Mai come in quest’epoca è stato facile per chiunque accedere a una mole smisurata di informazione. Mai come in quest’epoca è stato facile per chiunque produrne. Mai come in quest’epoca è stato facile diffondere notizie false, chiacchiere vane, distrazione di massa. Jacques Attali analizza l’attuale situazione dei media: la crisi dei media tradizionali; l’avvento di Internet; l’esplosione dei social, passati rapidamente da mezzo privato a strumento di informazione e propaganda. Intanto, le notizie che hanno un effettivo valore economico, politico, sociale sono accessibili solo a un’élite, che le acquista a caro prezzo; mentre chi brancola in rete piuttosto cede informazioni su di sé… Come ci ha abituati, poi, dal passato e dal presente Attali trae indicazioni sul futuro. I rischi sono enormi, in un mondo dominato da pochi giganti monopolisti e con un pubblico ormai del tutto incapace di distinguere il vero dal falso, il fondamentale dall’irrilevante. Per evitare la catastrofe, bisogna agire urgentemente: dalla formazione dei giornalisti all’educazione dei lettori, dall’uso consapevole della tecnologia alla creazione di nuovi strumenti, molto è ciò su cui si deve intervenire. Fino allo smantellamento– avete letto bene – delle grandi piattaforme. Sarà una battaglia difficile, ma è necessaria. Perché quando è in pericolo il diritto di informarsi, sono in pericolo la democrazia e la libertà.
(dal risvolto di copertina di: Jacques Attali, "Disinformati. Giornalismo e libertà nell’epoca dei social". PONTE ALLE GRAZIE €14,50)
Nomadi, ipernomadi e quelli di mezzo
- Ha tre classi l’era della distrazione -
di Stefano Montefiori
Che cosa resterà dei media e della democrazia domani, quando il reale e il falso saranno totalmente indistinguibili, e la vita privata sarà diventata interamente pubblica? Jacques Attali prova a rispondere applicando all’informazione lo stesso approccio da futurologo che ha usato nei precedenti, fortunati libri come "Breve storia del futuro" (Fazi) o "Prevedi la tua vita!" (Ponte alle Grazie). Nato ad Algeri 78 anni fa, celebre consigliere del presidente François Mitterrand e poi dei suoi successori, direttore d’orchestra e fondatore della Ong Positive Planet (che lotta contro la povertà finanziando nuove imprese nei quartieri difficili), Attali pubblica ora in Italia, sempre per Ponte alle Grazie, "Disinformati. Giornalismo e libertà nell’epoca dei social". Uno sguardo non del tutto catastrofico, per fortuna, e lontano dalla tentazione passatista — così diffusa in Francia — che attribuirebbe ai secoli passati ogni virtù e all’età contemporanea ogni responsabilità di un inevitabile declino. Siamo in bilico, come sempre. E come sempre possiamo ancora salvarci.
Signor Attali, nella prefazione lei sottolinea che i media sono nati in Italia come «avvisi». Può ricordarci il contesto?
«Gli scambi di informazione sono nati millenni prima, ovviamente. Ma quel che succede nei secoli XIV e XV è che i mercanti delle grandi città commerciali del mondo, essenzialmente nelle Fiandre e in Italia, hanno cominciato a scriversi lettere con informazioni utili per i loro affari, dai prezzi alla natura delle merci. Alcuni di loro, a Venezia e a Roma, hanno capito che certe informazioni contenute nelle lettere personali potevano interessare anche altri. Quindi hanno tolto la parte privata, specifica, e poi commercializzato queste lettere confidenziali che parlavano anche della situazione economica a Roma, Venezia o Bruges. Questi avvisi, o gazzette, sono i primi media».
La natura dei media e dei social media oggi, con la commistione tra rilevanza privata e pubblica, non ricorda un po’ questi «avvisi»?
«È il mio pronostico. Non solo se consideriamo chi diffonde contenuti su YouTube o Twitter, ma anche i grandi media tradizionali. All’opposto del modello “Economist”, dove gli articoli non sono firmati, molti giornali stanno diventando sempre di più una raccolta selettiva di “avvisi”, di informazioni fornite con taglio personale da firme identificate e rispettate».
In un passaggio piuttosto positivo del libro lei scrive che oggi, nonostante il dilagare delle fake news, «sempre più persone, sia in numero assoluto che relativo, hanno accesso a notizie verificabili e dimostrabili. Sempre più persone sono in grado di fornire informazioni affidabili su eventi di cui sono state testimoni o di cui possono comunque analizzare le conseguenze». Siamo quindi autorizzati a nutrire qualche speranza?
«Certo, assistiamo anche a eventi molto positivi. Un tempo esistevano tre media successivi, ovvero stampa, radio e tv, che hanno finito per coesistere. Il quarto, Internet, s’è nutrito di loro come un vampiro ma i media precedenti possono tuttora vivere su Internet. E la possibilità di avere informazione di qualità è enorme, grazie a professionisti competenti che possono esprimersi più e meglio di prima, rivolgendosi a persone meglio formate che in passato. Poi, sì, c’è anche l’esplosione delle fake news, ma è la caratteristica della nostra epoca e del futuro prossimo: la coesistenza del molto meglio e del molto peggio».
Lo scenario meno allegro prevede l’umanità intera divisa in tre gruppi. Come si articola questa tripartizione?
«Nei miei libri parlo degli ipernomadi: hanno le competenze, le informazioni e la possibilità di viaggiare in modo reale e virtuale, sanno le cose prima degli altri; all’altro estremo ci sono i veri nomadi, che sono tali perché vivono in una situazione estremamente precaria, hanno accesso a poche informazioni e non di qualità; infine c’è il grande gruppo di mezzo, che spera di issarsi nel primo gruppo ed è terrorizzato dalla possibilità di sprofondare nel gruppo in basso. È quello che sta accadendo alla classe media, che si nutre di complottismo tanto verso la classe superiore quanto verso quella inferiore».
L’avvento di Internet e dei social media è stata determinante per la nascita e il successo dei populismi nel mondo?
«In realtà questi meccanismi sono molto antichi. C’è il discorso di Antonio raccontato da Shakespeare: la folla che all’inizio plaude alla morte di Giulio Cesare alla fine del discorso va ad ammazzare gli assassini di Cesare. La possibilità di manipolare la folla è perfettamente descritta. Nel secolo scorso in Italia, in Germania e anche in Francia il populismo non ha avuto certo bisogno di Internet per prendere il potere. È vero che il populismo oggi è molto presente, ma abbiamo anche gli strumenti per combatterlo. L’abbiamo visto di recente in Italia con un tentativo di populismo che ha fallito. Ma se c’è un Paese dove Internet è davvero l’arma di un populismo pronto a riprendere il potere, questo è l’America».
In Francia e in Italia sta crescendo la contrapposizione tra autorità e maggioranza della popolazione da una parte, e l’esigua ma combattiva minoranza di no vax. I media potrebbero avere un ruolo più positivo nel ridurre la polarizzazione della società?
«Sarebbe utile fare più chiarezza e separare meglio fatti, opinioni e credenze. I media dovrebbero dedicarsi molto di più al fact-checking, ma mi rendo conto che è difficile perché le fake news sono un diluvio. La scuola dovrebbe dedicarsi a sviluppare lo spirito critico e le università potrebbero collaborare mettendo insieme le loro enormi competenze per creare unità dedicate alla verifica delle informazioni. Sogno un’applicazione, non così impossibile, dove inserire una notizia e avere subito il responso: vera o falsa».
Nella campagna francese per l’Eliseo il canale Cnews di Vincent Bolloré sta appoggiando in modo evidente il candidato di estrema destra Eric Zemmour. Che cosa ne pensa? È una rottura con il passato?
«No, perché per esempio già Robert Hersant è stato un patron dei media molto influente nella vita politica (dopo gli esordi a sinistra, negli anni Settanta, con il “Figaro”, Hersant sostenne la destra francese e nel 1987 si associò brevemente a Silvio Berlusconi nel progetto poi fallito di La Cinq, ndr). Quel che è più grave della situazione attuale è che non si parla del futuro della Francia, i candidati non offrono una visione».
Perché gli ologrammi secondo lei sono destinati a trasformare l’informazione e quindi la politica?
«È la tappa successiva di quello che vediamo all’opera oggi. I videogiochi mi sembrano un’ottima porta d’ingresso verso il futuro dell’informazione, perché ci sono legami sempre più stretti tra informazione, educazione e distrazione. La capacità di attenzione è sempre più bassa, e lo strumento della distrazione è sempre più importante. Anche se esisteva già nell’Ottocento, quando i giornali pubblicavano i feuilleton per trattenere i lettori. Credo che presto non ci limiteremo a leggere o vedere le corrispondenze di guerra di un reporter, ma il nostro ologramma sarà trasportato con lui sul campo di battaglia. Per un’applicazione più piacevole, potremo trovarci sul terreno di gioco accanto ai calciatori».
È il progetto «metaverso»?
«In parte, ma quella mi sembra una versione povera. Un’esagerazione catastrofica della società della solitudine narcisistica. Potremmo immaginare qualcosa di più affascinante e non così lontano tecnicamente: per esempio un piccolo mappamondo da regalare a un bambino, che tocca un Paese e quel Paese si materializza sotto i suoi occhi. La questione è filosofica, tutto dipende da quello che vogliamo fare con il digitale: soddisfare l’ego o rapportarci agli altri».
Lei si paragona al Marx della «Critica al programma di Gotha». Perché?
«I socialisti tedeschi gli chiedono un parere sul loro programma e lui conclude con: “Dixi et salvavi animam meam”. Non crede affatto che i suoi consigli verranno tenuti in conto, ma li offre comunque per salvarsi la coscienza. È un po’ il mio stato d’animo. Non sono certo che quel che dico serva a qualcosa ma penso che sia comunque importante dirlo. Lancio un messaggio in una bottiglia».
Quali sono i suoi consigli per restare al di qua del baratro?
«Sono convinto del potenziale positivo e democratico delle nuove tecnologie, ma per evitare che abbiano effetti catastrofici dobbiamo riorientare il corso degli eventi agendo su quattro livelli: cittadini, giornalisti, media, autorità. E quindi, per esempio, insegnare l’arte di informarsi, investire nel fact-checking come dicevamo, rivalutare il giornalismo e la formazione, smantellare le piattaforme troppo grandi e potenti».
Perché lo smantellamento dei Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft) e la loro divisione in entità più piccole è fondamentale?
«I Gafam sono servizi pubblici, e come tali dovrebbero avere degli obblighi: non dominare il mercato, non appropriarsi di tutte le innovazioni, non rendere le persone dipendenti, non lasciare che quel che succederà con gli ologrammi resti totalmente nelle mani dei Gafam. I Gafam dovrebbero essere separati in parti diverse e distinte, in modo da non sostituirsi agli Stati democratici».
Lo scontro fra Twitter e Donald Trump fa parte di questo conflitto fra grandi società digitali e Stati nazionali?
«Sì, e io ero contrario alla scelta di Twitter di bloccare l’account di Trump. Non spetta a un’impresa privata prendere una decisione simile, ma alla giustizia. Se Trump ha scritto cose contrarie alla morale e alla dignità, cosa ben possibile, allora bisognerebbe bloccare gli account di milioni di persone».
- Intervista di Stefano Montefiori - Pubblicata su La Lettura del 16/1/2022 -
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