da "IL MURO ENERGETICO DEL CAPITALE", - di Sandrine Aumercier
- Un contributo al problema dei criteri di superamento del capitalismo dal punto di vista della critica delle tecnologie -
Di certo, senza un vasto conflitto sociale, l'emancipazione non verrà certamente raggiunta, ma è solo in modo assai pragmatico che ci si può già opporre ai profeti del valore-lavoro e della fuga in avanti tecnologica: a scavare nelle miniere, o a seppellire scorie minerali nelle proprie cantine ci vadano loro; che siano loro a modificare i genoma dei propri figli in dei laboratori costruiti con materiali che avranno estratto essi sterri dalla terra!
Se la produzione cessa di essere organizzata intorno alla vendita di forza lavoro "formalmente libera" - ma anche intorno a ogni forma di lavoro forzato - ecco che allora diventa impossibile scaricare la vendita di lavoro su un altro gruppo umano ed esternalizzare la nocività. Ancora una volta, la produzione torna a confrontarsi con quelli che sono dei limiti non tanto morali quanto materiali e sociali, e che possono essere decisi solo dagli interessati stessi, a partire da una valutazione sensibile dell'intero ciclo produttivo. Questa concretezza, non attiene solo alla qualità sensibile dei prodotti - i quali non possono essere oggetto di un esame astratto "in assoluto", vale a dire, dissociato dal loro processo di fabbricazione -, ma riguarda la relazione sociale che viene messa in atto per poter farli esistere. Se abbiamo bisogno di fabbricare una stufa, sarà la configurazione sociale, simbolica e materiale della produzione specifica di quella società cui serve a determinarne le caratteristiche. E questo può limitare - ma non necessariamente reprimere - le preferenze personali, tuttavia non possiamo, contemporaneamente, criticare il soggetto-forma borghese e difendere allo stesso tempo un anarchismo individualista, che ne è il sottoprodotto.
Una nuova forma sociale potrebbe ereditare delle conoscenze scientifiche che sono state accumulate prima di essa, ma dovrà reinventare radicalmente le proprie tecniche a partire da delle nuove condizioni e da una relazione sociale emancipata. Quello che sappiamo sul funzionamento di un atomo, di una cellula o di un neurone non andrà perso. Ma ciò non legittima nessuna delle applicazioni tecnologiche che conosciamo. Una cosa è capire come funziona l'atomo, un'altra è lanciare una bomba su Hiroshima. La capacità tecnica di una simile impresa poggia interamente sulle possibilità di accumulazione consentite dal capitalismo, e non è certo alla morale astratta che bisogna affidare l'abolizione dell'arma atomica, quanto piuttosto allo smantellamento sistematico di tutte le strutture di produzione industriale che hanno portato a un tale punto di rottura, che è stato semplicemente la conseguenza di quella logica di schieramento interno. Pertanto, non si tratterebbe di porre fine solo alla bomba atomica - poiché noi saremmo pacifisti - ma di farla finita con tutto l'intero sistema tecnico che l'ha resa possibile. Non c'è perciò nessuna ragione di parlare di una cernita delle tecnologie esistenti, o di una sorta di diritto d'inventario che verrebbe sottomesso alla buona volontà soggettiva degli eredi del capitalismo.
Se il nuovo rapporto sociale consisterà in una produzione organizzata a partire da associazioni decentralizzate, in assenza di denaro, di lavoro e di Stato, tutto questo allora esclude ovviamente i beni e i servizi che conosciamo, ma anche la copertura del pianeta con dei pannelli solari e altre infrastrutture "rinnovabili", a scapito del cibo e dell'autodeterminazione delle popolazioni. Né il frigorifero, né lo smartphone, né i viaggi in treno, in auto o in aereo sono pertanto minimamente ovvi su una scala a lungo termine, a livello planetario e in un contesto di emancipazione collettiva. Sia che rimangano in parte o che oppure scompaiano, non è certo questa la questione essenziale; del resto, l'avvento di un'altra società presuppone che si smetta di presentare tutte queste cose come dei mezzi di emancipazione - cosa che non sono - e come acquisizioni del progresso, dal momento che non sono nemmeno questo. Tutte quante, sono apparse nell'arco di due-cinque generazioni, con l'arroganza di pretendere di portare un progresso che si rivela giorno dopo giorno sempre più un miraggio e la testimonianza di una società sull'orlo del collasso. I fautori dell'innovazione tecnologica e i filosofi in capo del transumanesimo, sono essi stessi i primi a mettere continuamente in allarme il mondo e le più alte istituzioni circa i rischi che stanno gestendo. Le soluzioni proposte, tra le altre, consistono nel "potenziamento" della moralità umana per renderla compatibile con la vulnerabilità della società globale, oppure nell'attuazione di una sorveglianza globale. Lo spettro di un «ritorno al lume a petrolio» funge da spaventapasseri fabbricato per non farci dubitare circa la traiettoria.
Ma ammettiamolo: anche se la rete di potere globale dovesse scomparire - così come le piramidi d'Egitto un giorno hanno smesso di rappresentare l'ordine simbolico che le aveva viste nascere, senza che la cosa impedisse che si continuassero a costruire tombe - allora le organizzazioni sociali che succederanno ad esse non assomiglierebbero affatto a un ritorno, perché né le risorse locali, né i rapporti di produzione, né i rapporti di genere, né le conoscenze utilizzate, né le priorità sociali, né i modi di risoluzione dei conflitti, né i modi di distribuzione costituirebbero una riabilitazione del passato. Tutto resta da essere inventato; sulla base delle esperienze già fatte.
Il sospetto ricorrente che un simile approccio vorrebbe mirare al ritorno a un'immediatezza naturale fantasticata, o faccia il gioco di una nostalgia primitivista è infondato: tutte le società che sono state sterminate nel corso dell'espansione del modo di produzione capitalista avevano anch'esse un alto grado di know-how tecnico - in contrasto con la promozione moderna di un'individualità tecnicamente atrofizzata che è stata consegnata a dei dispositivi che non comprende - le cui mediazioni simboliche e sociali ne determinavano gli usi.
Attribuire alle relazioni sociali premoderne una sorta di immediatezza naturale, è solo una struttura secondaria del pensiero illuminista che stabilisce il dogma del progresso sul presupposto razzista di una barbarie da civilizzare. Il primitivismo è in questo senso l'ideologia reazionaria che nasce nel cuore di una società che ha inventato essa stessa il primitivo. Cosa ancora più grave: tali posizioni negano la realtà, non quella del passato ma del presente, o molto recente e molto vivo, di numerose società ibride, locali e globali, le quali testimoniano forme di convivenza che non sono ancora del tutto quelle dominanti in Occidente. Lungi dal difenderle, sul modello della riserva indiana, in nome di un culturalismo moralista - anch'esso solo una mera formazione reazionaria della modernità -, si tratta di ricordare che la logica della valorizzazione mantiene un rapporto di assimilazione sterminatrice - elevata a metafisica del Progresso - nei confronti di qualsiasi altra formazione sociale che non sia la propria. Con quale disprezzo razzista e quale montagna di ignoranza si può continuare, come avveniva in piena epoca coloniale, a rimandare al passato tutti quei modelli che si discostano dal "modello" dominante, come se non esistessero o fossero solo un residuo da estirpare?
La reazione disgustata che ogni critica alla tecnologia sospettata di voler «tornare alla candela» attira inevitabilmente su di sé, non testimonia altro che il proprio indecente suprematismo strutturale. I circa 1,2 miliardi di persone nel mondo che non hanno ancora accesso all'elettricità sono subumani, senza cultura e senza gioia?
Questo pensiero viene solitamente attribuito ai "suprematisti bianchi" americani, piuttosto che all'inconscia struttura di pensiero coloniale che però è diventata talmente la seconda pelle del soggetto mercificato, al punto che egli non se ne accorge nemmeno più, e si sente giustificato come quando lo era, prima, nell'avvicinarsi con la peggiore condiscendenza agli altri modi di essere nel mondo e alle altre organizzazioni sociali presenti o passate. Pertanto, quella che si sta difendendo qui non è un'armonia eco-tecnica pensata sul modello del Bookchin di "Verso una tecnologia liberatoria" - cosa che non toglie interesse alle sue proposte intorno al comunitarismo libertario - ma si tratta di una relazione sociale le cui mediazioni includono l'esperienza sensibile dei propri eccessi e, di conseguenza, la possibilità della loro revisione collettiva.
Estratto dalla conclusione del libro di Sandrine Aumercier, "Le Mur énergétique du capital. Contributo al problema dei criteri di superamento del capitalismo dal punto di vista della critica delle tecnologie" (Edizioni Crise & Critique, 2021).
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