La teoria critica, nelle diverse forme elaborate nel tempo, si presenta essenzialmente come “critica dell’ideologia”, ovvero come smascheramento delle dinamiche di oppressione agenti nella società e giustificate da apparati culturali, normativi ed economici. Tale critica si può intendere come l’analisi storico-filosofica degli effetti alienanti determinati dall’agire umano. Tuttavia, senza prospettare la possibilità di concrete alternative che possano gradualmente modificare e redimere la realtà, la sua efficacia pratica risulta fortemente limitata. Da qui la necessità di coniugare la critica con l’utopia, per ispirare nuove visioni al pensiero politico, che tendano a scardinare le strutture di sopraffazione e costruire una più emancipata versione del vivere sociale.
(dal risvolto di copertina di: ROBERTO MORDACCI, "Critica e utopia. Da Kant a Francoforte". CASTELVECCHI Pagine 188, €19,50)
L’utopia di oggi è riconciliare civiltà e natura
- di Maurizio Ferrera -
Nella filosofia moderna il concetto di «critica» irrompe grazie a Immanuel Kant, che le attribuisce un compito fondativo: individuare le condizioni che rendono possibile l’uso della ragione in ambito sia teoretico che pratico. Con Karl Marx, l’analisi critica si storicizza: il suo oggetto diventano le dinamiche concrete della società al fine di metterne in luce le contraddizioni e individuare le trasformazioni capaci di superarle. Negli anni Trenta del secolo scorso, gli studiosi della Scuola di Francoforte (come Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Walter Benjamin) integrano l’approccio marxiano con le acquisizioni delle scienze sociali empiriche. Alla filosofia critica spetta la funzione di definire innanzitutto i problemi di ricerca e di organizzarne poi i risultati entro un quadro interpretativo il cui fine ultimo è disvelare gli ostacoli alla emancipazione umana. Di particolare rilevanza, per i francofortesi, è la critica dell’ideologia, ossia lo smascheramento della falsità delle strutture culturali e sociali che giustificano e riproducono l’oppressione. Già all’interno della Scuola di Francoforte e poi nei successivi sviluppi, la teoria critica ha assunto sfumature e orientamenti diversi. Il recente libro Critica e utopia (Castelvecchi) di Roberto Mordacci, autorevole studioso di filosofia della storia, ne fornisce una efficace sistematizzazione, distinguendo fra quattro principali filoni. Il primo è quello della critica trascendentale che, alla stregua di Kant, mira a individuare le strutture normative che orientano i tipi di azione. Un esempio è la teoria di Jürgen Habermas sull’agire comunicativo. Quest’ultimo si esplica tramite un dialogo intersoggettivo volto a raggiungere intese su principi e immagini del mondo. Se non rispetta alcune condizioni trascendentali (sincerità, veridicità e così via) la comunicazione fallisce e genera contraddizioni pratiche che impediscono l’intesa. La seconda forma di critica è quella dialettica, di derivazione hegelo-marxiana. Qui l’attenzione si concentra sulle manifestazioni concrete della prassi storica, come l’Illuminismo e il predominio della razionalità strumentale (Adorno e Horkheimer) o la società unidimensionale (Marcuse). Queste manifestazioni vengono criticate in quanto deformazioni dei propri stessi presupposti normativi. Il capitalismo vuole produrre ricchezza, ma finisce per causare crisi ricorrenti, sfruttamento e alienazione. E questi effetti perversi vengono occultati attraverso giustificazioni ideologiche che creano false motivazioni. La terza forma è quella genealogica, più vicina a Friedrich Nietzsche. In questo caso lo scopo della critica è decostruire le contraddizioni presenti rintracciandone le radici storiche profonde. Adorno e Horkheimer collegano la deriva totalitaria loro contemporanea a quella «separazione fra soggetto e oggetto» caratteristica del pensiero occidentale fin dal mito di Ulisse (la razionalità strumentale) che si lega le mani per resistere alle sirene (le forze della natura). Gli studi di «archeologia del sapere» di Michel Foucault (ad esempio la sua Storia della follia) sono un altro esempio di critica genealogica. Infine c’è la critica messianica, esemplificata soprattutto da Benjamin. Ad essere sotto processo è qui l’idea stessa di storia come progresso, capace di superare per gradi oppressione e alienazione (come nel pensiero socialdemocratico). Le contraddizioni della realtà sono invece insanabili, l’unica redenzione può avvenire per mezzo di un evento rivoluzionario radicale e definitivo.
Nella seconda parte del suo interessante volume, Mordacci collega teoria critica e pensiero utopico (a cui aveva già dedicato il libro Ritorno a Utopia, Laterza, 2020). Pur sorretta dall’impegno normativo nei confronti dell’emancipazione, la teoria critica si concentra sulla denuncia delle contraddizioni, ma non delinea scenari alternativi. Per Mordacci bisogna superare questo limite, impegnandosi in un «completamento costruttivo che osi immaginare l’alternativa nelle sue forme più concrete».
L’autore propone dunque una quinta forma di critica, capace di immaginare nuovi mondi possibili in grado di motivare l’azione politica a favore del cambiamento. La critica utopica non si limita a rilevare le contraddizioni del presente, ma suggerisce, anche per frammenti, percorsi concreti di rovesciamento che colpiscano i nodi nevralgici delle strutture di oppressione e sfruttamento. Quale metodo seguire per esercitare l’immaginazione utopica?
Nel capitolo più originale del libro, Mordacci sostiene che tale esercizio deve poggiare su quella funzione — insieme emotiva e cognitiva — che la tradizione filosofica ha chiamato sensus communis. Senso di giustizia, tensione verso l’eguaglianza, desiderio di libertà, impulso alla solidarietà, aspirazione alla felicità: queste le capacità di base da impiegare per l’immaginazione del futuro.
L’autore non si sottrae al compito di individuare l’attuale priorità per la critica utopica: l’emergenza ambientale. Giustamente, Mordacci sostiene che il cambiamento climatico è una sfida ineludibile, il risultato di un grumo di contraddizioni che mette a repentaglio la stessa sopravvivenza del pianeta. Ci troviamo di fronte a una vera e propria necessità utopica: ripensare nel profondo il rapporto fra uomo e natura, liberando le potenzialità di giustizia sociale ed emancipazione che si aprono in questo processo.
L’appello di Mordacci è più che giustificato. Denunciare le contraddizioni e sottolineare l’enormità del rischio che incombe su di noi non fornisce oggi incentivi sufficienti affinché la sfera politica si attivi per scongiurare l’estinzione collettiva. E anche se accadesse, il semplice istinto di conservazione potrebbe dar luogo a risposte regressive e non emancipative. La motivazione che deve spingerci a cambiare modello di sviluppo non deve essere solo la paura, ma anche e soprattutto la speranza (non a caso Mordacci richiama Ernst Bloch e il suo principio speranza). Dobbiamo perciò attivare quella coscienza anticipante che forgia il «non-ancora» come meta di libertà e giustizia e, oggi, di riconciliazione con la natura. Alle capacità del senso comune elencate da Mordacci dovremmo forse aggiungere quella che i pensatori ambientalisti chiamano sensibilità biofilica: il senso di appartenenza e l’attrazione spontanea che noi umani proviamo per la natura e tutti gli esseri viventi. Per Adorno e Horkheimer il razionalismo occidentale nacque con l’astuzia di Ulisse di fronte alle sirene. Il vero errore non fu però resistere al canto, ma lasciare dietro di sé il verde prato fiorito che copriva la loro isola. Oggi abbiamo bisogno di utopie realiste che ci aiutino a sanare quella separazione. Con un nuovo «folle volo», nel nome di una sostenibilità equa e inclusiva.
- Maurizio Ferrera - Pubblicato su La Lettura del 7/5/2023 -
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