domenica 6 agosto 2023

«dalla Grande Guerra alla soglia del Covid 19, dal fordismo al green»

«Secolo breve», «epoca di speranze e tragedie», «età della fine delle ideologie». Sono tante le definizioni del Novecento nel terzo millennio, in quella geografia enigmatica e indecifrabile che è il postmoderno. Demonizzato o santificato, incolpato o assolto, ha impresso una svolta epocale a economia e politica, ha inciso nel tessuto culturale e sociale del nostro paese, infrangendo equilibri secolari, mandando in frantumi la linea di continuità tra passato e futuro. Fino al salto decisivo: il tramonto della civiltà contadina e l’avvento dell’industrializzazione. Attraverso snodi e fenomeni della storia italiana Giuseppe Lupo, appassionato studioso della stagione del boom economico, ripercorre il «paradigma interpretativo del moderno», dando voce alle sue figure più rappresentative, da Vittorini a Testori, da Fortini a Mastronardi, da Calvino a Pasolini. Facendo luce sul controverso rapporto fra umanesimo e scienza nella narrativa di fabbrica e nei periodici aziendali del secondo dopoguerra – da Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri a Memoriale di Paolo Volponi, dalla rivista «Pirelli» a «Civiltà delle Macchine» –, approda al «realismo liquido» odierno, dominato dalla fine di quel proletariato che un tempo pareva marciare compatto e oggi sembra invece fragile e desueto. Se persone comuni ed élite intellettuali hanno reagito spesso con disagio e diffidenza a oscillazioni e problematiche che il vento del progresso ha portato con sé, forse è arrivato il momento di invertire la rotta. Di far riemergere dal sottosuolo in cui è rimasta nascosta una controlettura della modernità, originale, alternativa, progettuale, che aspiri a modificare il mondo, a «recidere il cordone ombelicale con il secolo terribile e maestoso di cui ci sentiamo ancora figli».

(dal risvolto di copertina di: Giuseppe Lupo, "La modernità malintesa. Una controstoria dell’industria italiana". Marsilio -pagg. 368, € 20 - )

Industria e cultura, un malinteso da superare
di Giuseppe Lupo

Se si percorre viale Sarca, a Milano, si vede la vecchia torre di raffreddamento della Pirelli ingabbiata dentro un’elegante struttura di vetro e metallo. È un monumento: non un rudere, una specie di celebrazione di un’epoca passata ma senza la retorica del ricordo, perché la luce naturale e quella dei lampioni disegnano sulle fiancate una composizione geometrica di ombre. Tutto ciò che le sta intorno – le pareti variopinte dei centri commerciali, i palazzi per uffici, i casermoni dei condomini, le carreggiate asfaltate, gli alberi – sembra che sia lì solo per ammirarne l’eleganza maestosa eppure non invadente, l’immagine razionale e inavvicinabile di una trasformazione antropologica di cui la torre rappresenta l’ultimo baluardo. Viale Sarca può essere assunto a chiave di lettura del tempo che stiamo attraversando. Da settant’anni il paesaggio continua a cambiare fisionomia: da periferia del Dopoguerra a palcoscenico del postmoderno, con l’Università Bicocca e il Teatro degli Arcimboldi che hanno sostituito i capannoni delle officine, con i grattacieli delle multinazionali che hanno soppiantato i vecchi, romantici magazzini di mattoni rossi e i tetti a forma di sega. Tutto all’incontrario il panorama che si spalanca da sopra la collina di Posillipo, quando si arriva al culmine della salita e ci si affaccia dalla parte opposta rispetto a quella del mare. Nessuno riuscirebbe a immaginare la spianata sottostante, un deserto colorato da ruggine più che dal verde dell’erba incolta, un orizzonte dimenticato dentro cui si innalzano i rottami di costruzioni metalliche, cilindri ammaccati, ponteggi abbandonati, attrezzi fuori uso. Da quelle parti sembra sia davvero volato l’Angelo della Storia di Walter Benjamin, terribile testimone della tragedia che il progresso porta con sé seminando ovunque rovine. La spianata fuligginosa di Bagnoli è ciò che rimane del grande stabilimento Ilva, il colosso siderurgico che ha smesso di produrre acciaio nei primi anni 90 ed è stato dismesso per fare spazio a qualcosa che, nei piani futuri, dovrebbe svolgere le funzioni di un museo a cielo aperto. Bicocca, a Milano, e Bagnoli, a Napoli, sono luoghi densi di memoria. Almeno quattro generazioni vi hanno messo radici e hanno creduto alla favola di un Novecento che desse lavoro e civiltà, benessere e speranza. In entrambi i casi, però, lo sviluppo è stato più forte delle attese e ha lasciato i segni incancellabili del proprio passaggio.

Potrebbe cominciare da questi due estremi geografici un viaggio dentro l’Italia delle fabbriche e del lavoro industriale, tra officine, catene di montaggio, uffici, mense, al fianco di operai e impiegati, dirigenti e imprenditori; un itinerario lungo un periodo solo in apparenza breve – dalla Grande Guerra alla soglia del Covid 19, dal fordismo al green– eppure assai più sconfinato di quanto non indichi il lasso di anni. Muoversi tra libri, riviste, dipinti, pellicole che hanno dato corpo narrativo a questo fenomeno equivale a compiere una ricognizione nel mito di un secolo che ha marcato per sempre la storia umana con le sue lusinghiere promesse di futuro e i suoi incubi distopici, un tempo caratterizzato da quegli oggetti che sono scaturiti da una creatività artigianale, tipicamente italiana, e hanno nutrito, con la qualità del design, con la raffinatezza del gusto, con il loro inconsueto passare dallo stato di quiete all’estrema animazione, l’immaginario di un popolo destatosi dal torpore della civiltà contadina e proiettatosi verso il miraggio di un benessere alla portata di tutti. Non è detto che questa sia l’unica modernità che il Novecento è riuscito a manifestare, però è sicuramente la più emblematica per la sua ricaduta morale, quella che ha fatto da discrimine tra un prima e un dopo, accompagnando, con il suo procedere rapido, la coscienza di una nazione. Non è stato un passaggio indolore.

Il diffondersi dello sviluppo tecnologico, infatti, inevitabile e necessario per chi intendeva collocarsi dentro il modello occidentale, ha lacerato un tessuto millenario di tradizioni, ha provocato una crisi di identità e un processo di desacralizzazione di cui ancora stiamo pagando il prezzo. E tuttavia l’urgenza di assecondare l’onda del progresso è stata più forte di ogni resistenza. La chiave del discorso sta qui, in bilico tra l’accettazione o la negazione del moderno, nel punto problematico in cui, di fronte al cambiamento che la nuova epopea delle macchine ha reso possibile, si sono manifestate reazioni contrastanti tanto nella gente comune (che ha goduto della possibilità di circondarsi di beni materiali) quanto nelle élite intellettuali, in cui spesso gli atteggiamenti ambigui e corrosivi nei confronti dei fenomeni legati all’industria, diciamo pure il pregiudizio e il dissenso, hanno marcato una specie di anti-modernità che ha posto le radici nel sostrato ideologico di un secolo votato allo scontro tra i modelli di società e di economie. Difficile comprendere come mai si sia verificata questa vistosa anomalia. Da una parte, famiglie di operai e di impiegati, convinte di varcare finalmente la soglia del benessere. Dall’altra, scrittori, filosofi, artisti, registi, che hanno interpretato gli stessi fenomeni attraverso il filtro deformante del pregiudizio politico, assumendo talvolta l’aspetto dei profeti di sventura o rifugiandosi in una tanto invocata quanto infida età dell’oro, dove ogni cosa si ammantava di innocenza e la nostalgia per il Paese d’arcadia prendeva il sopravvento sulla capacità di progettare il futuro. Domandarsi chi avesse ragione potrebbe essere scontato. Se è vero che la modernità è stata male interpretata dagli intellettuali, non si è trattato soltanto di un errore di posizionamento, ma di un’occasione perduta, che ha messo a nudo l’incapacità di vivere il proprio tempo avvalendosi degli strumenti adatti non a giudicarlo, ma a comprenderlo e correggerne le distorsioni. Così non è stato. Ora che il Novecento è terminato, ora che il termine «fabbrica» indica altro rispetto ai decenni passati a causa della dismissione e della delocalizzazione, è arrivato il momento, ed è ciò che cerco di fare in questo libro, di ripercorrere il rapporto tra cultura e industria alla luce di un’ipotetica contro-lettura in grado di smascherare i malintesi che non solo hanno impedito di comprendere i caratteri di un’epoca, ma che continuano a segnare i rapporti fino ai giorni nostri, in un presente ben oltre la nozione di industria che il Novecento ci ha restituito. Ciò che di fuorviante il processo di rinnovamento del Paese si è trascinato dietro rende non scontato, anzi sorprendentemente attuale, il bisogno di discutere sul moderno. In un’età dove il moderno non esiste più.

- Giuseppe Lupo - Pubblicato su Domenica del 23/4/2023 -

2 commenti:

Sal ha detto...

Secondo questo libro il contadino a differenza dell'intellettuale italiano avrebbe capito la modernità e ha scelto dunque di diventare operaio. Ma veramente l'ha scelto?

BlackBlog francosenia ha detto...

Non credo che sia codesta l'asserzione su cui si fonda il libro.
Direi che piuttosto il "contadino" procedeva da altre necessità e come scrive l'autore soffre di meno "pregiudizi", ragion per cui, a conti fatti, non si "rifiuta" di "diventare" operaio.
Ecco, direi che la cosa andrebbe giocata sull'assenza del rifiuto, cosa che invece poi maturerà in altro modo, e sotto altri auspici, nei confronti del "lavoro"...