venerdì 4 agosto 2023

Un «serpente di mare»…

Robert Kurz & Roswitha Scholz : rileggere Marx contro i marxisti
- di Christophe Gueugneau -

In Germania, dalla fine degli anni Ottanta, un movimento teorico è tornato alle fonti del Capitale di Marx, per ricavarne un nuovo modo di leggere il capitalismo: la critica della dissociazione del valore. Questo nuovo approccio ha scosso sia il marxismo tradizionale che il post-modernismo. Tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90, caduto il Muro di Berlino e crollata l'Unione Sovietica, ci furono alcuni che predissero la fine della storia, mentre altri vedevano piuttosto la fine delle ideologie. Sembrava che i marxismo avesse ormai fatto il suo tempo. La lotta si era conclusa con la sconfitta del proletariato; come ebbe a dire nel 2005 il miliardario Warren Buffet: «C'è una guerra di classe, è un fatto. Ma è stata la mia classe, la classe dei ricchi, ad aver combattuto questa guerra, e a vincerla». Il trionfo - apparente - dell'Occidente aveva inferto un duro colpo ai movimenti marxisti, e tuttavia, in Germania, c'era un piccolo gruppo che aveva formulato una diagnosi assai diversa: e se la caduta dell'URSS non fosse stata altro che la prima tappa della crisi finale del capitalismo?
Nel 1991, Robert Kurz (1943-2012) pubblicava "Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale" [in italiano, Mimesis, 2017]. Nel libro - con 25.000 copie vendute in Germania e descritto dalla Frankfurter Rundschau come «il più discusso tra i libri recentemente pubblicati» - Kurz sostiene che l'URSS non è mai stata socialista, e che questo non fu dovuto unicamente alla dittatura burocratica messa in atto, ma soprattutto al fatto che l'Unione Sovietica era solamente una variante della società globale delle merci. Per Kurz si era trattato soprattutto di una «modernizzazione di recupero», vale a dire, «di una versione accelerata dell'installazione delle forme sociali di base del capitalismo, che era sta fatta soprattutto a partire dalla riorganizzazione delle vecchie strutture sociali premoderne, al fine di imporre, attraverso il lavoro, la socializzazione degli individui»; ciò secondo quelle che sono le parole di Anselm Jappe e Johannes Vogele, scritte nella prefazione all'edizione francese del libro. A partire da tale deduzione: non si era trattata affatto di una «alternativa» al sistema capitalistico, poi fallita, ma piuttosto dell'«anello più debole» di un unico sistema. Quando, nel 1991, era stato pubblicato il libro, Robert Kurz aveva 48 anni, e una solida formazione teorica. Nato a Norimberga - dove trascorrerà tutta la sua vita e dove ha continuato a lavorare, prima come tassista e poi come impacchettatore e addetto alle spedizioni per il giornale locale - Robert Kurz, tra il 1966 e il 1971, ha militato prima nell'SDS (Unione degli Studenti Socialisti Tedeschi) e poi nell'APO (Opposizione Extraparlamentare), in prima linea nel movimento del 1968 tedesco. Tra il 1972 e il 1976 si unisce a uno dei numerosi cosiddetti K-Gruppen (gruppi comunisti) che in quegli anni emergevano nell'estrema sinistra: il KABD (Unione Comunista Operaia Tedesca). Espulso dal KABD nel 1976, rimarrà impegnato nel marxismo-leninismo fino alla metà degli anni Ottanta. Fino a quando, nel 1984, Kurz e il suo piccolo gruppo di compagni verranno raggiunti dalla nuova generazione nata dopo gli anni Sessanta e proveniente da circoli autonomi e dagli squat: la "vecchia" generazione voleva imparare dai fallimenti degli anni '60 e '70, mentre la "nuova" generazione voleva fare un bilancio dei fallimenti delle recenti lotte dei giovani all'inizio degli anni '80. Anche Roswitha Scholz si unì al gruppo.

Vicina agli ambienti anti-autoritari e alla sinistra spontaneista, Roswitha Scholz scopre quella che è un'altra possibile lettura del marxismo frequentando i seminari sulla Scuola di Francoforte: «Ben presto mi fu chiaro che per poter comprendere i suoi testi, dovevo imparare di più su Marx, e così mi avvicinai a "Iniziativa critica marxista", un gruppo che proponeva un corso su Marx, e nel quale Robert Kurz era una figura centrale», ha spiegato in un'intervista del 2017. Iniziativa Critica Marxista era nata a partire da una constatazione condivisa dal gruppo: era urgente uscire dal ciclo «maniaco-depressivo» di quella che era ormai una militanza svuotata di ogni riflessione teorica approfondita. Sulla scia di Theodor Adorno, il gruppo riteneva che «la teoria non deve più essere un semplice strumento di legittimazione della prassi; non deve essere al servizio dell'attivismo militante, ma deve costituire un suo dominio autonomo», spiega Clément Homs, animatore del sito web sulla teoria critica del valore ( http://www.palim-psao.fr/ ) di lingua francese  e cofondatore della rivista "Sortir de l'économie".
A tal fine, il gruppo ritiene che sia indispensabile tornare a Marx e alla sua critica dell'economia politica, a partire dal fatto che i membri del gruppo sono convinti che - fino a oggi - il fallimento del marxismo sia dovuto a una lettura parziale dell'autore del Capitale, la quale ha ignorato quella che era invece stata la critica del pensatore tedesco verso le categorie stesse su cui si basa il capitalismo: la merce, il valore, il lavoro, lo Stato, ecc.; così come ha trascurato la sua teoria della crisi fondamentale del capitalismo. In sintesi, essi contrappongono il Marx del Capitale al Marx del Manifesto comunista. Dopo che negli anni '90 si è ribattezzato "Krisis", il gruppo tuttavia non riparte da zero. Innanzitutto, c'era già stato Georg Lukács, che nella prima parte della sua opera aveva individuato la critica di Marx alla forma-merce e alla forma-valore. Poi ci sono stati Rosa Luxemburg, Henryk Grossmann e Paul Mattick, ognuno dei quali ha cercato di sviluppare una teoria della crisi fondamentale del capitalismo. E poi, tra gli anni '60 e '70, abbiamo assistito a tutta una rinascita di teorici marxisti dimenticati, come Isaak Ilijc Rubin, Evgenij Bronislavovic Pašukanis  e Roman Rosdolsky. In un testo del 1957, Rosdolsky sostiene che «si può ben parlare di un Marx esoterico e di un Marx essoterico - nel senso che vogliamo capire la differenza tra la teoria originale e le conclusioni e le proiezioni da essa derivate».

Questa distinzione non è affatto banale. Essa evidenzia un'imprecisione nel discorso di Marx: le grandi categorie del capitalismo - il lavoro, il valore, il denaro, la merce - appaiono a turno come specifiche del capitalismo, ma allo stesso tempo vengono viste anche, in altri punti del suo testo, come trans-storiche, come se fossero naturali e presenti da sempre. «Il Marx essoterico è il Marx del suo tempo, un uomo del XIX secolo caratterizzato dalle idee di progresso, dalle idee dell'Illuminismo, oltre che da questa idea di una naturalizzazione dell'economia», spiega Clément Homs. «Ma altrove, sempre in quegli stessi testi, Marx specifica e puntualizza storicamente quali sono le categorie del capitalismo: questo è il Marx esoterico». Lo studio dettagliato della critica marxiana di quelle che sono le principali categorie del capitalismo, dalla loro storicizzazione (possiamo anche riferirci ad Anton Pannekoek), alla loro denaturalizzazione, è stato uno dei primi contributi di questa corrente di critica del valore, della quale Robert Kurz costituisce la figura di riferimento. Simultaneamente, Krisis andrà a riprendere anche quelle parti che, in Marx, rappresentano il suo lavoro relativo alla crisi fondamentale del capitalismo, tra cui il più significativo rimane il "Frammento sulle macchine", dei Grundrisse. Robert Kurz dimostra come tra i marxisti , la «teoria del collasso» - vale a dire, il fatto che il capitalismo si stia dirigendo verso i suoi propri limiti - era ben lungi dall'essere oggetto di un ampio consenso, e si trattava piuttosto di un vero e proprio «serpente di mare». A suo avviso, le uniche teorie che hanno analizzato tali limiti - ossia, quelle di Rosa Luxemburg e quelle di Henryk Grossmann - sono rimaste a metà strada, e non hanno avuto alcuna influenza reale sul movimento operaio. Per riuscire a comprendere questa crisi annunciata, bisogna ripartire da Marx. Che cos'è il valore di una merce? Esso rappresenta la quantità di lavoro astratto socialmente necessario che in quella merce è contenuto. A differenza del lavoro concreto (quello che alla merce dà la sua forma), il lavoro astratto concepisce questo stesso lavoro solo in quanto «dispendio di cervello, di nervi, di muscoli, di organi, di sensi», per citare Marx. Poco importa quale sia la qualità del lavoro (il lavoro concreto), a riflettersi nel valore di una merce, è la quantità (il lavoro astratto), il quale fa poi in modo che essa possa essere scambiata con un'altra merce, il cui valore a sua volta verrà determinato da questo stesso lavoro astratto. Ma, nel valore di una merce, questo «dispendio di cervello, nervi, muscoli», ecc. non viene preso in considerazione in quanto tale, perché in ultima analisi tale valore di una merce dipende dal «tempo medio di lavoro socialmente necessario per la sua produzione». Se un tessitore ci impiega dieci ore per produrre una camicia - mentre un operaio che utilizza una macchina a produrre la stessa camicia ci mette un'ora sola - ecco che allora la camicia "vale" solo un'ora di lavoro, e può essere scambiata solo contro questo valore di un'ora di lavoro. Ed è sempre questo valore della camicia, in relazione al «tempo medio di lavoro socialmente necessario per la sua produzione», quello che consente di scambiarla con altre merci.

«La forma-valore e la relazione di valore tra i diversi prodotti del lavoro, non hanno assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica», sottolinea Marx, nel primo capitolo del Capitale. «Si tratta solo di una particolare relazione sociale che gli uomini intrattengono tra di loro, e che qui assume per loro la forma fantasmatica di quella che è una relazione di cose, tra di esse». A partire da questo, si pone un problema: se, a essere contenuto nel valore di una merce, è il dispendio di cervelli, muscoli, nervi, ecc., mentre che allo stesso tempo, per prosperare, il capitalismo tende a ridurre questo dispendio - in particolare, attraverso la meccanizzazione del processo lavorativo - ecco che, allora, proprio quando spera di guadagnare valore, invece lo perde! Segare il ramo su cui si è seduto; ecco qual è la sua contraddizione fondamentale. È questa la teoria del collasso, la teoria della crisi. Una crisi resa ancora più immediata grazie alla terza rivoluzione industriale, quella della micro-informatica, nella quale il lavoro umano viene sempre più sostituito con quello delle macchine, in una misura tale che non può più essere compensata da altri meccanismi. E a questa crisi interna bisogna ora aggiungere i limiti esterni del capitalismo: i limiti ambientali e la devastazione e il saccheggio di tutto ciò che è vivente, ma anche l'imbarbarimento generalizzato delle relazioni umane a quasi tutti i livelli della vita sociale e privata. È senza dubbio questa, a costituire una delle grandi originalità della critica del valore: essa fornisce una spiegazione globale e soddisfacente della crisi in cui il capitalismo è sprofondato negli ultimi cinquant'anni. Una spiegazione, che ci consente di vedere la recente finanziarizzazione dell'economia per quello che è: non si tratta di un'altra tappa del capitalismo, ma un ultimo tentativo del capitalismo di salvarsi, facendo affidamento sui guadagni futuri, invece che sui ricavi presenti. Ne "Il collasso della modernizzazione" [1991], Robert Kurz è arrivato a questo punto della sua riflessione. Ma - come sottolineano Anselm Jappe e Johannes Vogele nella loro prefazione - il libro «presenta ancora diversi limiti che negli scritti successivi di Kurz verranno poi superati». Tra questi limiti, «la critica del lavoro, visto come la base della società del valore - lavoro che deve essere abolito e non valorizzato - non è stata ancora completata».

Ciò è avvenuto nel 1999. Quando, insieme a Ernst Lohoff e a Norbert Trenkle, Robert Kurz firma un "Manifesto contro il lavoro" a nome del gruppo Krisis. Nella prefazione all'edizione francese, Alastair Hemmens ritorna sui due Marx: «Il Marx essoterico vedeva il lavoro come una forma sociale positiva, trans-storica, alienata e sfruttata da una classe dominante: la borghesia. Il "Capitale", in questo senso, sarebbe una sorta di furto di una ricchezza che rimane indiscussa. [...] Il Marx esoterico, invece, vedeva nel lavoro in quanto tale l'essenza stessa del capitalismo: un dominio feticistico, astratto e senza soggetto. [...] Perciò, seguendo la logica di questo Marx esoterico, l'anticapitalismo oggi dovrebbe consistere non solo nell'accaparramento dei 'mezzi di produzione', ma più fondamentalmente nell'abolizione del lavoro in quanto relazione sociale». È questo il senso del "Manifesto". Esso propone una critica categoriale del lavoro, e non una critica del lavoro in quanto "alienato", e così facendo postula un fatto importante il quale è una conseguenza immediata del processo capitalistico: il lavoro si trova in punto di morte, sta scomparendo. «Un cadavere domina la società, il cadavere del lavoro. Tutte le potenze mondiali si sono coalizzate per difendere questo dominio: il Papa e la Banca Mondiale, Tony Blair e Jörg Haider, i sindacati e i padroni, gli ecologisti in Germania e i socialisti in Francia. Dalle loro labbra esce una sola parola: lavoro, lavoro, lavoro !», scrivono perciò gli autori in apertura del "Manifesto". Questa morte del lavoro trascina con sé la sua quota di esclusi, di superflui, «ai reietti cui resta soltanto una funzione sociale: quella dell'esempio deterrente. Il loro destino deve pungolare sempre di più tutti quelli che si trovano ancora in corsa nel "gioco dei quattro cantoni" della società del lavoro a combattere per gli ultimi posti, e tenere in movimento frenetico perfino la massa dei perdenti, affinchè non passi loro nemmeno per la testa di ribellarsi contro queste insolenti pretese del sistema».

Attaccando il lavoro in quanto categoria, il "Manifesto" fornisce quello che è un altro elemento chiave della critica del valore, vale a dire, denunciare la lotta di classe in quanto «alfa e omega categoriale della teoria marxiana». Si tratta di quel che scrivevano Robert Kurz ed Ernst Lohof nel 1989, nel loro breve saggio "Le Fétiche de la lutte des classes" (pubblicato da Crise & Critique, nel 2021). Nella loro analisi, il soggetto storico presunto, che nella logica marxista dovrebbe riprendere in mano il suo futuro, ossia la classe proletaria, non rappresenta altro che una «pseudo-soggettività» la quale «rimane prigioniera del feticismo della forma-merce».

«La lotta di classe esiste, essa è reale», spiega Clément Homs, «ma si svolge all'interno del capitalismo. Questa lotta è ovviamente logica, ma tuttavia, in sostanza, continua a far parte del meccanismo di base del funzionamento del capitalismo». Così, nel capitalismo viene messa in atto un'inversione soggetto-oggetto, rappresentata dal feticismo della merce. Tale termine è stato usato da Karl Marx nel Capitale. In sostanza, avviene che la merce viene sì creata e prodotta dall'uomo, ma è proprio questa merce - o più precisamente l'astrazione che essa rappresenta - a diventare il fulcro del capitalismo, il suo vero soggetto, mentre l'uomo non ne è altro che il suo oggetto. «Tutto ruota intorno a questa astrazione, nella quale gli uomini diventano creature della loro stessa creazione», spiega Clément Homs. Robert Kurz parla di «dominio senza soggetto» (il titolo di un suo saggio pubblicato nella raccolta "Ragione sanguinaria" [Mimesis, 2014], ma questo, secondo Clément Homs, «non nel senso che i soggetti sarebbero i burattini di altri soggetti, quanto piuttosto nel senso che sono i burattini a tirare i propri fili, in una sorta di auto-dominio». E questa dominazione si impone su tutte le altre: la dominazione personale di individui su altri individui, o di una classe su un'altra. È lo stesso Marx a ritenere che gli individui siano delle «personificazioni dei rapporti sociali», delle «maschere di carattere». Questo dominio senza soggetto, ha una conseguenza logica in quella che è la nostra interpretazione di ciò che l'anticapitalismo non dovrebbe essere. Se è vero che tutti gli individui sono coinvolti nel feticismo della merce, ecco che allora diventa inutile, e persino pericoloso, attaccare soltanto i capitalisti. Vale a dire, che il populismo, il discorso «noi contro loro», il movimento Occupy Wall Street contro l'1%, e  tutti questi discorsi non affrontano il problema nella sua interezza. In tutto questo si intravvede persino l'ombra dell'antisemitismo. A margine del gruppo, questo lavoro teorico viene completato da quello di Roswitha Scholz, compagna di Robert Kurz. Nel corso di un'intervista, rilasciata nel 2017 alla filosofa e femminista spagnola Clara Navarro Ruiz, spiega: «Avevo formato, insieme ad altre persone, un gruppo di outsider [nel quale] studiavamo la storia dei movimenti femministi e i testi di teoria femminista». A partire da questo lavoro di riflessione, è nato un testo decisivo: "Der Wert ist der Mann" ["Il valore, è il maschio"], il quale verrà poi pubblicato in francese nel 2017 in «Le Sexe du capitalisme, "masculinité" et "féminité" comme piliers du patriarcat producteur de marchandises», Crise & Critique, 2019).

Il testo, che era apparso in Germania nel 1992, propone un'importante integrazione a quella che era stata la critica del valore sviluppata fino ad allora: al punto da cambiarne il nome in «critica della dissociazione del valore» (in tedesco, Wertkritik diventa Wertabspaltungskritik). Innanzitutto, Roswitha Scholz constata come il marxismo tradizionale, e in una certa misura anche il movimento della critica del valore, quanto meno nelle sue fasi iniziali - consideri sessualmente neutra la relazione capitalistica. In tal modo, il legame con la relazione asimmetrica di genere non viene per niente tematizzato. In contrapposizione a questo, Scholz afferma invece che la relazione di capitale si trova a essere immediatamente connotata sessualmente. A differenza delle altre correnti femministe, Roswitha Scholz - pur concordando sul fatto che nel corso della storia ci siano state varie forme di patriarcato - non accetta che si possa convalidare il fatto che esisterebbe un'essenza trans-storica del patriarcato. Per lei, il patriarcato odierno è specifico, ed è inseparabile dalla nascita del capitalismo: da qui, il concetto di «patriarcato produttore di merci». A suo avviso, l'intera sfera dell'economia imprenditoriale, ma anche quella della politica, così come quella della scienza, per esistere, abbiano tutte bisogno di rappresentazioni, di valori e di obiettivi che vengano immediatamente connotati come maschili. Al maschio bisogna che venga associata la razionalità, il rendimento e l'efficienza, mentre tutto ciò che non rientra in questa sfera di valori viene invece dissociato dai soggetti maschili per venire proiettato sul femminile: attitudini, mansioni domestiche, emozioni. In particolare, Roswitha Scholz insiste sul fatto che, a creare questa forma di patriarcato, non è il capitalismo; patriarcato e capitalismo sono consustanziali. La dissociazione è il presupposto della valorizzazione, e viceversa. «La mia tesi è quella che sostiene che le mansioni relative al lavoro domestico e alla riproduzione sociale, non solo vengono dissociate dal valore economico e dal lavoro astratto, ma anche che ne rappresentano il loro tacito prerequisito. Questa struttura fondamentale, che ho qui schematizzato, tratteggiandola a grandi linee, penetra e impregna tanto la cultura quanto la società in tutto il loro complesso», ha dichiarato nel 2011, sul sito femminista del quotidiano austriaco di sinistra "Der Standard".

«Durante i primi anni, successivi al nostro incontro» - racconta Roswitha Scholz - «Robert Kurz e io ci siamo regolarmente scontrati sul femminismo. Ma con mia grande sorpresa, nel momento in cui ho esposto la tesi secondo cui: "il valore è il maschio", essa gli è apparsa ovvia. A partire da allora, in quanto testa pensante del gruppo, ha cercato in tutti i modi di far comprendere questa tesi ai membri di Krisis, i quali erano tutti uomini. Ma rimase sorpreso nel vedere, che a differenza delle altre innovazioni, riuscisse difficilmente a promuovere questa tesi.» Ma Roswitha Scholz non si limitò a completare la critica del valore, ma nel contempo si misurò anche con le teorie postmoderne dell'epoca. In particolare, sotto l'influenza di Adorno, avanzò la proposta di un nuovo a concetto di essenza della società. «Lei riteneva che le teorie postmoderne avessero ragione a dire che esistevano altre dimensioni, altre forme di discriminazione, che dovevano essere prese in considerazione, ma allo stesso tempo queste stesse teorie avevano il torto dii gnorare quegli stessi livelli dell'essenza, della totalità», spiega Clément Homs. Scholz propone pertanto una teoria che prevede diversi livelli nella società. Il livello macrologico corrisponderebbe all'essenza della società, alla dissociazione del valore, e attraverserebbe tutta la società, senza essere però sufficiente a spiegare la società nel suo complesso. Da qui,  il livello mesologico [N.d.t.:Termine della biologia, oggi di raro uso, con cui si è talora indicata la disciplina che studia la reciproca influenza e le reazioni tra gli organismi viventi e l’ambiente in cui vivono; equivale in genere all’odierna ecologia.]: le istituzioni, le classi, la discriminazione, il sessismo, l'antisemitismo, ecc. E poi, infine, il livello micrologico, il livello individuale. Ciascuno di questi livelli ha la propria dimensione da tenere in considerazione; spiega Scholz.

Sebbene questa tensione,  tra i sostenitori della critica del valore e quelli della critica della dissociazione del valore, non ne sia stata necessariamente la causa principale, essa ha tuttavia contribuito alla scissione del gruppo: nel 2004, Scholz, Kurz e altri hanno lasciato Krisis e hanno fondato la rivista Exit!. Gli anni che hanno preceduto questa separazione hanno dato vita a un «aspro conflitto» (come lo ha definito Robert Kurz) intorno a un argomento che era scaturito direttamente dalle affermazioni di Roswitha Scholz: il tabù della modernità e la critica dell'Illuminismo. Nel 2002 e nel 2003, Kurz aveva cercato di pubblicare sulla rivista Krisis una serie di testi su questo tema, i quali verranno poi tutti pubblicati in francese nel 2021, con il titolo "Raison sanglante, Essais pour une critique émancipatrice de la modernité capitaliste et des Lumières bourgeoises" (Crise & Critique, 2021). Nel primo testo, "Raison sanglante" [Ragione sanguinaria], Robert Kurz scrive: «Quel che è diventata necessaria, è una nuova critica fondamentale della costituzione borghese e della sua storia. Le inabitabili rovine della soggettività occidentale non hanno bisogno del decoratore intellettuale dal gusto squisito, ma del gruista con la sua palla demolitrice».

Perché voler criticare l'Illuminismo? Perché «è con il metro dei suoi risultati catastrofici che andrebbe misurata la "modernità": senza giustificazioni, senza alcuna dialettica preoccupata di giustificare e relativizzare», risponde Kurz, fin dall'inizio. Per il pensatore tedesco, «l'Illuminismo è stata un'ideologia che ha contribuito a imporre il moderno sistema della produzione di merci». Su "Tabula rasa", Kurz espone quello che a suo avviso è il «cuore del problema»: «si tratta della moderna forma-soggetto borghese, strutturalmente maschile». E continua: «La forma-soggetto non è nient'altro che il modello generale a partire dal quale ci si relaziona al mondo capitalistico moderno, è la forma generale di pensare e di agire nel processo di socializzazione attraverso il valore». Nel corso di circa una trentina d'anni, la critica della dissociazione del valore ha rinnovato profondamente la nostra lettura di Marx, e ha proposto una lente per guardare all'attuale dello stato del capitalismo globale oggi in crisi. Un movimento questo, che ha anche scosso alcune delle certezze della sinistra tradizionale: ha messo in discussione la lotta di classe vista come condizione per il superamento del capitalismo; ha messo al centro la necessità di abolire il lavoro; ha proposto una diversa lettura del moderno patriarcato. I suoi detrattori lo accusano di essere troppo teorico, troppo astratto. Per Clément Homs, simili critiche costituisco una «falsa interpretazione»:

«La teoria critica non ha da proporre una nuova utopia, come si ci fossero delle risposte pronte che ti consegnano una società chiavi in mano. Chi ha aspettative simili, si comporta un po' allo stesso modo con cui ci si comporta rispetto a un prodotto da supermercato. La critica della dissociazione del valore ha un solo obiettivo, assai modesto: quello di comprendere il mondo attuale, di sezionarlo e metterlo a nudo. Al massimo, tutt'al più, può indicare in maniera negativa quali invece sarebbero le soluzioni sbagliate», aggiunge.

«Non ci siamo mai opposti a un impegno critico concreto - anzi, al contrario - come ad esempio contro le tendenze neofasciste. Ma questo tipo di impegno non può essere contrapposto a quella che per noi rappresenta una necessaria elaborazione teorica che deve operare a un livello diverso», ha dichiarato Roswitha Scholz a Clara Navarro Ruiz nel 2017. Nel 2004, in un'intervista al quotidiano brasiliano "Reportagem", Robert Kurz concludeva dicendo che: «Il superamento emancipatorio del moderno sistema produttore di merci e della relativa dissociazione, esige un intervento sociale di alto livello, e solo un'elaborazione della teoria critica può perciò contribuire a mantenersi a distanza dagli eventi, e non cedere alla pressione di un'esigenza di prassi in quella che è una falsa immediatezza.»

Questo problema della tensione tra prassi e teoria è stato affrontato da Robert Kurz nel 2007, nel suo saggio "Gris est l'arbre de la vie, verte est la théorie". Già il titolo stesso vuole essere un rovesciamento della frase del Faust di Goethe: «Grigia, amico mio, è ogni teoria,  ma l'albero d'oro della vita è verde». In questo testo, Kurz sostiene che «l'elaborazione teorica della critica della dissociazione del valore è riuscita a evitare per molto tempo quello che è il "problema della pratica", ossia il livello dell'azione; e questo non in quanto si tratti di un difetto che avrebbe qualsiasi tipo di "attivismo", ma a partire dal fatto che questo problema non è stato tematizzato nella riflessione teorica stessa» (virgolettato di Kurz). Per l'autore, il rischio è che «il "problema della prassi" si sovrapponga allo sviluppo della teoria, e ne determini l'orizzonte, mentre invece dovrebbe essere il contrario». Questo saggio è stato tradotto in francese da Crise & Critique solo nel 2022, così come è stato fatto con un altro, "L'État n'est pas le sauveur suprême", scritto da Kurz tra il 2010 e il 2011. Nel suo ultimo libro, "Geld ohne Wert" (Denaro senza valore), pubblicato nel 2012, Kurz definisce la critica della dissociazione del valore come «una rivoluzione teorica incompiuta». Da allora, altri autori francesi, tra cui Anselm Jappe, Alastair Hemmens, Sandrine Aumercier, Benoît Bohy-Bunel e Clément Homs, hanno continuato il lavoro, soprattutto all'interno della rivista Jaggernaut.

- Christophe Gueugneau - Pubblicato su Médiapart, nell'agosto 2022) -

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