Il capitalismo secondo Houellebecq
- di Clément Ménard -
1) una «lotta perpetua che non può mai avere fine»
«Che cos'è che definisce un uomo?», si chiede l’autore de "La Carta e il territorio". «È il suo posto nel processo di produzione, e non il suo status di riproduttore, a definire innanzitutto l’uomo occidentale». Questa concezione dell'economia che invade le vite e trasforma l'uomo in un mero agente economico, è fondamentale nell'opera di Michel Houellebecq. Criticando il sistema capitalista, egli ne sottolinea la dinamica fondamentalmente rivoluzionaria di questo sistema dell'illimitatezza, considerato come se fosse «uno stato di guerra permanente, una lotta perpetua che non può mai avere fine.
«Se la sofferenza dei protagonisti di Dostoevskij è legata alla morte di Dio, quella dei protagonisti di Houellebecq nasce dalla violenza perpetua del mercato», scrive Bernard Maris in "Houellebecq economista". È chiaro il modo in cui nei suoi romanzi, Houellebecq sviluppa lunghi passaggi, i quali a volte, più che un romanzo, sono un saggio economico. In maniera particolare, egli spiega quale sia la sua visione della natura del capitalismo, e lo fa per mezzo di una definizione che è abbastanza simile a quella data da Marx. Fin dalle prime righe del Capitale, Marx spiega che «La ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, si manifesta come una "immane raccolta di merci"»: in effetti, questo processo di accumulazione, sia di capitale che di merci, che genera il principio economico della continua ricerca della crescita economica - soprattutto attraverso l'acquisizione di nuovi mercati - viene percepito nello stesso modo anche da Houellebecq. Lo scrittore constata come questa ricerca di accumulazione crei, negli attori economici, addirittura un effetto di dipendenza da questo sistema. Valèrie, per esempio, nel romanzo "Piattaforma", inizia il suo amante Michel ai fondamenti del sistema capitalista. Quando lui le fa notare che ora che è stato finalmente lanciato il progetto a cui ha lavorato per mesi, avrà sicuramente meno lavoro , lei risponde disillusa:
- “Sì, ma soltanto per poco.” Valérie mi guardò con un sorriso scettico. “Quanto prima bisognerà trovare qualcosa di nuovo.”
- "Perché? Perché non vi fermate un po’?”
- “Perché queste sono le regole del gioco. Se ci fosse Jean-Yves ti direbbe che è il principio del capitalismo: se ti fermi, sei spacciato. A meno che tu non abbia acquisito un vantaggio decisivo, nel qual caso puoi anche fermarti per un paio d’anni; ma per noi è diverso. Il principio di ‘Eldorador Explorer’ è buono, l’idea è brillante, diciamo anche furba, però non c’è niente di veramente innovativo, è solo la combinazione di due concetti già esistenti. I concorrenti si accorgeranno che funziona, e a quel punto cercheranno di inserirsi nello stesso segmento. In fondo non è molto complicato; per noi l’unica cosa difficile è stata metterlo in piedi in così poco tempo. Ma sono certa che Nouvelles Frontières, per esempio, sarà in grado di mettere sul mercato un’alternativa concorrenziale già per l’estate prossima. Se vogliamo conservare il nostro vantaggio dovremo inventarci qualcos’altro.”
- “E non finirà mai?”
- “Credo di no, Michel. Mi pagano bene, lavoro in un sistema che conosco; ho accettato le regole del gioco.”
Questa ricerca illimitata di accumulazione viene rappresentata in modo tragico da Houellebecq. Bernard Maris nota che questo mondo "houellebeckiano" è «una ricerca estenuante e disperata [...]Nel cuore della società di mercato, è vietato riposare [...]. Mantenendo perennemente gli uomini nell'incertezza, costringendoli a muoversi, a cambiare le loro abitudini, li spezza». Nel momento in cui Valérie decide finalmente di consacrarsi interamente al suo amante Michel, si rende conto che può farlo solo a condizione di lasciare questo mondo capitalista. Materialmente, si tratta di una rinuncia: il suo stipendio viene dimezzato e la sua posizione sociale è ampiamente ridotta. Non volendo adattarsi, sperimenta a sue spese le sue stesse parole «se ti fermi, sei morto». Nell'affermare che il capitalismo è una «lotta perpetua che non può mai avere fine», Houellebecq ha perfettamente compreso qual è l'essenza di questo sistema di illimitatezza, che si nutre di accumulazione cercando incessantemente la crescita. E tra i mezzi dati a questo sistema per crescere, a essere abbondantemente analizzato da Houellebecq, è il consumo.
L'«ideologia del desiderio» al centro del capitalismo di consumo
Michel Clouscard ha scritto che l'avvento della società dei consumi è stato in realtà l'avvento del «capitalismo della seduzione»: un capitalismo non repressivo che si è impadronito delle anime e dei cuori, e che ora agisce secondo una «ideologia del desiderio». È questo quel che Houellebecq dimostra di aver compreso perfettamente, quando evoca regolarmente la gioia intensa che i suoi personaggi provano allorché si trovano in luoghi dove il consumo è assai elevato. «Un ipermercato Casino, una stazione di servizio Shell rimanevano i soli centri di energia percettibili, le sole proposte sociali in grado di provocare il desiderio, la felicità, la gioia», scrive ne "La carta e il territorio" facendo parlare il protagonista. È interessante notare come non sia mai l'effettivo potere del consumo, l'atto del consumare, che procuri gioia ai personaggi houellebecquiani. Ad eccitarli, è tutto l'immaginario che circonda il consumo: il fatto di «Mantenere i consumatori in uno stato di desiderio perpetuo», come sottolinea Bernard Maris. E Jean-Claude Michéa è d'accordo quando sottolinea che «una società dei consumi non viene definita tanto dal "potere d'acquisto" reale che concede al maggior numero di persone, quanto dal potere effettivo del suo immaginario centrale».
È per questa ragione che i pensatori della decrescita, come Serge Latouche, per uscire dalla società dei consumi evocano la necessità di rompere con questo immaginario. Per Michéa, è chiaro che se questo impero dell'immaginario crolla, il potere della società dei consumi crollerà insieme ad esso. «Il sistema capitalista globale crollerebbe in poche settimane, se gli individui cessassero improvvisamente di interiorizzare in massa - e in ogni momento - un immaginario di crescita illimitata e una cultura del consumo, vissuta come se fosse il presupposto privilegiato dell'immagine che si ha di sé stessi».
l mondo come un enorme supermercato
Purtroppo per Michéa, i personaggi houellebecquiani, specchio perfetto dei costumi edonistici del nostro tempo, sono totalmente immersi in questo universo mentale, in questa "cultura del consumo": «Michel, per contro, viveva in un mondo [...] ritmato da consolidate cerimonie commerciali – il torneo del Roland Garros, il Natale, il 31 dicembre, l’appuntamento semestrale con i cataloghi 3 Suisses.[...] Era un consumatore senza caratteristiche, tuttavia accoglieva con gioia le repliche della “Settimana Italiana” nel Monoprix di quartiere.» ("Le particelle elementari") Quando il padre di Jed Martin, il protagonista de "La mappa e il territorio", programmava le attività del fine settimana, lo faceva per andare al «MacDonald's o al museo». Dopo tutto, qual è la differenza? Qui tutto è consumo, tutto è assimilato alla sfera commerciale, dalla festa di Natale alla visita al museo, al periodo dei saldi e al MacDonald's.
Tuttavia, lo scrittore è particolarmente affascinato da un grande luogo di consumo: il supermercato. «Resta il fatto che, sul piano dei consumi, l'eccellenza del XX secolo era indiscutibile: niente, in nessun'altra civiltà, in nessun'altra epoca, poteva paragonarsi alla perfezione mobile di un centro commerciale contemporaneo funzionante a pieno regime.» ("La possibilità di un'isola") I suoi personaggi adorano vagare lì; anzi, è uno dei pochi posti dove si sentono pienamente felici. «A volte, aveva l'ipermercato tutto per sé - cosa che gli sembrava un'approssimazione abbastanza buona della felicità», scrive sempre Houellebecq.
Bernard Maris analizza questa predilezione per il supermercato come se si trattasse di un'immagine microcosmica del mondo consumistico nel quale si trovano immersi i personaggi di Houellebecq: «Il mondo come supermercato e come derisione: la logica del supermercato è quella della deambulazione in estasi davanti all’abbondanza, ma anche dell’esplosione e della dispersione del desiderio, un desiderio “stridulo e chiassoso”. Pulcini impauriti, i consumatori sono spinti con malagrazia dai pubblicitari nelle corsie». Insomma, il supermercato come metafora della società dei consumi; il supermercato come terra del desiderio.
In questo universo dell'immaginario colonizzato dal consumo, la pubblicità occupa un posto primordiale. Per Jean-Claude Michéa, «la marcatura quotidiana che questa curiosa industria esercita sull'immaginazione degli individui moderni è, ovviamente, infinitamente più profonda di quella che veniva esercitata dalle antiche religioni o dalla vecchia propaganda totalitaria». È il braccio destro della società dei consumi descritta da Houellebecq. Permea tutte le coscienze. E per di più: è al servizio di questa «ideologia del desiderio», di questo «capitalismo della seduzione» analizzato da Clouscard. L'eccitazione del desiderio è allo stesso tempo sia il mezzo che il fine della pubblicità. La pubblicità, ricordiamolo, «non serve tanto a lanciare un prodotto quanto a promuovere il consumo come stile di vita» e a «istituzionalizzare il desiderio», come ci ricorda Christopher Lasch ne "La cultura del narcisismo".
In "Piattaforma", lo slogan pubblicitario trovato dall'eroe è spaventosamente semplice e terribilmente realistico: «“Eldorador Aphrodite: perché abbiamo tutti il diritto di farci piacere”». L'obiettivo dichiarato: "piacersi", vale a dire realizzare il proprio desiderio. Perfino la felicità autentica in amore non sfugge all'impero della pubblicità: «Tornati a Parigi conobbero istanti di gioia, di quelli immortalati dalle pubblicità di profumi (scendere precipitosamente le scale di Montmartre; o immobilizzarsi, abbracciati, sul Pont des Arts, subitaneamente illuminati dai fari dei bateau-mouche in manovra).» ("Le particelle elementari") Perfino l'amore è colonizzato dall'immaginario imposto dalla pubblicità.
Lo sradicamento della società dei consumi
Nel suo disgusto per la società dei consumi, Houellebecq va lontano. Non esita a definire l'influenza esercitata da coloro che sono i responsabili delle linee di prodotti -i quali «sanno naturalmente meglio di chiunque altro che cosa vuole il consumatore, che pretendono di cogliere un’attesa di novità nel consumatore, che in realtà non fanno che trasformare la sua vita in una ricerca estenuante e disperata, in un errare senza fine fra esposizioni di merci eternamente modificate.» - come un «diktat irresponsabile e fascista», I termini sono assai duri. Definire l'ingiunzione a consumare come un «diktat fascista» richiama in maniera evidente le parole del cineasta e poeta marxiano Pier Paolo Pasolini, il quale, negli "Scritti corsari" scriveva di essere profondamente convinto che «il vero fascismo sia quello che i sociologhi hanno troppo bonariamente chiamato "la società dei consumi"».
Certo, il termine «fascismo» è forte, e si tratta affatto di relativizzare il vero fascismo. Ma se Houellebecq è così duro con questo capitalismo dei consumi, è perché egli ne vede direttamente gli effetti distruttivi. È il suo stesso personaggio (ne "La carta e il territorio", Houellebecq mette in scena sé stesso) a scoppiare in lacrime quando ricorda che la sua «vita da consumatore» ha subito un colpo quando la produzione dei suoi tre prodotti preferiti (le scarpe Paraboot Marche, la combinazione computer portatile-stampante Canon Libris, e il parka Camel Legend) è stata fermata e soppressa. Ricorda che questo processo «È brutale, sa, tremendamente brutale».
Prima di concludere: «Anche noi siamo dei prodotti..., dei prodotti culturali. Anche noi verremo colpiti da obsolescenza. Il funzionamento del dispositivo è identico». Se lo scrittore utilizza il termine fascismo, non lo fa con leggerezza: egli ritiene che il dispositivo del consumo generalizzato non solo separa l'individuo dalle sue abitudini di vita, ma soprattutto lo riduce al rango di mero oggetto di consumo. «Mantenendo gli uomini perennemente nell’incertezza, obbligandoli a muoversi, a cambiare le loro abitudini, li spezza [...]», scrive Bernard Maris. «Sì, le lacrime di Houellebecq sono sincere quando evoca gli oggetti a cui era abituato e che ormai gli è vietato di possedere. Come se si vietasse a una bambina di coccolare la sua bambola» . Per Houellebecq, il capitalismo dei consumi non è altro che un vero e proprio sradicamento. Da qui l'esaltazione, nella sua opera, della società preindustriale, nella quale l'economia si trovava incastrata nelle relazioni sociali, dove l'economia veniva «messa sotto tutela» e subordinata a «certi criteri che oserei chiamare etici».
2) L'elogio della società preindustriale
Nei suoi romanzi, Houellebecq denigra regolarmente l'economia, presentandola come una scienza vile e spregevole. In "Piattaforma", un romanzo in cui si possono trovare dei sviluppi economici, lo scrittore ama ricordare che «l'economia è un mistero».Il protagonista dichiara addirittura, dopo aver parlato a lungo della legge della domanda e dell'offerta, che «L’unica conclusione certa cui fossi arrivato mi portava a dire che l’economia era decisamente noiosa». Houellebecq ci tiene solo a sottolineare quale sia il posto che l'economia deve occupare nella società. Nelle società tradizionali, fino all'Ancien Régime, la sfera economica dipendeva dalla sfera politica. I primi a chiamarsi «economisti» e a voler rendere autonoma l'economia , per mezzo di «leggi naturali basate sulla libertà e sulla proprietà privata», sono stati i fisiocrati, gli antenati dei liberali: «La “setta” si diceva dai tempi di Luigi XV per prendere in giro gli economisti e i loro ragionamenti complicati.», osserva Bernard Maris in "Houellebecq economista". Questa separazione del dominio economico da quello politico è stata una rivoluzione nel modo in cui la gente ha cominciato a pensare al lavoro. Con il passaggio dalla società tradizionale alla società moderna, liberale e industriale, si vuole tentare di razionalizzare e rendere efficiente la produzione di merci. "La carta e il territorio" è il grande romanzo che evoca questo cambiamento, e lo fa con «una vera nostalgia, una sensazione di perdita nel passaggio dalla Francia tradizionale al mondo moderno». Il personaggio di Houellebecq, che in questo romanzo mette in scena sé stesso, ha una biblioteca personale piena zeppa di libri di letteratura classica, ma soprattutto di opere dei primi socialisti: «i più noti, come Marx, Proudhon e Comte; ma anche Fourier, Cabet, Saint-Simon, Pierre Leroux, Owen, Carlyle...».
La grandezza del lavoro nelle società preindustriali
Il narratore deplora apertamente la venalità e il materialismo del proprio tempo, e plaude al valore che un tempo veniva dato al lavoro. Così il padre del protagonista - figura eccezionale nell'opera di Houellebecq, dal momento che è l'unica figura paterna - trasmette al figlio, con suo gande stupore, la propria visione dell'economia tradizionale grazie al pensiero di Charles Fourier, uno dei primi socialisti francesi: «Fourier aveva conosciuto l’Ancien Régime ed era consapevole che assai prima dell’apparizione del capitalismo ricerche scientifiche, progressi tecnici avevano luogo, e che gli individui lavoravano duramente, talvolta molto duramente, senza essere spinti dall’allettamento del profitto, ma da qualcosa di assai più vago agli occhi di un uomo moderno: l’amore di Dio, nel caso dei monaci, o più semplicemente l’onore della funzione.» ("La mappa e il territorio"). Questo passaggio ricorda quello in "Piattaforma", dove il narratore deplora il cambiamento che c'è stato nel valore che viene attribuito al lavoro: «Nella società in cui vivevamo, la leva principale del lavoro era costituita dallo stipendio e dai relativi vantaggi economici; il prestigio e il fascino della posizione erano destinati ad avere un ruolo sempre più marginale.» Va inoltre notato che il personaggio di Houellebecq definisce il libro "La democrazia in America" come «il libro politico più intelligente mai scritto»; eppure Tocqueville ha anche scritto che nelle società dell'Ancien Régime, «il lavoro è da considerare glorioso solo quando è l'ambizione o la virtù a farlo intraprendere [...]» Pertanto, l'idea di guadagno rimane distinta da quella di lavoro. Possono essere uniti di fatto, ma il passato li separa.
Pierre Lucius constata anche questa diffidenza dell'uomo medievale verso l'avidità e l'accumulo di capitale. «La ricerca del guadagno per il guadagno», scrive, «il lucrum in infinitum, la speculazione e il maneggio del denaro, venivano condannati come una passione vergognosa. Il Medioevo era assai severo nei confronti del comprare e vendere a profitto qualcosa il cui valore d'uso non era stato accresciuto dal lavoro. Gli sembrava che così il profitto non venisse giustificato da alcun servizio reso dal venditore all'acquirente. Fu in virtù del medesimo principio che la Chiesa condannò il prestito a interesse.» Questa idea di una rottura profonda tra una visione classica e una moderna del ruolo del lavoro e del denaro, è confermata anche da Charles Péguy: «Tutto lo svilimento del mondo moderno,vale a dire tutta la svalorizzazione del mondo moderno, deriva dal fatto che il mondo moderno ha considerato come negoziabili quei valori che il mondo cristiano e il mondo antico consideravano come non negoziabili». Naturalmente, ciò che caratterizza questo mondo moderno che svende tutte le virtù classiche è «il mondo borghese, il mondo capitalista». Eppure, avverte Péguy, «ogni mondo verrà giudicato in base a ciò che ha considerato negoziabile o non negoziabile».
Infine, per Houellebecq, lo scopo del lavoro dev'essere la realizzazione della persona, insieme un contributo alla società, un qualcosa di virtuoso; la dignità del lavoro viene considerata anch'essa secondo questa sua stessa natura. Egli critica il settore terziario, che non produce solamente ciò che è inutile («In una parola, avevo lavorato nel terziario. Di quelli come me se ne poteva fare a meno.»). Si rammarica del fatto che la grandezza intrinseca del lavoro sia stata sostituita da delle nozioni più austere come quelle di «profitto» e «redditività». «Siamo diventati freddi [...]; per prima cosa vogliamo evitare qualsiasi forma di alienazione e dipendenza». Houellebecq distingue perciò chiaramente tra l'economia tradizionale e l'economia moderna. Mette addirittura schiena a schiena marxisti e liberali, dato che sono fondamentalmente tutti produttivisti.
Per una riconcliazione del capitale e del lavoro
"La mappa e il territorio", racconta la conversione al mestiere da parte del protagonista. Durante tutto il suo percorso iniziatico, c'è un pensatore che attraversa regolarmente la strada di Jed Martin: si tratta di William Morris. Architetto e poeta, questo pensatore socialista del XIX secolo tentò, attraverso i suoi romanzi e le sue conferenze, di riconciliare il capitale e il lavoro. Figura del movimento decorativo "Arts & Crafts", William Morris sperava nella rinascita del legame tra l'utile e il bello, nel quadro di un artigianato popolare ispirato all'arte medievale, al fine di contrastare i misfatti della rivoluzione industriale, la quale aveva standardizzato e quindi reso brutta la fabbricazione degli oggetti.
Il padre di Jed, anche lui architetto, ne fa una rappresentazione nostalgica. Qualche pagina dopo, quando Jed parla con Michel Houellebecq, quest'ultimo, con sua grande sorpresa, gli risponde che lui conosce bene quel pensatore. Riconosce prontamente il suo carattere utopico («voleva sopprimere le prigioni, ritenendo che il rimorso sarebbe stato un castigo sufficiente per il criminale.»), ma fa un brillante elogio del «principio essenziale di William Morris, che era che la concezione e che l’esecuzione non dovevano mai essere separate, come non lo erano state nel Medioevo. E che a detta di tutti, le condizioni di lavoro erano idilliache [...]». Benché a Houellebecq piaccia ricordare spesso la specificità del materialismo dell'epoca moderna («le gioie del consumo, con cui la nostra epoca si mostra così superiore a quelle che l'hanno preceduta»), è piuttosto insolito vederlo lodare il Medioevo; lo scrittore si avventura raramente sul terreno della storia. Qui, però, non solo elogia le condizioni di lavoro di quell'epoca, ma anche il movimento artistico del preraffaellismo. Considerando che la rivoluzione industriale aveva pervertito la morale inglese, questo movimento volle ispirarsi ai dipinti dei maestri italiani del XV secolo, che precedettero Raffaello. I preraffaelliti idealizzavano la pittura medievale come l'apice della perfezione spirituale e morale. Essendo così ditirambico nei confronti dei preraffaelliti e di William Morris, Houellebecq mostra il suo disagio con l'epoca moderna, acclamando le società tradizionali.
Il disagio di un poeta di fronte al disincanto del mondo
Per tutto quanto detto fin qui, Houellebecq non è certo un reazionario. Egli non manifesta il desiderio di tornare al passato, di restaurare la società dell'Ancien Régime. Lo scrittore non è un saggista ma un letterato. I suoi scritti sull'argomento non sono degli appelli, ma un'esaltazione romantica di ciò che è stato. Come ci ricorda Natacha Polony, «c'è qualcosa di eminentemente nostalgico nella letteratura, e in particolare nella poesia». E in "Sottomissione", Houellebecq conclude: «Il passato è sempre bello.» Questo malessere di fronte a ciò che non viene più effettivamente espresso dallo scrittore attraverso l'arte e la poesia. In una delle sue poesie in prosa, intitolata esplicitamente "Ultimo baluardo contro il liberalismo", dichiara pertanto:
«Rifiutiamo l'ideologia liberale in quanto essa è incapace di fornire un senso, una via alla riconciliazione dell'individuo con i suoi simili in una comunità che possa essere chiamata umana. E del resto persino il fine che essa si propone è del tutto diverso. [...]»(da "Ultimo baluardo contro il liberalismo", ne "Il senso della lotta"). In questo brano, più un pamphlet che una pure composizione, Houellebecq si serve della malinconia della poesia per sfogare la sua critica al liberalismo. Nel romanzo "La Carta e il territorio". il padre di Jed confida al figlio: «Sì, anch’io volevo essere un artista [...] Le Corbusier ci sembrava uno spirito totalitario e brutale, animato da un gusto intenso per la bruttezza; ma è stata la sua visione a prevalere durante tutto il XX secolo. Noi, invece, eravamo influenzati piuttosto da Charles Fourier...» Qui, abilmente, Houellebecq cerca persino di collegare la bruttezza del suo secolo al capitalismo. Infatti, è attraverso la bellezza della sua arte che l'eroe Jed Martin sfida finalmente il paradigma della modernità liberale («La modernità era forse un errore», dice Jed a sé tesso per la prima volta nella sua vita) e raggiunge la sua fase artistica finale. «L’opera che occupò gli ultimi anni della vita di Jed Martin può essere vista così — è l’interpretazione più immediata — come una riflessione nostalgica sulla fine dell’età industriale in Europa, e più generalmente sul carattere perituro e transitorio di ogni industria umana.» Alla fine, Jed Martin riesce a fare sue le parole di William Morris: «"Ecco in breve la nostra posizione di artisti: siamo gli ultimi rappresentanti dell’artigianato cui la produzione commerciale ha inferto un colpo fatale."» Di fronte a questo sistema capitalista «incapace di dare un senso», Houellebecq abbozza tuttavia una soluzione. In diverse occasioni evoca la filosofia economica del distributismo, sviluppata dallo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton.
3) Verso un recupero del distributismo di Chesterton
«Se c'è un nome che non ci aspettavamo di trovare nell'opera di Michel Houellebecq, questo è Gilbert Keith Chesterton. Da positivista, Houellebecq descrive il mondo così com'è, nella sua crudezza più assoluta e nuda [...]. Nato nel 1874 e morto nel 1936, noto per i suoi paradossi sgargianti e per la sua conversione al cattolicesimo, Chesterton sembra essere agli antipodi di questo approccio. Infatti, egli descrive il mondo non come è, ma "cosa c'è di sbagliato nel mondo», scrive Philippe Maxence, presidente dell'Associazione degli amici di Chesterton. È vero che a partire da "La carta e il territorio" in poi, c'è stato un cambiamento in quelli che sono stati i riferimenti di Houellebecq. Certo, il metodo e la visione sono rimasti gli stessi. Ma in "Sottomissione" egli non esita a ricorrere a una vera e propria «litania cattolico-letteraria». Huysmans, uno scrittore decadente convertitosi al cattolicesimo, è al centro del romanzo; ma vengono menzionati anche Paul Claudel, Charles Péguy e Blaise Pascal. Tuttavia, Chesterton non è semplicemente citato, ma viene ampiamente utilizzato.
Il Distributismo, una terza via tra capitalismo e collettivismo
Già ne "La carta e il territorio", viene fatta un'allusione alla filosofia economica di Chesterton, il distributismo. Houellebecq si riferisce all'omaggio, fatto da Chesterton in uno dei suoi romanzi, all'architetto socialista William Morris. «Si fa fatica a immaginare oggi la ricchezza della riflessione politica di quell’epoca. Chesterton ha reso omaggio a William Morris nel Ritorno di Don Chisciotte. È un romanzo curioso in cui l’autore immagina una rivoluzione, basata sul ritorno all’artigianato e al cristianesimo medievale, che si diffonde pian piano nelle isole britanniche, soppiantando gli altri movimenti operai, socialista e marxista, e conduce all’abbandono del sistema di produzione industriale a favore di comunità artigianali e agrarie.»
A dire il vero, «il nome stesso di William Morris non appare più di tre volte ne "Il ritorno di Don Chisciotte" di Chesterton», precisa Philippe Maxence. Ma mentre il nome di Chesterton viene solo brevemente menzionato ne "La carta e il territorio", in "Sottomissione" Houellebecq si occupa chiaramente della sua filosofia economica, il distributismo. Nel momento in cui il leader dei Fratelli Musulmani, Mohammed Ben Abbès, sale democraticamente al potere, egli loda questa teoria economica, allora sconosciuta al grande pubblico, e la mette rapidamente in pratica, indipendentemente dalla questione dell'Islam. E il narratore ci dà così un resoconto conciso ma completo del pensiero distributivista sostenuto da Chesterton. «Così, nel corso delle settimane successive, il grande pubblico apprese che il distributivismo era una filosofia economica nata in Inghilterra all’inizio del XX secolo su impulso dei pensatori Gilbert Keith Chesterton e Hilaire Belloc. Voleva essere una “terza via”, lontana tanto dal capitalismo quanto dal comunismo – considerato un capitalismo di stato. La sua idea di base era la soppressione della separazione tra capitale e lavoro. La sua forma sostanziale di economia era l’impresa familiare; nel caso si presentasse la necessità, per determinate produzioni, di riunirsi in entità più ampie, si doveva fare di tutto perché i lavoratori fossero azionisti della propria impresa e corresponsabili della sua gestione.»
La ben nota formula di Chesterton era: «Ciò che rimprovero al capitalismo, non è che ci sono troppi capitalisti, ma proprio il fatto che non ce ne sono abbastanza». Il pensiero distributista, che è chiaramente anticapitalista, su questo punto si distingue nettamente dal socialismo marxista. Il distributismo è innanzitutto una dottrina che pensa la proprietà, con un'enfasi sulla critica dei monopoli. Ecco come Chesterton definisce il capitalismo: «Quando dico "capitalismo" intendo comunemente qualcosa che può essere espresso nella seguente maniera: un insieme di condizioni economiche che permettano ad una classe di capitalisti, facilmente riconoscibile e relativamente ristretta, nelle cui mani è concentrata una parte di capitale talmente grande al punto che quella che è la maggioranza dei cittadini si trova costretta a servire questi capitalisti in cambio di un salario».
La principale critica che Chesterton rivolge al capitalismo riguarda la «tirannia dei Trust»: «Stiamo andando verso il monopolio. Non si tratta di certo di un'impresa privata», scriveva. «Il trust americano non ha niente dell'impresa privata. Il monopolio non è né privato né imprenditoriale. Esiste solamente per impedire l'impresa privata.»
Una fedeltà al principio di sussidiarietà della dottrina sociale della Chiesa
Il Distributismo prevede pertanto la distribuzione della proprietà, la quale non deve essere né monopolizzata dai grandi capitalisti, né centralizzata dallo Stato, o dalla collettività che è responsabile della ridistribuzione dei frutti del capitale. Dev'essere distribuito in modo che ogni lavoratore possa avere i propri mezzi di produzione. Fedele alla dottrina sociale della Chiesa, il Distributismo vuole muoversi secondo il principio di sussidiarietà. E Houellebecq illustra questo sistema in "Sottomissione": «Uno degli elementi essenziali della filosofia politica introdotta da Chesterton e Belloc era il principio di sussidiarietà. Secondo tale principio, nessuna entità (sociale, economica o politica) doveva farsi carico di funzioni affidabili a entità più piccole. Papa Pio XI, nella sua enciclica Quadragesimo anno, dava una definizione di detto principio: “Come è illecito togliere all’individuo e affidare alla comunità ciò che l’impresa privata e l’industria sono in grado di realizzare, così è una grossa ingiustizia, un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine che una maggiore e più alta società si arroghi le funzioni che possono essere svolte con efficacia da comunità minori e inferiori.»
È interessante notare che già nella sua poesia "Ultimo baluardo contro il liberalismo", pubblicato nel 1996, Houellebecq faceva riferimento al suo rifiuto del liberalismo, e lo faceva «in nome dell'enciclica di Leone XIII sulla missione sociale del Vangelo», e così facendo si prendeva la briga di collegare il proprio pensiero alla dottrina sociale della Chiesa: «Rifiutiamo l'ideologia liberale in nome dell'enciclica di Leone XIII sulla missione sociale del Vangelo e nel medesimo spirito con cui gli antichi profeti invocavano la rovina e la maledizione sul capo di Gerusalemme, E Gerusalemme cadde, e poi per risorgere ci mise non meno di quattromila anni.»
Questa poesia, pubblicata nel 1996, quindi quasi vent'anni prima di "Sottomissione", mostra come Houellebecq non sia arrivato per caso a Chesterton. Per quanto Philippe Maxence sia giustamente stupito dai nuovi riferimenti cristiani che Houellebecq inserisce in "Sottomissione" - sicuramente il suo romanzo più spirituale - la sua composizione poetica testimonia tuttavia che la dottrina sociale della Chiesa era presente fin dall'inizio nella mente dello scrittore.
Il ritorno alle solidarietà tradizionali
Nel finale, in "Sottomissione", il presidente Ben Abbès dà prova del suo genio: egli è riuscito laddove i cattolici sociali hanno fallito, arrivando a conciliare capitale e lavoro (perché questo è il senso della teoria distributista: la proprietà deve essere nelle mani di chi lavora, in opposizione al sistema salariale, che non è altro che affittare la propria forza lavoro da parte di chi non possiede i mezzi di produzione).
Da questo momento in poi, a lungo termine, i mali del capitalismo verranno eliminati e la solidarietà tornerà ad essere familiare. Infatti, «Cosa c’è di più bello, si era commosso Ben Abbes nel suo ultimo discorso, della solidarietà esercitata nell’ambito caloroso della cellula familiare?… In quella fase, l’“ambito caloroso della cellula familiare” era ancora ampiamente un programma; ma, più in concreto, il nuovo progetto del bilancio statale prevedeva nel triennio una diminuzione dell’85 per cento della spesa sociale del paese.»
In altri termini, il presidente sta smantellando lo stato sociale, che stava lì solamente per compensare la perdita di solidarietà causata dalla rivoluzione industriale, e sta facendo del principio di sussidiarietà un principio di organizzazione politica e sociale. Ogni cosa va al suo posto: dopo l'idealizzazione delle società tradizionali attraverso «una rivoluzione basata sul ritorno all'artigianato e al cristianesimo medievale», ora è l'Islam di Ben Abbes che arriva, grazie al distributismo di Chesterton, ad abolire il capitalismo e la sua «lotta perpetua che non può mai aver fine». «Così facendo», conclude Philippe Maxence, «Houellebecq ha giocato un brutto tiro a Chesterton. Non contento di prendere in prestito le sue idee politiche e sociali, ne ha immaginato la loro applicazione nel quadro di una repubblica musulmana, mentre Chesterton vedeva nell'Islam un'eresia.»
- Clément Ménard - 28 febbraio / 7 marzo / 14 marzo 2019 -
fonte: PhiLitt
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