il film è una sorta di pink-washing del femminismo, molto contestato, degli ultimi decenni. C'è anche una Barbie costretta su una sedia a rotelle, una Barbie obesa e una Barbie vincitrice del premio Nobel nel film (cosa penserebbero Annie Ernaux, Svetlana Aleksandrovna Aleksievitch e Toni Morrison di queste caratterizzazioni?), dimostrando così che il giocattolo favorisce la diversità e l'intelligenza delle donne. Come ogni apocalisse, anche quella dell'immaginazione ha un elemento catartico: finalmente le femministe possono riconciliarsi con il loro desiderio represso, dice Hollywood e smettere di criticare Barbie per i suoi standard di esclusione. La sensazione, è di liberazione, o di "desublimazione repressiva", come direbbe Herbert Marcuse. In fondo, la tristezza della "Barbie stereotipata" - l'altra faccia della falsa positività del corpo del film - rappresenta un grande lamento da parte di Hollywood per aver messo in discussione i suoi malsani standard di bellezza, che vengono qui rafforzati solo grazie ai protagonisti del tutto adatti a questo modello. Barbie costituisce una delle più grandi campagne pubblicitarie dell'ultimo decennio. Oltre al tentativo fallito di riscrivere la storia della bambola, rendendola un'icona del femminismo, il film della Gerwig è servito a incrementare non solo le vendite dei pupazzi, ma anche le collezioni rosa di tutti i principali marchi tessili – dalle grandi griffe al prêt-à-porter che si avvalgono di lavoro di schiavi e di semi-schiavi, oltre che della promessa di novità che ciascuna di queste merci vende. L'offensiva pubblicitaria del film ha smosso anche i grandi monopoli dell'industria alimentare, come Starbucks e Burger King, i quali hanno realizzato le loro versioni rosa del cibo di plastica che vendono. Ancora una volta, di nuovo tutto il sistema: dal cinema alle riviste, dalla moda alla musica pop. In ogni sala cinematografica, era possibile trovare una confezione della bambola a grandezza naturale, di modo che le persone potessero così mettersi una volta nella vita al posto di questa merce.
Come ha notato Susan Willis in Everyday Life: per cominciare, alla fine del XX secolo, l'imballaggio della merce ricoperta di plastica che serviva a evidenziare la merce - impedendone l'accesso ad essa - ha sostituito le vetrine lungo le quali passeggiava il flâneur. La trasparenza che blocca spinge a toccare. La scatola a grandezza naturale ci mette nella posizione di essere oggetto del desiderio – spesso postata sui social network, che funzionano anche come se si trattasse di un gioco che crea il desiderio di possesso, e lo fa proprio a partire dalla combinazione tra essere visibili e, allo stesso tempo, negato al tatto a causa del vetro prima, e della plastica dopo. Nelle parole della Willis, «aderendo alla forma, e allo stesso tempo trasparente nel velo che la contiene, tale esibizione è sessualizzata. L'imballaggio in plastica definisce un gioco di nascondino, nel quale il desiderio sessuale alimenta fantasie tanto maschili quanto femminili. Spogliarello o corpo velato: l'imballaggio serve a fondere il desiderio di un determinato oggetto con quella che è una forma sessualizzata del desiderio». Nel momento in cui finge di mostrare che la vera Barbie lotta per uscire dagli schemi della stereotipia, il film diventa capace di produrre nelle persone un desiderio di massa di mettersi volontariamente in quel ruolo: ciascuno non vuole altro che essere Barbie, una merce costosa, e così tanto desiderata, fatta di plastica e separata dal mondo per mezzo della vetrina dei social media. Lo schermo dello smartphone finisce per essere solo un versione in più di questa nuova vetrina. Pertanto, il rosa diventa così una sorta di nuova uniforme, che mira a produrre un senso di comunità e di unità, e che appartiene a un passato che il movimento femminista sta combattendo da anni per decostruire. In un'intervista, la Gerwig afferma che l'idea del film era quella di nutrirsi della nostalgia dell'infanzia della generazione over 30, per la quale la realtà della vita neoliberista è sicuramente meno rosea dei giochi delle bambole. Il film costituisce simultaneamente sia un'operazione di marketing sia che un'operazione politica che mira a ridurre il dibattito di genere al consumo. Ancora una volta, è utile consultare Susan Willis: «Nel capitalismo, il genere è inesorabilmente legato al consumo. Compriamo, tanto nel contesto di un genere quanto nell'ambito di uno stile. Sia che si scelga un'immagine unisex che una ultra-femminile: è l'atto di comprare a ratificarlo, e in tal modo viene mantenuta la definizione di genere sulla merce». Vale a dire, che si tratta soprattutto di un'integrazione della forma merce nella nozione del genere. Chat GPT, in base a ciascun paese, ha già realizzato tutta una serie di modelli di Barbie, assimilando in essi tratti etnici e culturali. Barbie può apparire come se fosse un giocattolo con potenziale democratico, perfino geo-politicamente.
In sé, il film non vale il commento, ma visto che siamo qui, parliamone. Pieno di cliché che rimandano a Matrix (in Barbie, la differenza tra la pillola rossa, che porta al mondo reale, e quella blu, viene presentata per mezzo della dicotomia tra una scarpa col tacco alto e il sandalo – che viene presunto come meno elitario – di un marchio tedesco che costa 100 euro al paio), ad Harry Potter, al Padrino, a Truman Show, a Odissea nello spazio, e così via. Si tratta di un vero e proprio pasticcio di quelli che Fredric Jameson chiamava "pastiche" di vecchi prodotti dell'industria culturale (e delle teorie femministe che mobilita), e che costituisce uno dei più grandi sintomi della mancanza di immaginazione della postmodernità. Nulla in esso è nuovo o originale. Il riferimento a Ibsen è un'offesa all'opera di quell'autore (per coloro a cui piace l'argomento, vale la pena dare un'occhiata al libro di Elfriede Jelinek, "Cosa accadde dopo che Nora ebbe lasciato suo marito ovvero Colonne delle società": questo, sì, un lavoro femminista). Inoltre, Barbie, tra l'altro, realizza ciò che Martin Scorsese ha detto a proposito del cinema più recente: i film sono diventati dei grandi parchi di divertimento. In un momento in cui il cinema è in declino – da quando le giovani generazioni hanno scambiato il cinema (che rimane un'esperienza collettiva, sebbene mediata dalla forma merce) per quella che è l'esperienza privatizzata e atomizzata dello streaming credendo che si tratti dei contenuti infinitamente più brevi che vengono prodotti dagli stessi utenti – l'unica cosa in grado di riportare le masse al grande schermo è la propaganda di un giocattolo. Non si è trattato solo del fatto che, con l'industria culturale digitale, il sogno del cinema politico sperimentale sia andato incontro alla propria fine, ma significa anche che oggi la nozione di "cinema indipendente", per i critici che sono deliziati per i prodotti di Hollywood, sembra non fare alcuna differenza. Vale qui la pena tornare alla controversa domanda di Adorno: il pubblico può volere davvero tutto questo? O è proprio che siamo diventati, noi stessi, dei semplici burattini della pubblicità? Oggi, per tutta una parte della sinistra, criticare l'industria culturale rappresenta sempre un sintomo di elitarismo. Pertanto, diventa necessario tornare agli argomenti marxisti più basilari presenti nella teoria critica: si tratta soprattutto di una forma di imperialismo culturale. Il cinema dell'America – come il nome che si danno loro stessi, e che abbraccia tutto il continente – ha soppresso tutte le industrie cinematografiche locali, così come ha fatto con i loro immaginari estetici, politici e ideologici. Ma veniamo al film. Il mondo delle Barbie viene presentato come se fosse un'utopia femminista o "femminile" (coordinata da un'azienda gestita da uomini; i quali, alla fine, si rendono conto di non poter più sopportare il loro ruolo di leadership, questo enorme fardello!). Questo mondo è una sorta di versione sfumata del romanzo di Gioconda Belli, "Nel paese delle donne", che non sappiamo se sia stato un riferimento per il film. Come se un mondo dominato dalle donne – identificato, nel film, con il femminismo – fosse un'inversione del sessismo.
Un capitalismo pacifico, con delle Barbie felici che convivono armoniosamente con le Barbie stereotipate (una delle poche che non lavora), governato da un presidente nero. Vengono chiamate tutte quante Barbie, in modo che così la disuguaglianza di lavoro, sociale, razziale, corporale, ecc. venga compensata dall'uniformità dei nomi e dei giorni che sono tutti uguali. Il grande conflitto ha inizio nel momento in cui la Barbie perfetta comincia a presentare dei difetti, che si riflettono nella depressione della sua proprietaria in crisi di mezza età, la quale deve perciò tornare nel mondo reale per scoprire che cosa stia succedendo. E là, lei insieme a Ken – che, da ruolo di supporto, diventa il protagonista – scoprono il patriarcato; cosa che innesca tutta una serie di conflitti. Uno degli indici del femminismo del giocattolo, come suggerisce il film, sarebbe il fatto che nessuno è interessato al giocattolo Ken. A un certo punto - alludendo alla frase di Simone de Beauvoir e Virginia Woolf, su come la donna venga costituita sullo sguardo maschile, e su come la donna sia una sorta di specchio rovesciato degli uomini - Ken dice a Barbie: «Io esisto solo attraverso il tuo sguardo». Anche Ryan Gosling si impegna, ma è difficile dispiacersi per lui – così come per l'attrice protagonista Margot Robbie, la cui bellezza stereotipata, nel film, è oggetto di autoironia nel film. Al ritorno nel mondo incantato, Ken cerca di instaurare il patriarcato e le donne dovranno lottare per ristabilire il loro dominio. Dopo tutta una serie di scene ridicole, si riconciliano. Le donne si rendono conto che il femminismo non può essere solo la semplice inversione del sessismo, e perciò Ken e Barbie sciolgono la loro romantica coppia. Barbie decide di lasciare la casa delle bambole diretta nel mondo reale, dove la sua prima azione sarà quella di risolvere un inconveniente che caratterizza il film: non ha genitali. Quando passa nel mondo reale, la prima cosa che fa è di andare dal suo ginecologo, e lo fa come se stesse andando a una grande festa, le Birkenstock rosa ai piedi, che ci suggeriscono come il passaggio dalla bambola alla donna si realizza per mezzo del prendere possesso di una vagina. Invece di usarla per divertirsi, va da un medico, ricollegando così il genere al sesso, e suggerendo che dev'essere la medicina ad avere l'ultima parola sul suo status di donna. Il genere in quanto processo (anche politico) viene sostituito dal genere come merce e dal cosiddetto sesso biologico. Il finale punta, in tal senso, a una sorta di transfobia velata. Occorre sottolineare come la questione della dissociazione tra sesso, genere e sessualità - così come la critica della medicina in quanto istanza normalizzante di questi elementi - costituiscano le due grandi battaglie del femminismo, da Judith Butler a Silvia Federici. Così come vale la pena notare come la riduzione del genere a un articolo di consumo sia sempre una sorta di sconfitta del femminismo, come sostiene Nancy Fraser.
Che Oppenheimer e Barbie, siano stati i grandi film dell'anno, non è certo per caso. Al di là della pianificazione dell'industria culturale - tesa a produrre sempre più una società del caos perfettamente gestita - la mancanza di immaginazione di Barbie (e di alcuni dei critici che si sono dedicati a commentarla allegramente sui social) è il prodotto di un mondo nel quale la bomba atomica ha trasformato l'utopia in catastrofe; e in una catastrofe che a sua volta deve impedire la catastrofe più grande, se seguiamo le argomentazioni di Susan Buck-Morss. Oggi, il nostro desiderio più grande - in quanto sinistra - non punta al superamento, quanto piuttosto alla mera interruzione di un processo che ha ormai espulso da sé quella che è la storia, la temporalità, la capacità di immaginare il nuovo, il non identico. Barbie è espressione di una catastrofe ambivalente - per usare un'espressione di Étienne Balibar - è espressione della catastrofe digitale che ha trasformato l'industria culturale in una sorta di detonatore atomico. È una catastrofe che si presenta come un'utopia realizzata: la cosiddetta rivoluzione digitale ci spinge sempre più verso l'Unidimensionalità. Diventa così un nuovo modo di guidare i comportamenti, stavolta in rosa – come abbiamo visto con il film e con la sua propaganda – per produrre soggetti che non fanno altro che riecheggiare un potere che si presenta come invisibile e impersonale. L'aspetto peggiore della catastrofe si evidenzia nel fatto che non viene percepita come tale. La sinistra ha urgentemente bisogno di radicalizzare la sua critica all'industria culturale e alla tecnologia. Senza di essa non c'è narrazione, non c'è dialettica, non c'è utopia. Il film di Barbie fa parte del processo di Restaurazione che stiamo attraversando: «Barbie è morta? Lunga vita a Barbie!»
- Bruna Della Torre - Pubblicato il 10/8/2023 su Blog da Boitempo -
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
BALIBAR, Étienne. Utopia 1/13: Étienne Balibar e Bernard E. Harcourt, settembre 2022.
BUCK-MORSS, Susan. Mondo di sogno e catastrofe: la scomparsa dell'utopia di massa in Unione Sovietica e negli Stati Uniti. UFSC Publishing. Florianopolis. 2018.
JAMESON, Fredric - Postmodernismo: la logica culturale del tardo capitalismo. San Paolo: Attica, 2002.
WILLIS, Susan. Vita quotidiana: per cominciare. Rio de Janeiro: Pace e Terra, 1997.
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