lunedì 28 febbraio 2022

La ferita È l'occhio

Frazer (Il ramo d'oro) afferma che la magia opera in base a due principi, a due idee: da un lato, l'idea che il simile produce il simile, ovvero che l'effetto è simile alla causa; dall'altro, l'idea che le cose - una volta entrate in contatto - continuano ad agire a distanza, le une sulle altre, e questo anche dopo che il contatto fisico sarà finito (una sorta di legge del contagio). Lévi-Strauss (Il pensiero selvaggio), a sua volta, commentando a proposito del metodo di seguire le piste nel deserto australiano (l'aborigeno che legge le impronte, le nuvole, i venti), sottolinea come tale metodo sia correlato al sistema di "navigazione" così come esso viene usato dall'abitante della grande città (la lettura dei segnali stradali, lo sguardo di un altro guidatore, la variazione del rumore dei motori), e da tutto ciò ne trae che entrambi sono dei sistemi di controllo di quei segni che richiedono intelletto.

Il potere del cane - il film di Jane Campion - articola, unendoli, entrambi i registri: abbiamo così una narrazione del contagio che si svolge in parallelo con un'educazione dello sguardo. Le posizioni temporali, tuttavia, si mescolano in modo complesso: il contagio riguarda tanto l'avvelenamento di Phil quanto il suo precedente rapporto con Bronco Henry; l'educazione del castratore di vitelli si svolge sia nel contesto del rapporto tra Phil e Bronco Henry che nel contesto di quello tra Phil e Peter (che in parte inverte tale relazione, e lo fa nel momento in cui mostra bruscamente a Phil che anche lui è in grado di vedere e riconoscere il cane sulla faccia della montagna). Così, nel film, la scatola segreta che contiene le riviste di Bronco Henry serve da oggetto-feticcio, il quale chiude il circuito della triangolazione Phil-Peter-BH (garantendo che il contagio si diffonda nel tempo, perfino decenni dopo la morte del proprietario della scatola).

Il contagio (del veleno, in Phil) avviene attraverso il taglio; il taglio nella mano nel momento in cui si insegue un coniglio spaventato che si è nascosto in un mucchio di pezzi di legno. Il taglio, del resto, è solo un dettaglio che spicca nella composizione generale del film e del personaggio - in altre parole, è un punctum. Nel suo "La camera chiara", Barthes parla del punctum inteso proprio come "ferita" o  come "puntura", vale a dire quello che, in un'immagine, si traduce in una "ferita" dell'occhio/ dello sguardo, in un colpo, in un taglio, in una "punteggiatura" (così, è degno di nota quindi il fatto che il dettaglio del taglio nella mano di Phil sia proprio un punctum, cosicché la ferita del corpo è simultaneamente allo stesso tempo anche la ferita dell'immagine; è il punctum ciò che chiama lo sguardo, ciò che attira lo sguardo, che galvanizza l'attenzione e rende possibile il contagio - e, con ciò, anche la conclusione, il climax, l'apice, la catarsi, il godimento).

fonte: Um túnel no fim da luz

«Oceanico» versus «Eurasiatico» !!

Attacco all'Ucraina: la lotta per l'ordine mondiale
- La rottura delle relazioni russo-tedesche e il ritorno della guerra come continuazione della geopolitica imperialista in Europa -
di Tomasz Konicz

"Shock and awe"! È questo il denominatore del massiccio attacco della Russia all'Ucraina, in cui, in tempo assai breve, sono stati bombardati decine di obiettivi, al fine di paralizzare le forze armate ucraine e impedire una resistenza coordinata contro l'avanzata dell'esercito russo nell'est del paese (al momento, le forze di terra russe sono attive solo a est del Dnieper). L'attacco su larga scala a livello nazionale, nel quale le strutture di comando, i depositi e le forze aeree dell'Ucraina sono stati attaccati, e parzialmente distrutti, assomiglia al metodo usato dagli Stati Uniti nell'ultima guerra in Iraq, quando l'aviazione americana ha anche fatto ricorso a un assalto schiacciante contro le infrastrutture militari del regime iracheno in difficoltà. Questo inizio della guerra in Ucraina, ha lo scopo di dare una lezione agli USA e all'UE. Imitando l'attacco statunitense all'Iraq, il Cremlino vuole dimostrare che la Russia si trova, militarmente, allo stesso livello imperialista dell'Occidente; un livello che dal punto di vista geopolitico Washington, Berlino e Bruxelles vogliono negare a Mosca. La sfera d'influenza imperiale russa nello spazio post-sovietico, che non avrebbe più dovuto essere concessa a questa Mosca in declino economico, viene ora letteralmente bombardata dalla Russia nucleare, mentre l'Occidente deve assistere impotente, se non vuole rischiare un'apocalisse nucleare. In tal modo, il Cremlino mette così in chiaro che difenderà il più possibile la propria posizione imperiale, come una grande potenza che vuole ottenere le sue "sfere d'influenza", proprio come gli Stati Uniti e la Germania.

Germania e Russia: strette relazioni economiche
Le conseguenze politiche ed economiche della guerra saranno enormi, soprattutto per Berlino, dal momento che la Repubblica Federale Tedesca continua a mantenere strette relazioni economiche con la Russia; sebbene abbiano superato il loro zenit, dopo la debacle filo-occidentale di Kiev nel 2014, che include anche la successiva guerra civile ucraina. La bilancia commerciale Germania-Russia ha raggiunto il suo picco, corrispondente a 80 miliardi di euro, nel 2012, per poi scendere a 48 miliardi nel 2016, in seguito alle sanzioni. L'anno scorso c'era stata una leggera ripresa che l'aveva riportata a poco meno di 60 miliardi di euro. La Germania esporta principalmente prodotti di alta tecnologia, come macchinari o automobili, mentre la Russia esporta materie prime, e soprattutto combustibili fossili; con una leggera eccedenza commerciale. Circa il 55% del gas naturale che viene importato in Germania proviene dai depositi russi. La Germania rimane così il più importante partner commerciale europeo della Russia; a livello globale, la RFT, come partner, è stata superata dalla Cina solo pochi anni fa. Una grande battuta d'arresto per le ambizioni della politica energetica di Berlino, è stata costituita dalla cancellazione del controverso gasdotto Nord Stream 2, la cui messa in opera avrebbe reso la Germania un centro di distribuzione dell'energia in Europa centrale. Ora, invece, i consumatori e l'industria tedeschi dovranno far fronte a un rapido aumento dei prezzi dell'energia. Secondo l'ex presidente russo Dmitry Medvedev, ben presto ci vorranno 2.000 dollari per ottenere 1.000 metri cubi di gas. Questa imminente conseguenza economica, può essere stata la ragione più importante che ha causato l'atteggiamento esitante di Berlino verso Mosca. A Washington, sulla stampa americana, il rifiuto di Berlino di fornire armi all'Ucraina, o di abbandonare il progetto del gasdotto del Mare del Nord, è stato aspramente criticato per settimane. E ora quando persino la "Tagesschau" ritiene che, una volta "fallito" il metodo della politica tedesca verso la Russia basato sul "dialogo", sia probabile un sostanziale riorientamento da parte di Berlino. Pertanto, la strategia tedesca di una penetrazione soprattutto economica nello spazio post-sovietico, fallita in primo luogo a causa dell'invasione russa dell'Ucraina, in ultima analisi a causa dei mezzi militari di Mosca. Ai "think tank" tedeschi piacerebbe spiegare questo percorso tedesco in direzione di uno sviluppo geopolitico del potere, a partire dal concetto di geoeconomia, come una strategia complessa nella quale «il commercio, la tecnologia, la finanza o la politica energetica vengono strumentalizzati e vengono usati come mezzi per poter raggiungere obiettivi strategici». Il modo in cui si svolge un simile conflitto geoeconomico, è quello sperimentato dalla Grecia nel corso della crisi del debito nell'estate del 2015, quando il paese ellenico violentato da Schäuble venne portato sull'orlo del collasso economico.

La geopolitica tedesca e le differenze interne all'Occidente
Ma in realtà, nei confronti della Russia non esiste un'univoca politica tedesca; ma tale politica è stata sempre solo l'espressione di un'instabile costellazione di potere costituitasi tra, da una parte, le forze in seno alle élite funzionali tedesche orientate all'Occidente (spesso derise come atlantiste) e, dall'altra,  le forze derise, a loro volta, come "simpatizzanti di Putin", le quali sostenevano un orientamento eurasiatico verso la Russia, la Cina, ecc. Non esiste alcuna perfetta sovrapposizione tra lo spettro politico e la rispettiva preferenza geopolitica, poiché eurasiatici e atlantisti si trovano in proporzioni variabili in quasi tutti i partiti del Bundestag - anche se la SPD, il Partito della Sinistra e soprattutto l'AfD hanno una percentuale particolarmente alta di "simpatizzanti di Putin". Gli atlantisti, invece, li possiamo trovare principalmente tra i Verdi. Si tratta semplicemente dell'orientamento geopolitico della RFT in quanto superpotenza europea dominante, nel cui ambito si devono realizzare le sue proprie ambizioni globali: per esempio, l'espansione della sfera d'influenza tedesca nell'Europa orientale e sudorientale, la quale, nel corso dell'allargamento dell'UE, da tempo è stata trasformata nel banco di lavoro esteso dell'industria d'esportazione tedesca. Sullo sfondo di questa formazione, costituita da fazioni sciolte e mutevoli all'interno delle élite funzionali tedesche, è emersa di fatto una doppia strategia verso la Russia, che il geo-stratega tedesco Wolfgang Ischinger ha descritto come «congagement»: un neologismo composto dalle parole inglesi che vengono usate per «contenimento» e «coinvolgimento». La cooperazione economica, dove la Russia assume de facto la posizione periferica di fornitore di energia e materie prime, è stata accompagnata dagli sforzi della Germania per minimizzare l'influenza geopolitica della Russia nell'Europa orientale e nello spazio post-sovietico. Alla fase di tumultuosa espansione economica e politica degli anni '90 - quando Berlino ha sostenuto la disintegrazione della Cecoslovacchia, la dissoluzione della Jugoslavia e l'espansione verso est dell'UE e della NATO - è seguita la fase di cooperazione con l'ascesa al potere di Putin, che si è conclusa solo nel 2014 con la crisi in Ucraina. Tuttavia, sulla scia della rivolta filo-occidentale a Kiev, è diventato anche chiaro come Berlino sia attiva in quanto attore geopolitico indipendente che non permette a Washington di dettare la sua politica. Nel 2013, esisteva ancora un accordo circa lo sforzo di separare l'Ucraina dalla pianificata unione economica russa. A quel tempo, la Germania, attraverso la Fondazione Konrad Adenauer, costruì il partito Klitschko UDAR, il quale mirava a un cambiamento di potere attraverso nuove elezioni, ma che durante i combattimenti di Maidan entrò rapidamente in conflitto con forze più radicali, sponsorizzate dagli USA. Il famoso «Fuck the EU» della diplomatica statunitense Victoria Nuland, pubblicato come registrazione di una conversazione telefonica al culmine della crisi, riflette proprio queste differenze interne all'Occidente, cosa che spiega anche l'attuale reticenza tedesca.

"Oceanico" contro "Eurasiatico"
A partire da allora, Washington ha cercato di creare un cuneo tra Berlino e Mosca, attraverso un'ulteriore escalation al fine di impedire il formarsi di una grande alleanza eurasiatica, mentre Berlino ha invece cercato di abbracciare Mosca fino alla morte, per ridimensionarla alla periferia, come parte di una strategia di cambiamento grazie a un avvicinamento economico. L'impero in declino di Washington vede la Cina - insieme a un'alleanza eurasiatica (parola chiave: Nuova Via della Seta) - come la minaccia centrale alla sua egemonia in declino. Un intervento degli Stati Uniti a Kiev, ha pertanto lo scopo di consolidare la propria alleanza "oceanica", che si estenda quanto più possibile attraverso l'Atlantico e il Pacifico, ed è in ultima analisi rivolta contro la Cina. Oceanico contro eurasiatico: è questo il che definisce l'attuale lotta egemonica globale, nella quale i campi imperialisti stanno cercando di espandere i confini delle loro sfere di influenza. Gli Stati Uniti, per esempio, stanno cercando di ricondurre saldamente di nuovo nella loro sfera d'influenza l'UE dominata dalla Germania; Europa, che dall'era Trump vuole sempre più agire come un attore indipendente. La crescente autonomia d'azione degli Stati tardo-capitalisti si fa sentire anche nei paesi dell'Europa dell'Est, i quali dipendono economicamente dalla Repubblica Federale, ma allo stesso tempo tendono però a fare dei propri patti con gli Stati Uniti (soprattutto la Polonia e i paesi baltici) allorché si tratti di silurare un ulteriore avvicinamento tra Berlino e Mosca. La vecchia paura, di lunga data, dell'Europa centrale e orientale di subire una nuova divisione della regione tra Berlino e Mosca, ravvivata dal gasdotto Nord Stream, ha fornito agli Stati Uniti una buona leva di potere, nel "cortile" economico della RFT, per spingere questa agenda. In definitiva, i crescenti conflitti militari che si stanno svolgendo nella semi-periferia del sistema mondiale, ivi comprese le ambizioni imperiali della Turchia, sono proprio dovuti al declino imperiale degli Stati Uniti. Washington non può più mantenere la promessa che aveva fatto negli anni '90, di essere la "polizia del mondo" e di monopolizzare ampiamente l'uso dei mezzi militari in delle sanguinose guerre di ordinamento mondiale. Le potenze regionali si stanno muovendo in quel vuoto di potere sempre più emergente per poter imporre le loro ambizioni imperialiste con mezzi militari, se necessario.

Ordine mondiale instabile e crisi del capitale
Si tratta, in breve, nella crisi socio-ecologica del capitale, del così tanto invocato «ordinamento mondiale multipolare». Il declino degli Stati Uniti ha infatti portato all'emergere di una serie di piccoli «Stati Uniti junior», i quali vogliono proiettare all'estero, con mezzi militari, le loro crescenti distorsioni sociali (e, in prospettiva, anche ecologiche) causate dalla crisi: dalle avventure belliche turche in Siria, nel Caucaso meridionale e in Libia, all'invasione russa dell'Ucraina, fino al possibile scontro tra Pechino e Washington su Taiwan. Una crisi economica, somigliante a quella degli anni '30, si sta abbattendo su degli apparati statali in rovina. La necessità di trasferire agli altri le conseguenze della crisi è in costante crescita. Nell'ambito della sua espansione economica, la Repubblica Federale di Germania è riuscita letteralmente a esportare le conseguenze della crisi, quali il debito o la disoccupazione, grazie a degli elevati surplus commerciali a spese dei deficit di quei paesi importatori dell'offensiva dell'esportazione tedesca. La crisi del debito sovrano dell'Eurozona nell'ultimo decennio ne è un esempio. In un tale contesto, non è meno importante che gli Stati Uniti, spietatamente sovra-indebitati, siano effettivamente costretti a lottare per la loro posizione egemonica, dal momento che devono mantenere il dollaro come moneta mondiale. Senza il dollaro - come unità di misura del valore di tutte le materie prime, e che fino a poco tempo fa Washington poteva stampare a volontà per finanziare l'enorme deficit di bilancio degli Stati Uniti - gli Stati Uniti degenererebbero diventando un gigantesco Stato debitore armato di nucleare. Le élite funzionali americane, a causa dello sconvolgimento sociale in patria, hanno ormai da tempo sviluppato una paranoia circa l'influenza russa, simile a quella sviluppata dal Cremlino nei confronti delle «rivoluzioni colorate» finanziate dall'Occidente. Ma in fondo è proprio la crisi socio-ecologica globale del capitale, specificamente nella sua forma di inflazione crescente, che sta impedendo anche a Washington questa opzione di "deficit spending", con cui si potrebbero mascherare le contraddizioni interne.

Il pericolo di una Grande Guerra
In questo modo,  per le élite funzionali tardo capitaliste la guerra come strumento politico diventerà ancora più attraente. È un catalizzatore del processo di crisi economica e, a lungo andare, anche del processo di crisi ecologica: gli sconvolgimenti sociali che ne derivano trovano in essa un mezzo violento per scaricarsi all'esterno, che finisce per realizzare la tendenza autodistruttiva del capitale; perfino la minaccia di una grande guerra nucleare. Nel caso dell'Ucraina, possiamo ancora sperare che l'unico pericolo nucleare sia costituito dalle centrali nucleari del paese: un intervento della NATO sembra per ora improbabile, dopo che il presidente americano Biden ha scartato la possibilità di un intervento militare diretto, già prima della guerra. Tuttavia, non si può escludere una nuova escalation bellica. Oggi, la sinistra impotente ha solo l'opzione della lotta per la pace e del lavoro di informazione:  evidenziando come necessità per la sopravvivenza, una trasformazione sistemica post-capitalista, al fine di evitare il collasso barbarico a causa di un'altra guerra su larga scala.

- Tomasz Konicz - 24 febbraio 2022 -

fonte: analyse & kritik. Zeitung für linke Debatte & Praxis

domenica 27 febbraio 2022

Il più e il meno …

«Non bisogna moltiplicare gli enti oltre il necessario», entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem. Questa formula, apparentemente semplice e intuitiva, viene attribuita a Guglielmo di Occam, un frate francescano inglese vissuto a cavallo tra Due e Trecento, e a dispetto del suo aspetto innocente nasconde in sé un dirompente potere rivoluzionario. Il suo autore non la scrisse mai in questi termini, ma fu probabilmente lui a dire che «è inutile fare con più mezzi ciò che si può fare con meno», e in ogni caso è sicuramente a Guglielmo che questo concetto viene ascritto sotto il titolo di «rasoio di Occam»: in pratica, tra due ipotesi che descrivono entrambe bene un fenomeno, conviene preferire quella che fa meno assunzioni e scartare la più farraginosa. Gli ottocento anni che ci separano dalla prima enunciazione del «rasoio» sono costellati da continue conferme della sua validità: a ogni svolta concettuale, a ogni vittoria dell'intelletto umano è corrisposta la caduta di qualche orpello, si è eliminato qualche «ente non necessario», con la conseguente semplificazione delle nostre spiegazioni sul funzionamento del mondo. Si può dire che il rasoio di Occam sia il principio che ha favorito l'ascesa della scienza moderna e che ne guida a tutt'oggi il cammino. Non è un caso che Umberto Eco si fosse ispirato proprio a Guglielmo di Occam per tratteggiare la figura di Guglielmo da Baskerville nel "Nome della rosa". Johnjoe McFadden racconta questa storia affascinante partendo dalla vita di Guglielmo di Occam e risalendo i secoli, di innovazione in innovazione, mettendo in risalto il valore rivoluzionario della sua idea, dall'universo mitologico a Copernico e Galileo, dallo spirito vitale a Mendel, Wallace e Darwin, dalle prime teorie sul calore alla termodinamica, dall'aristotelismo all'universo di Newton, Einstein e Higgs. Descrivendo la passione, la curiosità, gli errori e le lotte dei pensatori che si sono ispirati al rasoio di Occam, "La vita è semplice" fornisce una nuova, originale visione della scienza.

(dal risvolto di copertina di: "La vita è semplice. Come il rasoio di Occam ha liberato la scienza e modellato l’universo",  di Johnjoe McFadden. Bollati Boringhieri, pagg. 449, € 25)

Il superpotere della semplicità
- di Paolo Legrenzi -

Intorno al 1288 a Ockham, borgo a metà strada tra Oxford e Londra, nasce Guglielmo. Orfano, è affidato al più vicino convento francescano dove impara a leggere le preghiere e a copiare le vite dei santi. Eccezionale, nel 1305 è accolto a Londra dalla sede centrale dei francescani per perfezionare poi gli studi a Oxford, già a quei tempi la più importante università inglese nell’ambito delle scienze umane.
Intelligenza e cultura superiori segneranno il destino di Guglielmo. Docente a Oxford e noto come Guglielmo da Occam, commenta, tra il 1317 e il 1319, le Sententiae di Pietro Lombardo, il principale manuale per lo studio della teologia, e scrive una sintesi ragionata della Fisica e delle Categorie di Aristotele in dialogo continuo con allievi e colleghi. I dibattiti vengono verbalizzati e cominciano a filtrare notizie preoccupanti sulla ortodossia di Occam al punto che non diventa Maestro di teologia secondo lo sviluppo consueto di carriera. A Oxford circola anonimo il Libellus contra Occam, scritto probabilmente dallo stesso rettore dell’università.
Nel 1324 l’eminente studioso francescano riceve una convocazione dal pontefice Giovanni XXII che sta ad Avignone. Guglielmo si prepara a difendere le sue idee ma, nel frattempo, avviene un colpo di scena. Il papa convoca anche il legale dei francescani, Bonagrazia da Bergamo, e il ministro generale, Michele da Cesena. A quei tempi si dibatteva la liceità della ricchezza delle gerarchie ecclesiastiche e gli eredi di San Francesco erano comprensibilmente critici. Essendo giunta notizia di confratelli arsi vivi a Narbonne e Beziers per non aver ripudiato le tesi pauperiste, la sera del 26 maggio 1328 i tre frati francescani fuggono da Avignone e cavalcano verso la Camargue per giungere a Aigues-Mortes, il porto da cui salpavano le crociate. Vengono accolti da Giovanni Gentile, proveniente da Savona, città alleata di Ludovico il Barbaro, appena eletto imperatore a Roma da Niccolò V, il “suo” papa. Mentre la barca di Gentile non è ancora riuscita a prendere il largo vengono raggiunti dagli inseguitori inviati da Giovanni XXII. Gentile però riesce a ingannarli e raggiunge in mare aperto una galea da guerra di Savona. I tre fuggitivi approdano a Pisa e si precipitano a Roma sotto la protezione di Ludovico il Barbaro. Infine, insieme all’imperatore, riparano a Monaco di Baviera, in un convento francescano da cui non si muoveranno mai più. Lì Guglielmo perfeziona la sua opera filosofica più importante, la Summa Logicae che aveva già steso ad Avignone. Incontriamo così una prima applicazione di quello che diverrà famoso come il rasoio di Occam: «È vano fare con più ciò che può essere fatto con meno». La soluzione del sillogismo, pietra angolare della logica scolastica: «Socrate è un uomo. Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è mortale», contemplava che esistessero universali come l’umanità e la mortalità. Secondo Occam, invece, l’universale altro non è che un fictum, un modello mentale che non esiste nella realtà. Con le parole di Johnjoe McFadden, scienziato inglese sconfinato ammiratore di Guglielmo da Occam: «per scoprire se veramente un uomo è mortale è più semplice infilzarlo con una freccia. Nella logica di Occam, svuotata dagli universali e colma solo di individui, l’unico modo di acquisire conoscenze certe è tramite l’esperienza e l’osservazione».

Dal punto di vista di McFadden questa applicazione del rasoio è ancora più importante di quelle volte a «tagliare via» le prove logiche dell’esistenza di Dio e la commistione tra ragione e fede. Dalla prospettiva odierna, il primo manifesto della semplicità intesa come il massimo di fatti spiegati con il minimo di ipotesi, elimina alla radice le ingerenze dei teologi e della chiesa e inizia a sgombrare la strada per l’affermarsi delle scienze moderne liberandole, un po’ alla volta, di quella che McFadden chiama la «fisica di Dio».
Il libro è scritto benissimo, avvincente, documentato, mai pedante. Non affronta però il mistero di come mai il rasoio di Occam sia controintuitivo al punto da affermarsi relativamente tardi e con tante difficoltà non solo nella storia della filosofia e della scienza ma, più in generale, in tutta la cultura occidentale. La sottrazione, il meno che diventa più, segnerà lo sviluppo delle arti solo nell’ultimo secolo, come avviene con la Bauhaus, il "less is more" dell’architetto Mies van der Rohe, la musica minimalista di John Cage, l’irrompere del caso nei quadri di Jackson Pollock e le nuove opere digitali prive di basi materiali ma irriproducibili.
Le ricerche sperimentali hanno cominciato finalmente a scandagliare gli svariati motivi per cui la mente umana è più incline all’addizione che alla sottrazione. E lo si vede ben presto: se un bambino, giocando con il Lego, vuole fare due colonne lunghe uguali preferisce aggiungere mattoncini alla costruzione anche quando sarebbe più conveniente toglierli. Molto, molto più in grande, analoghe difficoltà vengono superate da Copernico, Keplero, Newton, Darwin ed Einstein: sono riusciti a trovare soluzioni più semplici, potenti e eleganti sottraendo dalle teorie precedenti il complesso e l’irrilevante. Sarà vero, come dice il titolo del libro di McFadden, che «la vita è semplice», ma non è affatto semplice accorgersi di questa semplicità per tradurla in modelli del mondo.

- Paolo Legrenzi - Pubblicato sulla Domenica del 23/1/2022 -

sabato 26 febbraio 2022

Lo Sguardo della Medusa

Dal momento che stiamo vivendo nell'era di una grande e multidimensionale crisi delle società moderne, non possiamo più permetterci di chiamare con il loro nome quelle cose che ci stanno stritolando.
Il termine «capitalismo», il cui utilizzo è stato così tanto denigrato, e spesso frainteso, bisogna che venga urgentemente di nuovo analizzato, al fine di poter conoscere e combattere tutto ciò che ci sta capitando.
In maniera istruttiva, e con metodo, Benoît Bohy-Bunel propone in questo libro una ricostruzione della critica marxiana del capitalismo, ed espone quali sono le sue implicazioni contemporanee per il XXI secolo.
Ciò di cui si tratta, è esaminare cosa si trova nel cuore della società contemporanea, vale a dire, il feticismo della merce, e criticarlo; cosa che ci porta alla necessità di attuare una denaturalizzazione di quelle che sono le categorie fondamentali del capitalismo, per poter andare così verso il superamento di una società che si basa sulla ricchezza astratta.
Per riuscire a cogliere il modo in cui il valore agisce come se fosse una totalità spezzata, è anche necessario esaminare le strutture del coinvolgimento concreto degli individui, i quali, per essere riconosciuti come "soggetti", devono conformarsi a dei comportamenti.  Ciò implica che venga attuata una riflessione sulla forma del soggetto moderno, sull'umanesimo dell'Illuminismo e sul formalismo della scienza moderna. E implica anche l'analisi di quella che è di fatto una dominazione multidimensionale.
Il soggetto del valore - che è un soggetto maschile, occidentale, bianco e valido - espelle fuori da sé, in quanto «non-cultura» - tutto ciò che non gli corrisponde. Razzismo, patriarcato, validismo e antropocentrismo, che ci vengono indotti a partire dalla forma-soggetto escludente, sono indissociabili dal processo capitalista. L'autore cerca pertanto di pensare in modo categorico tutte queste diverse manifestazioni del totalitarismo del valore.

Benoît Bohy-Bunel, "Le Regard de la méduse. Réification et sujet moderne dans le capitalisme". Prefazione di Alastair Hemmens. Crise e Critique. Collection Palim Psao / 280 pages.  Parution le 31 mai 2022.

Benoît Bohy-Bunel è filosofo e drammaturgo. Ha pubblicato "Symptômes contemporains du capitalisme spectaculaire. Actualités inactuelles"(L'Harmattan, 2019), "Contre Lordon. Anticapitalisme tronqué et spinozisme dans l'opera di Frédéric Lordon" (Crise & Critique, 2021), e "Approche matérialiste de la 'Critique de la raison pure'" (L'Harmattan, 2022).

venerdì 25 febbraio 2022

I nuovi valori universali …

La crisi dell'Ucraina e l'accordo tra Cina e Russia
- di José Luis Fiori -

«Ormai non esiste più un unico "criterio etico", e nemmeno un unico giudice che abbia il potere di arbitrare tutti i conflitti internazionali sulla base della propria "tavola dei valori". E non è più neanche possibile espellere i "nuovi peccatori" dal "paradiso" inventato dagli europei, come avvenne con i leggendari Adamo ed Eva. Allo stesso modo in cui ha avuto fine questa supremazia, potrebbe essere possibile, se non addirittura necessario, che l'Occidente impari a rispettare e a convivere pacificamente con la 'verità' e con i 'valori' delle altre civiltà.»
(José Luis Fiori, O mito do pecado original, o ceticismo ético e o desafio da paz, Editora Vozes, 2021, p. 464)

All'inizio di questo 2022, ci sono stati due eventi che hanno scosso lo scenario mondiale: il primo è stato l'ultimatum russo, lanciato a metà dicembre 2021 e indirizzato agli Stati Uniti, alla NATO e ai paesi membri dell'Unione Europea, che chiedeva il ritiro immediato della NATO in Ucraina, e proponeva una revisione completa della "mappa militare" dell'Europa centrale, definita dagli Stati Uniti e dai suoi alleati dell'Alleanza Atlantica dopo la vittoria nella guerra fredda. Il secondo è stata la "dichiarazione congiunta" della Federazione Russa e della Repubblica della Cina del 7 febbraio 2022, che proponeva una "rifondazione" dell'ordine mondiale, così come era stato stabilito dopo la seconda guerra mondiale, e approfondito dopo la vittoria degli Stati Uniti e dei loro alleati nella guerra del Golfo nel 1991. I due documenti propongono una "revisione" dello status quo internazionale, ma mentre il primo contiene obiettivi e richieste immediate e localizzate, il secondo rappresenta invece una vera e propria proposta di "rifondazione" del sistema interstatale "inventato" dagli europei. Entrambi, tuttavia, in questo momento stanno puntando a una profonda riconfigurazione del sistema internazionale.

Riguardo l'«ultimatum russo», la questione immediata in gioco è l'incorporazione dell'Ucraina nella NATO, ma il vero problema di fondo è la richiesta russa di una revisione delle "perdite" e delle "limitazioni" che le sono state imposte dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica. Dopo il 1991, la Russia ha perso 5 milioni di chilometri quadrati e 140 milioni di abitanti, ma ora si propone di ridurre queste perdite espandendo la sua influenza nei suoi dintorni strategici e rimuovendo la minaccia al suo territorio costituita dalla NATO e dagli Stati Uniti. Questo ultimatum era perfettamente prevedibile, ed è stato annunciato da molto tempo, almeno dalla "guerra georgiana" del 2008. La grande novità di ora, è che la proposta revisionista dei russi avrebbe dovuto procedere senza guerra, grazie a una partita a scacchi estremamente complessa, nella quale vengono accumulate minacce militari ed economiche, ma dove non dovrebbe esserci uno scontro diretto, nonostante la propaganda e l'isteria psicologica provocata dai successivi annunci dell'«invasione che non c'è stata», soprattutto da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. La Russia ha ottenuto una vittoria immediata riuscendo a portare tutti gli altri attori coinvolti intorno a un tavolo, per discutere i termini della sua proposta. Ed è molto probabile che le sue principali richieste verranno soddisfatte, senza invasione né guerra. Oltre a tutto questo, le discussioni hanno mostrato la divisione tra le potenze occidentali e la mancanza di iniziativa e di leadership da parte del governo nordamericano, il quale si è limitato a ripetere la stessa minaccia di sempre: che avrebbe imposto nuove sanzioni economiche ai russi, nel caso l'invasione fosse avvenuta; cosa che è stata ripetutamente negata dagli stessi russi, mentre l'iniziativa diplomatica è passata quasi interamente nelle mani degli europei. Gli Stati Uniti non hanno ricevuto il sostegno che si aspettavano dai loro vecchi alleati in Medio Oriente (neppure Israele), in Asia (nemmeno l'India), e anche in America Latina (neanche il Brasile). E quel che è peggio, per gli anglosassoni, tutto indica che la Germania giocherà un ruolo fondamentale nella mediazione diplomatica del conflitto, cosa che comporterebbe un riavvicinamento tra tedeschi e russi, con la liberazione immediata del Gasdotto Baltico, che è sempre stato osteggiato dagli americani. Oltre al fatto che un eventuale successo diplomatico tedesco in questo conflitto darebbe alla Germania una centralità geopolitica in Europa, cosa che accelererebbe il declino dell'influenza degli Stati Uniti tra i suoi alleati europei. In questo senso, un accordo diplomatico "intra-europeo" sarebbe anche una sconfitta per gli Stati Uniti, ma allo stesso tempo è impossibile immaginare come un simile accordo possa avere successo senza il sostegno degli stessi Stati Uniti e della NATO, che è in pratica un «braccio armato nordamericano».

Nel caso, invece, del documento presentato alla «comunità internazionale», da Russia e Cina il 7 febbraio, le rivendicazioni specifiche e locali dei due paesi sono ben note e in questo contesto non hanno importanza maggiore. L'importanza del documento va ben oltre, perché si tratta in realtà di una vera e propria «carta dei princìpi» proposta all'apprezzamento di tutti i popoli del mondo, contenente alcune idee e concetti fondamentali per una "rifondazione" del sistema internazionale creato dagli europei quattro secoli fa. È un documento che richiede un'attenta lettura e una seria riflessione, soprattutto in questo momento di destrutturazione del "blocco occidentale" e di divisione interna e indebolimento degli stessi Stati Uniti.
Il primo aspetto che richiama l'attenzione in questo documento apparentemente insolito, è la sua difesa di alcuni valori molto cari al «sistema della Westfalia», come avviene nella sua intransigente difesa della sovranità nazionale e del diritto di ogni popolo a decidere del proprio destino, purché si rispettino gli stessi diritti di tutti gli altri popoli. Allo stesso tempo, il documento difende anche alcune delle idee più importanti del "liberal-internazionalismo" contemporaneo, come la sua difesa di un ordine internazionale basato sulle leggi, il suo entusiasmo per la globalizzazione economica e il multilateralismo, la sua difesa della "causa climatica" e dello sviluppo sostenibile, e il suo sostegno illimitato alla cooperazione internazionale nei campi della salute, delle infrastrutture, dello sviluppo scientifico e tecnologico, dell'uso pacifico dello spazio e della lotta al terrorismo. Da un punto di vista accademico e occidentale, inoltre, questo «documento russo-cinese» ricorda spesso l'idealismo internazionalista di un Woodrow Wilson, tanto quanto ricorda, altre volte, l'idealismo nazionalista di un Charles de Gaulle.

Ma la sorprendente originalità di questo documento aumenta ulteriormente grazie alla sua difesa universale e illimitata di valori quali la libertà, l'uguaglianza, la giustizia, i diritti umani e la democrazia. Soprattutto quando assume la difesa della democrazia in quanto valore universale, e non come privilegio di qualche popolo particolare o come responsabilità congiunta di tutta la comunità internazionale, con il contemporaneo riconoscimento del fatto che non esiste una sola forma di democrazia, né alcun «popolo eletto» che possa o debba imporre agli altri un qualche modello superiore di democrazia, come se si trattasse di una «verità rivelata» da Dio. Ed è a questo punto che si esplicita la proposta veramente rivoluzionaria di questo documento: che si debba accettare una volta per tutte che, almeno dalla fine del XX secolo, il sistema interstatale non è più un monopolio degli europei e di alcune delle loro ex colonie, poiché esso è oramai formato da varie culture e civiltà, e che nessuna di esse è superiore alle altre; e tanto meno ha il monopolio della verità e della moralità. In altre parole, questa proposta eurasiatica per un nuovo ordine mondiale rifiuta qualsiasi tipo di «universalismo espansivo» o «catechistico», ma tuttavia, simultaneamente, accetta l'esistenza di valori universali.

In tutto ciò, non ci sarebbe nulla di originale se, per esempio, tali idee facessero parte di un testo accademico o di una riflessione filosofica postmoderna. Ciò che fa la differenza in questo documento non è il suo multiculturalismo; ma il fatto che questo multiculturalismo appare qui come una rivendicazione e una proposta universale presentata e sostenuta dalla seconda potenza atomica del mondo, e dalla seconda economia di mercato del mondo. Per di più, è una proposta sostenuta da un potere che fa parte dell'albero genealogico della civiltà occidentale e, allo stesso tempo, da quella che è una potenza e una civiltà che non appartiene a questa stessa matrice, né ha mai avuto alcun tipo di vocazione catechistica. Sì, perché la Cina si è staccata dal suo millenario impero ed è diventata uno stato nazionale solo all'inizio del XX secolo; ed è stato solo alla fine del XX secolo che si è pienamente integrata nel sistema interstatale, incorporandosi nell'economia capitalista mondiale con una velocità e un successo straordinario. Da allora, lo stato nazionale cinese si comporta come tutti gli altri stati europei, ma la Cina, però, non ha mai avuto alcun tipo di religione ufficiale, e non si è mai proposta di essere un modello economico, politico o etico universale - e quindi non si è mai nemmeno proposta di catechizzare il resto del mondo. Al contrario, sembra che la Cina si proponga di relazionarsi con tutti i popoli del mondo, indipendentemente dai regimi politici, dalle religioni o dalle ideologie, perfino quando appare assolutamente inflessibile circa la difesa nazionale dei suoi valori tradizionali e degli interessi della sua civiltà millenaria. Pertanto, di conseguenza, sebbene sia il caso di speculare sul futuro di questa «nuova era» che sta nascendo, è anche necessario essere chiari sul fatto che la Cina non si propone di sostituire gli Stati Uniti come centro di articolazione di una sorta di nuovo «progetto etico universale». Tutto ci indica che l'avanzata di questa nuova «era multi-civilizzatrice» non può più essere invertita, né c'è modo di riportare il sistema mondiale alla sua precedente situazione di completa supremazia eurocentrica.

«E per quanto l'asse del sistema mondiale non si sia ancora spostato interamente verso l'Asia, quel che è certo è che si è già stabilito un nuovo "equilibrio di potere", il quale ha soppiantato la precedente egemonia, quella del progetto universale e del "espansionismo catechistico"  di tradizione greco-romana e giudaico-cristiana.»

- José Luis Fiori - Pubblicato il 24/02/2022 su Blog da Boitempo -

giovedì 24 febbraio 2022

Emulsioni teoriche …

Il nuovo provincialismo e la vecchia critica delle esigenze tronche della prassi
- di  Frank Grohmann -

« Vediamo attualmente, soprattutto nella sinistra e dintorni, una tendenza a fare ricorso alla psicoanalisi per spiegare tutto ciò che la teoria sociale non è riuscita a rendicontare. Per cui, ai movimenti di destra, verrebbe data forma da delle personalità autoritarie; l'egocentrismo dei "Millennial" corrisponderebbe ai loro stessi diffusi psicologismi; e il fallimento dei gruppuscoli comunisti è stato solo una conseguenza delle notazioni algebriche della psicologia dei gruppi.
La psicologia sale sul palco, e la sociologia viene relegata sullo sfondo. Oppure, esattamente al contrario, la vita di un individuo appare come se fosse solo una finzione borghese, anziché vederla come un potenziale che invece, in ogni occasione, è stato soffocato. Da Talcott a Chibber, nel momento in cui la struttura sociale viene ritenuta un elemento irriducibile, ecco che l'individuo scompare sotto tutto uno strato di comportamenti, motivazioni e atteggiamenti.
In entrambi i casi, riscontriamo che la relazione tra psicoanalisi e sociologia non è stata analizzata, e ciò ha permesso che venissero "applicate" una miriade di categorie psicoanalitiche, laddove questo non ha alcun senso sul piano terapeutico. Quello che non è stato ancora approfondito, riguarda come cogliere nel miglior modo possibile la relazione esistente tra l'individuo e la società, anziché ingigantire uno dei due aspetti a spese dell'altro
» [*1].

Ci sembra che sia particolarmente importante dover convenire con i redattori di "Cured Quail" sull'attuale tendenza a usare la psicoanalisi come se fosse un rimedio universale per tutto ciò che la teoria sociale non è in grado di spiegare; vedendo tale tendenza come l'espressione di un nuovo provincialismo: qualsiasi cosa si pensi di capire grazie all'aiuto della psicoanalisi, ne esce frammentata, il contesto evapora e si dissolve, e alla fine anche lo stesso oggetto che dovrebbe essere esaminato rimane privo di significato. Ci sembra anche giusto sottolineare come, allo stesso tempo si tratti di un'assurdo movimento di oscillazione del pendolo, nel quale una volta la psicologia e una volta la sociologia vengono portate a turno in primo piano, e in entrambi i casi quello che appare come il lato più cattivo viene relegato in secondo piano, sullo sfondo. Questo continuo tira e molla non solo priva la psicoanalisi della sua refrattaria specificità, ma contribuisce simultaneamente anche alla psicologizzazione e alla sociologizzazione della teoria sociale. Una cosa che potrebbe anche continuare all'infinito, ma che però non fornirà alcuna bussola che ci guidi nella più grande sfida che dobbiamo ancora affrontare, vale a dire, un analisi approfondita della relazione tra psicoanalisi e teoria sociale; né ci permetterà di esaminare come la relazione tra l'individuo e la società possa essere colta in maniera adeguata.

In altri termini, non si sta facendo altro che continuare a ripetere all'infinito il canto funebre della teoria critica. Ma davvero dovremmo seppellire la teoria critica? La rivista "Cured Quail" ci invita piuttosto a rispondere alla domanda su cosa sia necessario oggi per farla rinascere.
Inevitabilmente, la tesi che parla di un nuovo provincialismo di fronte alla crisi globale, così come viene presentata nell'editoriale del secondo numero di "Cured Quail", ci riporta direttamente alla domanda posta da Theodor W. Adorno nel 1955, vale a dire, sul perché le «masse, nei paesi altamente industrializzati», facciano affidamento sulla «politica della catastrofe, piuttosto che perseguire degli interessi razionali, il primo dei quali è la conservazione della propria vita» [*2]. Secondo Adorno, a questa domanda non potrebbe esserci alcuna risposta, senza prima chiarire la relazione esistente tra sociologia e psicologia,  - nella quale si riflette la separazione tra società e psiche, una separazione che «rende perenne a livello categorico la dis-unione del soggetto vivente e dell'oggettività, che regna sui soggetti e che da essi tuttavia ne proviene» [*3]. «Nessuna sintesi scientifica a venire, può mettere insieme ciò che, in linea di principio, è scisso in sé stesso» [*4].
Ma, diversamente, in quale altro modo si potrebbe introdurre chiarezza nell'«opacità dell'oggettività alienata»? In tal senso, il ricorso alla psicoanalisi ha costituito un tentativo promettente, perché era legato alla speranza che «l'insistenza su un elemento particolare e dissociato, ne facesse esplodere il suo carattere monadologico, e scorgesse, nel suo nucleo, l'universale» [5].
Il fatto che questa aspettativa non possa essere realmente soddisfatta, è in parte dovuto soprattutto alla lettura che Adorno stesso fa della psicoanalisi. Nonostante il suo giudizio negativo su una «psicoanalisi riveduta» [*6] che secondo Freud tradisce la ragione (J. Lacan), è egli stesso a prendere troppo alla lettera la teoria dell'istanza freudiana; e la sua concezione della psicoanalisi rimane ancora legata all'individuo psicologico, visto nella critica globale - che egli ne fa - della psicologia psicoanalitica dell'Io. A partire da questo, quindi, il ricorso alla psicoanalisi - che ne fa Adorno - non raggiunge il "nocciolo", cioè il concetto di soggetto dell'inconscio, un concetto che tuttavia sconvolge, come nessun altro, la relazione tra l'universale e il particolare. Adorno non se la cava molto meglio neppure sull'altro lato, vale a dire, sul lato della sua lettura di Marx, dal momento che non comprende veramente il nucleo enigmatico dell'universale all'interno del particolare. Ed è ancora meno in grado di illuminare l'oggettività alienata in questione, visto che la sua analisi della scissione categoriale si impantana a metà strada: ciò perché, se si critica la «tendenza a priori alla distruzione, e alla dissoluzione di tutto il mondo sensibile nell'astrazione reale», allo stesso tempo viene criticata anche «la costituzione di questa forma che continua a essere considerata come se costituisse l'emergenza originale e propria dell'emancipazione» [*7].

Il tentativo, da parte della teoria critica, di mettere in relazione le categorie della critica dell'economia marxiana con quelle della critica freudiana della coscienza, alla fine è rimasto solo una «emulsione teorica» [*8], secondo Robert Kurz, proprio a causa di questa aporia - dal momento che, in questo modo, la critica non arriva alla «forma soggetto», la quale sottende l'oggettività alienata.
Da parte sua, Robert Kurz lo ha fatto commentando il concetto di «pseudo-attività» (Adorno) e ha tentato di mostrare come la critica di Adorno nei confronti delle pretese tronche della prassi sia essa stessa basata, a sua volta, su una lettura tronca di Marx. Adorno ha certamente insistito senza alcuna ambiguità sul fatto che l'undicesima tesi di Feuerbach di Marx non debba essere intesa nel senso di una «sussunzione della teoria critica alle implicite esigenze relative all'azione, al punto che la teoria critica deve essere vincolata» [*9]. Adorno rifiuta quindi l'affermazione di un'unità immediata costante di teoria e prassi nel marxismo. Tuttavia, non ha problematizzato il fatto che «la separazione tra riflessione teorica e azione pratica, criticata secondo un'interpretazione molto condivisa delle Tesi su Feuerbach, è una separazione niente affatto assoluta ed esterna, ma, al contrario, è paradossalmente integrata nel processo pratico totalizzante del "soggetto automatico", e nella dissociazione sessuale ad esso legata» [*10]. Ed è precisamente a questo punto - laddove Robert Kurz legge Adorno con Marx contro Adorno - che il termine di nuovo provincialismo incontra la vecchia critica delle esigenze tronche della pratica: che si situa dove si può, allo stesso tempo, toccare il motivo per cui il concetto di «pratica teorica» di Adorno, formulato nel senso di questa critica, doveva alla fine rimanere lettera morta.

Poiché anche se la teorizzazione è essa stessa un momento della pratica sociale sotto il capitalismo, ciò non si traduce nell'unità di teoria e pratica, ma piuttosto in «una relazione tra "pratica pratica" e "pratica teorica", le quali sono strutturalmente separate l'una dall'altra». Ne consegue che il concetto di Adorno può limitarsi solo a uno dei due lati, cioè: può solo affettare una delle due metà, e quindi non potrà essere in grado di scoprire la relazione categoriale centrale.
Qualsiasi tentativo di rispondere alla domanda su come sia stato possibile che oggi «la critica si sia ripiegata su un simile modello semplice e virtuoso del rapporto di scambio, per il quale un'opinione vale l'altra: l'idea dell'equivalente generale» [*11], deve necessariamente porsi anche la domanda sul perché nemmeno Adorno sia riuscito a fare il passo decisivo, già allora, - vale a dire: a partire dalla sua critica, attuare la rottura con le condizioni stesse nelle quali «la riflessione (teorica) appare necessariamente come subordinata alla "pratica pratica" e, in quanto tale, separata da essa» [*12]. La proposizione secondo la quale «la pratica può essere "vera" solo nella misura in cui essa mira alla rivoluzione del modo di socializzazione negativo e distruttore del capitalismo» [*13] attende perciò la sua realizzazione, che non avverrà fino al momento in cui la critica categoriale della forma della teoria moderna - la quale può essere sempre e solo «un'interpretazione del rapporto sociale ontologicamente presupposto» [*14] - non verrà spinta fino alla sua conclusione.

- Frank Grohmann, 22/02/2022. Pubblicato su GRUNDRISSE Psychanalyse et capitalisme -

NOTE:

[1*] - "Editorial", Cured Quail, Volume II, 2020, p. 3.
[*2] -Theodor W. Adorno, "Sul rapporto tra psicologia e sociologia", in Société : Intégration, désintégration, Paris, Payot, 2011, [1955], p. 315.
[*3] - Ivi, p. 316.
[*4] -Ivi, p. 323.
[*5] - Ivi, p. 325. Adorno aggiunge: «piuttosto che aspettare che la sintesi concettuale di ciò che si è effettivamente disintegrato metta fine alla disintegrazione».
[*6] - Theodor W. Adorno, Psicoanalisi rivista, Parigi, Éditions de l'Olivier, 2007 [1962].
[*7] - R. Kurz (2005), "Tabula rasa. Fin dove può e deve arrivare la critica dei Lumières?", in: R. Kurz, La ragione sanguinaria. Saggi per una critica emancipatrice della modernità capitalista e dell'illuminismo borghese, Crise & Critique, 2021, p. 217.
[*8] - "Exkurs II: Die psychoanalytische Dimension in der Warenformkritik", in: R. Kurz (1992), "Geschlechtsfetischismus. Anmerkungen zur Logik von Weiblichkeit und Männlichkeit", Krisis, 12, 1992.
[*9] - Robert Kurz, "Grau ist des Lebens Goldner Baum und grün die Theorie. Das Praxis-Problem als Evergreen verkürzter Kapitalismuskritik und die Geschichte der Linken", Exit! - Krise und Kritik der Warengesellschaft, 4, Horlemann, Bad Honnef, 2007, p. 20.
[*10] - Ivi, p. 23.
[*11] - "Editoriale", Cured Quail, Volume I.
[*12] - Robert Kurz, "Grau ist des Lebens Goldner Baum und grün die Theorie", op. cit, p. 25.
[*13] - Ivi, p. 21.
[*14] - Ivi, p. 27.

mercoledì 23 febbraio 2022

Differenze …

Cinema: l'orrore come poesia e anestesia
- di José Geraldo Couto -

Nightmare Alley [La fiera delle Illusioni] di Guillermo del Toro, che quest’anno concorre all'Oscar come miglior film, è un curioso caso di riciclaggio tardivo del genere noir, così come lo sono stati, a suo tempo, Chinatown (Roman Polanski, 1974), Brivido Caldo (Lawrence Kasdan, 1981) e persino Blade Runner (Ridley Scott, 1982). Si tratta, infatti, di un remake del classico "Nightmare Alley", diretto nel 1947 da Edmund Goulding e interpretato da Tyrone Power. Il film di Del Toro è oggi nei cinema, mentre quello di Goulding è appena entrato nella piattaforme di streaming ed è anche disponibile su Youtube. Potrebbe essere interessante confrontare le due versioni, non come giudizio di valore (tipo, «questo è meglio di quello»), ma piuttosto per osservare le differenze tra due epoche, due cinema, due mondi, oltre, naturalmente, alle differenze di stile e di temperamento dei due registi.

Racconto morale
In entrambi i casi la storia - tratta dal romanzo Nightmare Alley (1946) di William Lindsay Gresham [Sellerio] -  è fondamentalmente la stessa: un giovane povero e ambizioso, Stanton Carlisle, viene assunto come tuttofare in un parco divertimenti itinerante, dove impara a fare un numero di telepatia ("mentalismo", nel linguaggio dell'epoca), per poi lanciarsi in una carriera di successo per conto suo, in partneriato con la sua dolce compagna Molly. Nel film originale, Stanton è interpretato da Tyrone Power; nel remake, da Bradley Cooper. Coleen Gray è Molly nel film del 1947, un ruolo che nella versione di Guillermo del Toro viene assunto da Rooney Mara. In entrambi i film, il dramma si approfondisce nel momento in cui Stanton, nelle sue performance, oltrepassa il confine esistente tra telepatia (il "mentalismo") e la medianità (lo "spiritualismo"), cosa che Molly considera una grave trasgressione etica, un crimine di ciarlataneria. In entrambi i casi, abbiamo a che fare con un racconto morale, una parabola sull'ambizione e sulla mancanza di scrupoli, un vizio analogo a quello dell'alcolismo, visto a partire dai suoi deleteri effetti sulla condotta umana. Il film del 1947 è più snello, più condensato; 40 minuti più corto di quello nuovo.
La prima cosa da esaminare, quindi, è che cosa Guillermo del Toro abbia aggiunto nella sua versione. Ci sono state diverse aggiunte. Forse il più importante di questi è il background del protagonista. Nel film di Goulding, Stanton Carlisle arriva dal nulla e non si sa nulla della sua vita precedente. Quello del 2021, invece inizia già mettendo in scena un avvenimento emblematico della sua biografia, al quale la narrazione poi tornerà di tanto in tanto. Ciò che è stato aggiunto, è una dimensione psicoanalitica, esplicativa del comportamento del personaggio. Oltre a questo, vediamo tutta una serie di personaggi, e di episodi, che sono assenti nell'originale, insieme a descrizioni più dettagliate della vita al Luna Park e nella metropoli, così come assistiamo anche all'introduzione di quello che è il contesto storico (l'invasione della Polonia da parte di Hitler, la seconda guerra mondiale, il governo Roosevelt), che nella prima versione è del tutto assente. Nel film di Del Toro, tutto è più esplicito  soprattutto l'erotismo e la violenza. Nella versione di Goulding, il geek (l'uomo-bestia che divora polli vivi) aveva una grande importanza, soprattutto simbolica, ma che noi non vedevamo sullo schermo. Nel film del 2021 appare in tutto il suo orrore, così come appaiono i feti umani e gli animali deformi. Il cambiamento sembra voler quasi dire che, proprio come il pubblico della fiera delle attrazioni di una volta, anche il pubblico del cinema di oggi si aspetta di venire scioccato a livello sensoriale. Come se volessero vedere "tutto", senza dover immaginare nulla. Il sensazionalismo del circo degli orrori contamina così l'esperienza cinematografica. Il cinema - vale la pena ricordare - ha avuto iniziato proponendosi come l'attrazione di una fiera a buon mercato.

Ostentatamente Noir
Ma forse, in questo confronto tra le due messinscena della medesima storia, la cosa più curiosa è nel constatare come la versione recente sia più ostentatamente noir dell'originale, vale a dire, i segni e le figure stilistiche più caratteristici del genere sono molto più presenti nel film di Del Toro: riprese prevalentemente notturne in controluce, con una illuminazione espressionista, abuso di inquadrature oblique, contrasto tra ambienti esageratamente lussuosi rispetto ad altri esageratamente sordidi, un protagonista freddo che cammina si muove lungo il confine di una frontiera morale, ecc. Nel ruolo della viperina psicologa Lilith Ritter, vediamo una scatenata Cate Blanchett  che interpreta una femme fatale da almanacco, quasi un clone di Veronica Lake, in contrasto con la più discreta Helen Walker, che era la sua controparte nella versione originale. Guillermo del Toro, abituato com'è a vagare con disinvoltura nel fantastico (Cronos, Il labirinto del fauno, La forma dell'acqua), si addentra qui in un terreno rigorosamente "realistico"; nel senso che non ricorre mai al soprannaturale (anzi, al contrario, il film, in un certo senso, costituisce una critica all'illusione del soprannaturale, una denuncia della manipolazione della fede nell'al di là). Nel cambiare genere e terreno, il regista messicano sembra aver adottato un approccio apparentemente contraddittorio: un realismo brutale combinato con una ostentata stilizzazione. Non a caso, Nightmare Alley è in gara anche per gli Oscar per la cinematografia, alla direzione artistica e ai costumi. Se nell'immediato dopoguerra, il film di Goulding scommetteva ancora su una certa discrezione e si affidava all'immaginazione dello spettatore, Del Toro preferisce invece abbagliarlo con uno stile visivo spinto all'estremo, nel mentre che simultaneamente lo rassicura spiegandogli tutto nei dettagli, senza altresì lasciare nulla all'ombra dell'ambiguità. Investe in tal modo sulla passività di un pubblico saturo di immagini di ogni tipo. Può anche non essere ciarlataneria, ma si tratta comunque di una forma di illusionismo.

- José Geraldo Couto - Pubblicato il 17/2/2022 su OutrasPalavras -

martedì 22 febbraio 2022

Il denaro è tempo futuro, e viceversa !!

Nonostante tutti gli orologi che ci danno l’illusione di una sua misurazione oggettiva, il tempo è qualcosa di molto diverso nella nostra esperienza personale: rigorosamente strutturato nella musica, illimitato e piacevole quando siamo nel cosiddetto “tempo libero”. Quando siamo annoiati o preoccupati, il tempo sembra lentissimo; quando siamo rapiti nella contemplazione, assorbiti da un compito, persi nell’amore o liberi di giocare, sembra che voli o si fermi.
Ancora diversa è la nostra percezione del tempo quando lo si collega al vortice delle interazioni sociali, al mondo in continua accelerazione degli affari e dei media, quando leggiamo un libro o quando possiamo comunicare o diffondere un messaggio in ogni continente. Poi all’improvviso arriva un giorno in cui il trascorrere del tempo è l’unico nostro pensiero…
Rüdiger Safranski ci conduce con competenza e maestria nei mille volti del tempo muovendosi tra pensatori, filosofi, scienziati, scrittori e fornendo spunti e riflessioni per trattare con cura questa merce preziosissima.

(dal risvolto di copertina di: Rüdiger Safranski, "Il tempo. Che cos’è e come lo viviamo". Keller, pagg. 216, euro 18)

Vedi alla voce tempo
- Perduto, ritrovato, frammentato, relativo. Rüdiger Safranski riflette sul concetto che più di tutti sfugge all’essere umano -
di Marco Belpoliti

Italo Calvino ha scritto una volta che la cosa che ci sembra più scarseggiare, e di cui siamo ovviamente avari, è il tempo. Correvano gli anni Ottanta del XX secolo e oggi le cose sembrano messe anche peggio. Come ci avverte in un libro molto acuto, Il tempo, Rüdiger Safranski, saggista tedesco, viviamo in un regime temporale molto rigido: orari di lavoro, tempo libero, frequenza della scuola, corsi di formazione, eccetera. Neppure la pandemia ha incrinato questo regime, anzi, per alcuni aspetti, salvo forse il tempo del lockdown, l’ha persino irrigidito. Ora gli obblighi sanitari istituiti dal Covid regolano in modo molto più preciso il nostro tempo: quello che possiamo e quello che non possiamo più fare. Il tempo ha preso ad accelerare e insieme a rallentare, così sperimentiamo due regimi differenti del tempo, qualcosa che ci ha resi ancora più schizofrenici rispetto a ciò che facciamo ogni giorno. Ora, come ci avverte la frase di copertina, tratta da Der Spiegel, il tempo è un labirinto ed è questa la sensazione che si ha comunemente quando si pensa al tempo che stiamo passando in queste settimane.  Mentre ci barcameniamo con il contagio, da qualche parte i computer lavorano per guadagnare tempo, per arrivare in anticipo con le nuove produzioni ed essere sempre più rapidi a sfruttare le innovazioni. Nel capitolo sul “tempo regolamentato” l’autore ci spiega, senza saperlo, in cosa consista il “Piano nazionale di ripresa e resilienza”: viviamo nell’epoca del credito facile, poiché la produzione del valore si è spostata dal passato al futuro. «Consuma adesso e paga dopo», sembra lo slogan più adatto a definire il nostro tempo, in cui il pagamento del debito sembra spostato così avanti che non sono ancora nati coloro che lo pagheranno. Il tempo è anche questo.

Nel tempo privo di eventi dei mesi di lockdown abbiamo sperimentato la noia, cui Safranski dedica il primo fulminante capitolo: «più gli eventi si assottigliano più il tempo si fa evidente». Il pensatore che ha sviscerato meglio la noia è Martin Heiddeger, che ha chiarito che il tempo non è solo un mezzo in cui ci si muove, ma noi umani ne siamo anche i coproduttori. E poiché ogni agire è connesso alle conseguenze imprevedibili, che si mostreranno solo col trascorrere del tempo, la seconda figura dopo la noia è la preoccupazione: un tempo aperto e quindi temibile. L’età moderna, ha scritto Ulrich Beck, reca con sé un nuovo motivo di inquietudine: il rischio. Anche questo lo abbiamo sperimentato col Covid 19. Non solo il rischio, ma anche la cura contro il rischio. Con che effetti? Il progresso tecnico-sociale accresce l’influenza umana sul futuro, e dunque cosa ne sarà delle generazioni future e del Pianeta? Cos’è in definitiva il tempo? Un prodotto sociale, si dovrebbe rispondere. I nostri orologi lo certificano, ma già Aristotele l’aveva compreso: «il tempo è questo: il numero del cambiamento secondo il prima e il poi» (Fisica). E non c’è solo l’orologio a determinarlo, ma anche il denaro: «un mezzo della dilatazione temporale del consumo immediato». Gli economisti lo sanno bene: il denaro è tempo futuro, dal momento che non solo il tempo è denaro, ma ora prima di tutto il contrario. Più si avanza nella lettura del libro di Safranski più s’aprono sentieri che ci offrono soluzioni differenti nel nostro cammino per uscire dal labirinto medesimo. Quale imboccare?

Einstein ha alimentato la nostra immaginazione facendoci capire con le sue teorie della relatività che il tempo non è più un medium omogeneo, ponendosi il problema della simultaneità: il tempo scorre in modo differente nell’universo e nessuno può esperire la sincronizzazione di questi tempi lontani nello spazio stellare. Il fascino e il successo di un libro come quello di Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, va interpretato come il bisogno di una guida nel labirinto del tempo, così come la fisica quantistica non è più solo roba da scienziati, ma un modo per evadere con la mente e l’immaginazione da una costrizione temporale sempre più fitta e stringente. Come ha scritto acutamente Alexander Kluge, regista e saggista, viviamo sotto «l’attacco del presente al resto del tempo», una cosa che sparge a piene mani ansia. Eppure in uno degli aforismi di quel libro talmudico suo malgrado che è il Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, c’è scritto: «Se, per eternità, si intende non infinita durata del tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente». Cosà avrà voluto dire quel genio intrattabile del filosofo austriaco? Che dobbiamo vivere nel presente? Safranski, acuto studioso dei filosofi tedeschi, ci spiega che il presente non è la cruna dell’ago temporale attraverso cui viene fatto passare il tempo, ma piuttosto ciò che persiste per eccellenza. Schopenhauer ha usato una efficace definizione: il tempo è il verticale che taglia la linea orizzontale del tempo. Mentre il mondo antico immaginava l’eternità opposta al tempo come atemporalità, esistono tuttavia anche attimi che fendono verticalmente il tempo e l’attualizzano nel presente. Sono quelli della felicità, che si sperimenta nell’arte, nella poesia e soprattutto nell’amore. Lì ci dimentichiamo di noi stessi, delle nostre preoccupazioni, degli interessi materiali, dei crucci e dei doveri. Lì il tempo non esiste più. Chi non ha mai sperimentato questo tempo è senza dubbio il più infelice degli umani.

- di Marco Belpoliti - Pubblicato su Robinson del 22/1/2022 -

lunedì 21 febbraio 2022

Situazioni

È stato in quel preciso incredibile momento in cui si dà inizio all'attacco contro l'ordine del mondo. Prima in maniera quasi impercettibile, poi, via via, si comincia a essere consapevoli che ben presto, qualsiasi cosa succeda, niente potrà più essere come prima. Ci si mette in marcia, quasi lentamente, poi senza accorgersene si comincia ad accelerare il passo, fino a oltrepassare il punto preciso a partire dal quale si sarebbe potuto ancora tornare indietro. Da quel momento in poi, irrevocabilmente, bisognerà cominciare ad attaccare anche quello che il giorno prima sembrava ancora inattaccabile. Tutto ciò che sembrava troppo solido e ben difeso, ma che ora si vede benissimo come fosse già destinato a essere fatto a pezzi, e distrutto. È questo ciò che abbiamo fatto nel momento in cui siamo usciti nella notte, e ci siamo incamminati, avanzando sotto il fuoco del tempo.

Falsari e/o imbroglioni ?!?

Arriva un altro Marx: caccia al tesoro a Berlino
- di Marcello Musto -

Dalla nuova edizione delle sue opere, emerge un autore misconosciuto e di enorme attualità per la critica del presente. Contrariamente alle previsioni che ne avevano decretato in maniera definitiva l'oblio, Karl Marx è ritornato, durante gli ultimi anni, all'attenzione degli studiosi internazionali. La sua persistente capacità esplicativa del mondo di oggi ne ripropone il valore del pensiero, e sugli scaffali delle biblioteche di Europa, Stati Uniti e Giappone, i suoi scritti vengono rispolverati sempre più frequentemente. L'esempio più significativo di questa riscoperta è la ripresa della pubblicazione delle sue opere. Infatti, nonostante l'enorme diffusione che le teorie di Marx hanno avuto durante il Novecento, egli rimane, ancora oggi, privo di un'edizione integrale e scientifica dei propri scritti. Tra tutti i più grandi pensatori dell'umanità, questa sorte è toccata esclusivamente a lui. Per comprendere come ciò sia potuto accadere, occorre considerare le svariate vicende del movimento operaio che, troppo spesso, hanno ostacolato, anziché favorito, la stampa dei suoi testi.

Dopo la morte di Marx ed Engels, i conflitti all'interno del Partito Socialdemocratico Tedesco fecero sì che l'eredità letteraria dei due autori fosse trattata con la massima negligenza. Il primo tentativo di pubblicare le loro opere complete, la Marx-Engels-Gesamtausgabe (Mega), avvenne solo a partire dagli anni Venti, e in Unione Sovietica. Tuttavia, le epurazioni staliniane dei primi anni Trenta, che colpirono anche i principali studiosi impegnati nell''impresa, e l'avvento del nazismo in Germania interruppero bruscamente questa edizione. Il successivo tentativo di riprodurre tuti gli scritti dei due pensatori, la cosiddetta Mega2, venne avviato soltanto nel 1975, ma fu anch’esso sospeso, stavolta in seguito al crollo del paesi socialisti. Così, nel 1990, con lo scopo di completare questa edizione, è nata la Fondazione Internazionale Marx Engels (IMES), che raggruppa studiosi di tre continenti. Il suo progetto è di enorme importanza, se si considera che una parte consistente dei manoscritti marxiani resta ancora inedita e che questo lavoro ciclopico costituisce la base per nuove traduzioni degli scritti di Marx ed Engels in tutte le lingue. Tale progetto, comprende quattro sezioni che dovranno, rispettivamente, dare alle stampe: tutte le loro opere, la loro corrispondenza, Il Capitale e i suoi tanti manoscritti preparatori, gli oltre duecento quaderni di appunti (in ben otto lingue) relativi alle più svariate discipline, che costituiscono il cantiere della elaborazione di Marx. Fino a oggi, dei 114 volumi previsti ne sono stati pubblicati 53 (ben 13 dopo la ripresa della pubblicazione cominciata nel 1998), ognuno dei quali consta di due voluminosi tomi: il testo e l'apparato critico (dettagliate  informazioni su questo, possono essere trovate su www.bbaw.de/vs/mega ).

Resta dunque da chiedersi: quale Marx emerge dalla nuova edizione storico-critica? Decisamente un Marx diverso da quello spacciato, per lungo tempo, dai molti seguaci e avversari. Per quanto paradossale possa apparire, Karl Marx è un autore misconosciuto. La sistematizzazione della sua teoria critica operata dagli epigoni, l'impoverimento teorico che ha accompagnato la divulgazione, la manipolazione e la censura dei suoi scritti insieme al loro utilizzo strumentale in funzione delle necessità politiche, lo hanno reso vittima di una profonda e reiterata incomprensione. La riscoperta della sua opera mostra la diversità tra Marx e il «marxismo», tra la ricchezza di un orizzonte problematico e polimorfo, tutto ancora da esplorare, e la dottrina che ne ha alterato la concezione originaria, sino a divenirne la sua manifesta negazione. Così, al profilo granitico della statua che, in tante piazze dei regimi illibertari dell'Est europeo, lo raffigurava indicare l'avvenire con certezza dogmatica, si sostituisce quello di un autore che lasciò incompleta la gran parte dei suoi scritti per dedicarsi, fino alla morte, a ulteriori studi che verificassero la validità delle proprie tesi. Due soli esempi: il carattere frammentario al quale è stata restituita, nella sua ultima edizione, L'Ideologia tedesca, rende evidente la falsificazione interpretativa, da parte «marxista-leninista», che aveva tramutato questi manoscritti nell'esposizione esaustiva del «materialismo storico» (espressione, per altro, mai utilizzata da Marx). Ben lungi dal poter essere rinchiusa in epitaffi, la concezione marxiana della storia va ripercorsa nella totalità della sua opera. Il secondo e il terzo Libro de Il Capitale, dati alle stampe portando alla luce gli oltre 5.000 interventi redazionali compiuti da Engels come editore, mostrano come essi non contenessero affatto una teoria economica conclusa, ma fossero, in buona parte, appunti provvisori destinati a successive elaborazioni: l'imminente completamento della pubblicazione di tutti gli originali lasciati da Marx ne consentirà, finalmente, una valutazione certa. Ciò che, invece, è certo sin d'ora è il valore delle sue incessanti fatiche intellettuali che, anche se incompiute, rimangono geniali e feconde di penetranti interpretazioni del mondo contemporaneo.

Davanti alle contraddizioni e alla crisi della società capitalistica si ritorna, dunque, a interrogare quel Marx messo da parte, troppo frettolosamente, dopo il 1989. Sgomberato il terreno dei sedicenti proprietari del suo pensiero, l'auspicio è che a rispondere, questa volta, ci sarà lui per davvero.

- Marcello Musto - Pubblicato il 31 marzo 2007 su L'Unità, nella sezione "Cultura" -

domenica 20 febbraio 2022

All’indice, all’indice

Più di 2300 anni fa veniva edificata la biblioteca di Alessandria, pronta a raccogliere in un unico luogo migliaia di papiri. Questa concentrazione mai vista prima di opere pose dei problemi pratici: come orientarsi tra file e file di rotoli all’apparenza tutti uguali senza doverli srotolare uno per uno? Come dividerli tra gli scaffali, come raggrupparli? Fu il poeta Callimaco a trovare una soluzione semplice ma geniale: catalogare alfabeticamente le casse contenenti i rotoli e stilare a parte un volume che raccogliesse l’elenco delle opere presenti nella biblioteca. Man mano che la produzione di testi scritti aumentava, il libro stesso iniziò a cambiare, per rispondere alla domanda che tormentava già Callimaco: com’è possibile trarre velocemente un’informazione in questa selva di pagine? I libri iniziarono così a essere divisi in capitoli che scandivano i temi tenendo conto del tempo effettivo di una singola sessione di lettura, mentre la divisione dei paragrafi sorse insieme alle prime università, per fornire agli studenti una scansione visiva più rapida ed efficace. A partire dalle concordanze delle bibbie medievali, questo inesausto processo di affinamento tecnologico del libro si raddensò intorno a uno strumento oggi spesso sottovalutato, nascosto com’è nelle ultime pagine di ogni volume: l’indice analitico. Pochi lo sanno, infatti, ma è per rendere efficienti gli indici che sono nati i moderni numeri di pagina. E questa centralità segreta dell’indice nell’ecosistema del sapere arriva fino a oggi: ogni volta che sfruttiamo la barra di ricerca di Google stiamo solo accedendo a una forma avanzatissima di indice analitico, non poi troppo diverso da quelli che con l’invenzione della stampa presero a corredare la moltitudine di copie che affollavano le biblioteche del mondo. Dennis Duncan ci racconta per la prima volta l’avventurosa storia dell’indice analitico, di come abbia salvato eretici dai roghi, influenzato la politica e provocato risse tra scrittori. Scopriremo un regno di improbabile ossessione e piacere che accomunò nei secoli tipografi tedeschi e monaci medievali, Virginia Woolf e Vladimir Nabokov, filosofi illuministi e ingegneri informatici della Silicon Valley. Perché Indice, Storia dell’ è in fin dei conti la storia di come abbiamo imparato con fatica e ostinazione a rendere leggibile il grande e vitale caos di conoscenza che ogni giorno produciamo.

(dal risvolto di copertina di: Dennis Duncan, "Storia dell’Indice. Dai manoscritti a Google", Utet, pagg. 336, euro 28)

Anatomia dei libri
- Dennis Duncan traccia una storia degli indici analitici dal Medioevo a Google. Tra letteratura e folli esperimenti -
di Alberto Manguel

Jean Cocteau definì il romanzo un dizionario in disordine. Avrebbe potuto mettere “indice analitico” al posto di “dizionario” e si sarebbe avvicinato di più alla verità. L’indice è scevro delle pretese magniloquenti del dizionario: non mira a definire, solo a elencare. Come un lettore maniaco della precisione, l’indicizzatore si propone di mettere in ordine (di solito alfabetico) le parole più importanti usate in un libro, indicando al contempo la pagina in cui ciascuna appare e, spesso, il contesto. All’interno del testo le parole ricorrenti compaiono ogni volta identiche; nell’indice assumono vari toni e sottotoni, gradienti di importanza e suscitano fulminee associazioni. “Napoleone” in un manuale di storia è solo un personaggio; nell’indice analitico è Napoleone, imperatore, 214; Napoleone, madre, 24; Napoleone, campagna d’Egitto, 87; Napoleone, Sant’Elena, 258... e così via. L’indicizzatore è un lettore puntiglioso che finalmente riceve il meritato omaggio in questo libro dotto e arguto opera di Dennis Duncan, docente della UCL di Londra. «In italiano – spiega la traduttrice Clara Baffa – si usa comunemente il termine “indice” per indicare il sommario (in inglese: table of contents), anche se negli ambiti più tecnici il termine viene usato esclusivamente per gli indici di tipo analitico (in inglese, appunto: index). Rifacendomi a questo uso, e per non appesantire la lettura, nella traduzione userò in genere “indice” nel senso di “indice analitico”».

Il dizionario definisce l’indice analitico «elenco in ordine alfabetico delle persone, degli argomenti, dei luoghi o dei fatti notevoli presenti in un libro con il numero della pagina in cui sono citati», ma il termine indice ha subito contaminazioni riferite alla censura ufficiale (l’Index Librorum Prohibitorum della Chiesa di Roma soppresso nel 1966) e alla borsa (l’indice Dow Jones e i suoi fratelli usurai). Nel migliore dei casi l’indice rivela i meccanismi interni di un testo, gli astri che compongono la sua costellazione, consentendoci la visione degli universi testuali attraverso ogni suo punto illuminante. Nel peggiore riduce il libro in frammenti scollegati, schegge dell’originale infranto. Jonathan Swift, citato da Dennis Duncan, paragona i lettori che partono dall’indice per esplorare il libro a viaggiatori che entrano in un palazzo dal gabinetto. Ma grazie all’indice i lettori diligenti e seri possono localizzare le aree di esplorazione di proprio interesse, riuscendo a orientarsi nell’intricata giungla di libri come Anatomia della malinconia di Burton o I commentari di Piccolomini; i lettori pigri e maliziosi possono puntare la lente su Pratiche sessuali, malinconia come esito di. Duncan propone una vivace e creativa cronistoria dell’indice nelle sue molteplici incarnazioni: indici biblici, cataloghi dei soggetti in ordine alfabetico, elenchi dei personaggi e dei luoghi nella narrativa, temi specifici in opere poetiche e teatrali, come le emozioni dei personaggi di Omero e Shakespeare. Tutto ciò rientra nella categoria dell’indice analitico di cui Duncan attribuisce l’origine alla crescente esigenza nei monasteri e nelle università medievali di metodi nuovi e più scientifici di lettura, «di usare i libri», dice, «per veicolare i rispettivi mezzi di espressione orale: la lezione e il sermone». E Duncan propone due possibili “padri dell’indice”, entrambi del tredicesimo secolo: Robert Grosseteste e Hughes de Saint-Cher che crearono sistemi di accesso alle arterie interne al testo simili all’indice analitico. Tra i moderni utilizzi letterari dell’indice, Duncan indica il classico esempio di Fuoco pallido di Vladimir Nabokov. Il romanzo è costituito da un poema di 999 versi intitolato Fuoco pallido scritto dal poeta John Shade con prefazioni, note e indice ad opera del suo collega Charles Kinbote (entrambi i personaggi sono immaginari). L’indice di Kinbote è in sé un’opera di narrativa destrutturata che consente al lettore di scoprire, ad esempio, «il fatto che la z di Zembla venga dopo tutte le altre lettere, a portarci a questo punto, una voce senza ne, una meditazione sulla nostalgia e sulla follia dell’esilio».

Duncan cita altri esempi, ma nessuno di quelli recenti, interessantissimi, cita l’esperimento Oulipo ad opera dell’autore francese Ambroise Perrin che nel 2012 ha cercato di mettere Madame Bovary dans l’ordre. Il libro di Perrin è, nella sua interezza, un indice. Elenca in ordine alfabetico e lungo sei colonne verticali in ogni pagina, ogni singola parola, numero e segno di interpunzione che appare nell’edizione Charpentier del 1873 del romanzo di Flaubert. Et ad esempio ricorre 2812 volte occupando quasi nove pagine intere. La compare 3585 volte, le 2366 e les 2276, elle 2129 e lui solo 806, il che consente al lettore malizioso sopracitato di dedurre da quale punto di vista il romanzo tratta il tema del sesso.
Duncan conclude con confortante ottimismo: «Guardando al futuro, constatiamo che il libro, il buon vecchio libro di carta e inchiostro, con le sue pagine impossibili da spostare e la sua rilegatura, si è dimostrato resistente agli attacchi del suo erede digitale. Almeno per il momento», auspica Duncan, «mantiene il suo ruolo di simbolo dominante delle nostre imprese intellettuali, in bella mostra sui nostri scaffali e sugli stemmi delle grandi università. E finché ci muoveremo nel territorio della carta stampata, l’indice, figlio dell’ingegno ma antico quanto quelle università, continuerà a farci da bussola».
 
- Alberto Manguel - Pubblicato su Robinson del 22/1/2022  - Traduzione di Emilia Benghi -

Il disarmo della teoria

La fine della teoria: verso una società senza riflessione
- di Robert Kurz -

Non è affatto scontato che una società rifletta «su» sé stessa. Una cosa del genere si rende possibile solo se una società è in grado di confrontarsi criticamente con altre società, tanto nella storia quanto nel presente; ma soprattutto se si vive in condizioni in cui una società, che diviene in qualche modo problematica a partire dall'interno, risolve una contraddizione con sé stessa, superandosi nella sua struttura e nel proprio sviluppo. Di certo, non è così per tutte le società premoderne. Tali società non erano ancora globali, non avevano una coscienza storica e non vedevano la storia come se fosse una sequenza di processi di sviluppo e di formazioni socio-economiche. Oltretutto, non erano in conflitto con sé stesse, con quella che era la propria forma. Una dinastia poteva rimpiazzarne un'altra, ma la forma sociale, in quanto tale, non poteva essere messa in discussione; per fare questo, non esistevano criteri. Società del genere potevano riprodursi lungo periodi di tempo incredibilmente lunghi (diversi millenni, nel caso dell'antico Egitto) senza collassare di propria iniziativa, dall'interno; la loro scomparsa era pertanto dovuta principalmente a delle cause esterne.
In quelle condizioni, la società appariva sempre come la «società e basta», e non come una forma specifica che avrebbe potuto essere qualsiasi altra cosa. E anche quando - relativamente tardi nell'antichità - si cominciò a parlare delle differenti «forme di governo» (monarchia, oligarchia, democrazia, tirannia), tale diversificazione continuò a rimanere del tutto estranea al corpo socio-economico; non si presentava quindi come se fosse una storia lineare di quella che era l'evoluzione della società stessa, bensì come un ciclo eterno di forme di governo meramente esteriori, e sempre diverse. La stessa cosa, vale per l'idea dello «Stato ideale» (Platone), il quale non rappresentava altro che una forma idealizzata della società già esistente, concepita come insuperabile. Tuttavia, rispetto a sé stesse, queste civiltà agrarie premoderne non si auto-confondevano ciecamente, scambiandosi per il proprio «funzionamento»; ma producevano un riflessione che andava ben al di là della loro esistenza immediata. Questa riflessione, però, non era una «critica sociale», ma una riflessione «direttamente su Dio», ovvero sul mondo nel suo insieme, sulla posizione dell'uomo nel cosmo, sull'enigma della morte. Pertanto, si trattava necessariamente di una riflessione che veniva svolta in forma e contenuto religioso. Questa maniera di pensare «su» sé stessi, e allo stesso tempo come un modo di pensare l'uomo e la sua società non in relazione a sé stessi, bensì in relazione a Dio e al cosmo, rimaneva tuttavia integrato nella struttura socio-economica che veniva presupposta senza critiche. E ciò perché, malgrado ogni assenza di interrogazione, nella sua cieca positività, questa struttura non era «muta», ma legittimata abbastanza riflessivamente; solo che essa non era un oggetto in sé, ma piuttosto una componente secondaria dell'ordine divino. In tal modo, la riflessione religiosa, la conoscenza naturale e le condizioni socio-economiche formavano un'unità immediata, che veniva rappresentata e riprodotta in delle forme ritualizzate di pensiero, attraverso attività e relazioni sociali. Ecco perché, nei tempi più antichi, l'intelligenza funzionale e quella riflessiva (o, se vogliamo, da un punto di vista sociologico, le élite funzionali e riflessive) erano direttamente identiche (Re - Dèi, Governanti - Sacerdoti). Sarà solo molto più tardi che la funzione e la riflessione verranno differenziate in sfere distinte e separate. In tal modo, vennero gettati i semi di un conflitto, che all'inizio si espressero solo in maniera sporadica (per esempio nella  medievale «disputa delle investiture» tra l'imperatore e il papa), senza però andare oltre la lotta per la competenza superiore in seno a un ordine che veniva presupposto come comune.

Nella misura in cui, in queste società, il pensiero riflessivo si distaccava dalla rigida ritualizzazione religiosa, come avveniva nella filosofia antica e medievale, ecco che esso veniva rivolto, o direttamente alla natura (infatti, la scienza naturale era originariamente parte integrante della filosofia), o all'uomo in quanto essere pressoché «naturale». Dal momento che la forma e l'ordine sociale, in quanto tali non potevano essere messi in discussione, la riflessione «su» l'uomo sociale veniva a essere, in linea di principio, limitata a due temi. In primo luogo, l'«etica», la dottrina delle «virtù» e del comportamento moralmente corretto, la quale doveva fornire agli uomini un criterio per il loro comportamento, senza però valutare in maniera critica le basi della condizione sociale. Per questa metafisica, la connessione esistente tra le sue concezioni normative e le forme socio-economiche della società rimaneva oscura; essa si rivolgeva sempre all'uomo come individuo, certamente non ancora all'individuo astratto per eccellenza, quanto piuttosto all'uomo nella sua determinazione socialmente «definita» - in buona sostanza, si trattava di una comunicazione esclusiva tra «uomini dominanti»: generalmente, il destinatario (e quindi «l'uomo») era il pater familias proprietario terriero. Secondariamente, la riflessione filosofica si era sviluppata avendo un unico destinatario, oltre all'«etica», inseguiva una dottrina della «buona vita», della «felicità» dell'uomo in seno all'indiscusso ordine presupposto. Questa filosofia della «vita buona» si occupava, per esempio, delle varie forme di piacere, del rapporto tra piacere e astinenza (Diogene!), ecc. Questo aspetto della filosofia antica, mirava a un'estetizzazione dell'esistenza, il cui legame con le condizioni socio-economiche rimaneva oscuro, come era oscuro quello con l'«etica» metafisica. Fare di sé stessi, della propria vita, in qualche modo, un'opera d'arte, senza tener conto dell'insieme della società, e simultaneamente seguire, allo stesso tempo, una dottrina normativa del comportamento. È stato solo nell'epoca moderna, che ha avuto inizio la lotta per la forma sociale in sé, ed è apparsa per la prima volta una «critica sociale», una coscienza delle formazioni socio-economiche, della crisi e della trasformazione della società. Ma questo nuovo tipo di riflessione non ha permesso alla società di arrivare ad avere un'autocoscienza critica. al suo posto, si è trattato solo della forma mentale di una dinamica cieca; liberata dai bisogni per mezzo della moderna rivoluzione economica. In questo stravolgimento, la forma astratta del denaro, che fino a quel momento era stato un fenomeno marginale e di nicchia della società, si è attorcigliato su sé stesso, in un processo cibernetico: la vita sociale è stata sottomessa al movimento di valorizzazione del denaro, diventato un astratto fine in sé. Accontentandosi di esprimere questo processo cieco, il nuovo pensiero riflessivo è rimasto prigioniero della metafisica, come lo era il pensiero precedente, ma in una metafisica ormai secolarizzata, staccata dalla religione: così, la metafisica celeste di un cosmo divino, è stata sostituita dalla metafisica terrestre del denaro scatenato. Ma la metafisica, così come il suo fondamento sociale, non è stata solo secolarizzata, ma è stata anche resa dinamica. I termini di rivoluzione, sconvolgimento, processo, movimento, ecc. indicano già quale sia la differenza decisiva di questa nuova società moderna rispetto a tutte quelle che l'hanno preceduta: non solo essa si è staccata dal vecchio ordine, ma non è stata nemmeno capace di rimanere sé stessa, non ha potuto ripiegare su sé stessa, come le vecchie civiltà agro-religiose. Essa è in contraddizione con se stessa fin dalle sue origini, perché il processo di valorizzazione del denaro è insaziabile, e si riproduce sotto delle forme sempre nuove, a un livello di sviluppo sempre più alto. La macchina cibernetica del denaro diventato «principio in movimento» trascina la società, che viene sparata come se fosse un proiettile nel tempo lineare. Di conseguenza, il nuovo pensiero «critico della società» ha inventato la storia lineare e il progresso, l'orientamento al futuro e la critica di ogni stadio che viene raggiunto, visto come se si trattasse di una semplice fase di transizione verso un nuovo e presunto stadio «superiore». È stato solo in un simile contesto che l'intelligenza funzionale e l'intelligenza riflessiva sono entrate in contrapposizione sistematica e strutturale, poiché la riflessione secolarizzata ha assunto il ruolo della critica che spinge in avanti il «funzionamento» che si ostina a rimanere in un determinato stadio dello sviluppo. Ma questa critica è sempre rimasta incatenata alla metafisica moderna del denaro, non è stata altro che l'espressione intellettuale della contraddizione interna della società moderna con sé stessa. Ad essere criticate. non erano le forme categoriali di questa società in quanto tale, ma sempre e unicamente la loro insufficienza e il loro «sottosviluppo», rispettivamente. Da un lato, per molto tempo, la critica sociale ha continuato a preoccuparsi ancora della crescente dissoluzione del vecchio ordine agrario e religioso, e dei suoi resti; dall'altro, rifletteva anche sul processo dinamico del nuovo ordine, e proclamava in tal senso gli obiettivi dello «sviluppo». Per il marxismo, questo vale ancora. È vero che Marx è stato l'unico teorico moderno ad aver sviluppato anche quelli che sono stati gli inizi di una critica categoriale della modernità, vale a dire una riflessione «sulla» metafisica del denaro. Ma questa idea non ha potuto essere rispettata. Fintanto che lo sviluppo dinamico del sistema sociale moderno continuava, si era solo desiderosi di sapere cosa sarebbe venuto dopo. Ad essere l'oggetto della discussione teorica, era lo stadio successivo dello «sviluppo», e non il principio metafisico, l'essenza o la logica di questo stesso «sviluppo». Sembra che la situazione sia fondamentalmente cambiata alla fine del XX secolo. Mentre il concetto di progresso ha perso da tempo il suo potere di attrazione, la teoria critica della società viene ormai considerata obsoleta; e non solo la teoria marxista, ma la teoria in generale. In ogni caso, il postmodernismo ha insinuato nei confronti delle cosiddette «grandi narrazioni», o «grandi teorie», il sospetto di una «pretesa totalitaria» su tutto ciò che veniva considerato come una teoria in quella che è stata la storia della modernizzazione fino a oggi. Non bisogna più guardare all'insieme della società, e si tratta pertanto di abbandonare i «grandi concetti» e accomodarsi nell'«indeterminatezza» teorica. La teoria critica deve essere sostituita da un gioco intellettuale non impegnativo.

Da dove proviene questa sorprendente giravolta, questo «disarmo della teoria»? Si potrebbe supporre che la riflessione teorica tace perché le dinamiche sociali che la sottendono si stanno esaurendo. Su scala planetaria, non esiste più una società tradizionale dalla quale si possa essere disgustati. E sembra che, all'interno della modernità, non ci sia più nemmeno una nuova fase di sviluppo sociale «a venire», visto che il processo di valorizzazione economica comincia a esaurirsi. Il processo va avanti, ma solo come un processo negativo di crisi, su cui non può più essere fatto, positivamente, alcun investimento di speranza. Lo sviluppo tecnico diviene incompatibile con la moderna metafisica del denaro. Ma il pensiero critico moderno si sottrae a questo livello di riflessione, perché per farlo dovrebbe superare i propri limiti. È proprio nel momento in cui il totalitarismo reale del denaro domina la realtà come non mai, che la stessa teoria critica della società viene denunciata come totalitaria nelle sue asserzioni. Ha fatto il suo dovere, ma ora bisogna che lasci in pace tutta la società nel suo insieme, proprio adesso, nella sua crisi. La vera contraddizione sociale, non più gestibile nella solita maniera, deve semplicemente essere bandita dal pensiero. La tetra fine dello sviluppo moderno viene assurdamente celebrata come se fosse una transizione verso un «pragmatismo senza più illusioni». Il pensiero riflessivo termina e si conclude insieme alla critica della società.
L'intelligenza riflessiva sparisce. Ma l'intelligenza funzionale non ha trionfato, è semplicemente rimasta orfana. Nel momento in cui è stata esposta alla critica della riflessione teorica - ma ha sempre trovato in essa un orientamento e quindi una nuova legittimità - la fine della sua antinomia strutturale diviene la sua propria crisi. Le élite funzionali girano a vuoto; il loro funzionamento non è più in grado di far fronte alla crisi della realtà e scivola nel grottesco. Ma tutto ciò non viene nemmeno notato, ciò perché anche la coscienza quotidiana ormai si trova anch'essa in uno stato del tutto irriflessivo. La così tanto decantata capacità dell'individuo moderno di riflettere su se stesso, di stare «accanto a sé stesso» e osservare virtualmente le proprie azioni come dall'esterno, non c'é più. Tale capacità sparisce proprio perché era legata a doppio filo allo sviluppo positivo della società moderna. Ed è proprio nel momento in cui arriva alla sua fine, questa società diventa identica a sé stessa in maniera fantasmatica. Le generazioni postmoderne non comprendono più i termini della riflessione, i quali in pochi anni sono diventate loro altrettanto estranei dell'antico culto egizio dei morti. Sono ciò che sono e niente di più. Quanto più il loro agire quotidiano diventa impossibile, tanto più esse appaiono immediatamente identiche a tale agire. La crisi della realtà viene rimossa dal pensiero postmoderno, che tenta di sostituire alla critica della società un riciclaggio simulato della coscienza premoderna: la filosofia disarmata vorrebbe tornare, in tutta innocenza, agli antichi paradigmi dell'«etica» e dell'«arte di vivere». Ma dimentica che non esistono più le condizioni sociali per un simile pensiero. Il modo di pensare acritico premoderno, era possibile solo a condizione che la società fosse statica, e che il pensiero riflessivo non fosse assente, ma si riferisse a un ordine divino. Non è possibile tornare a questa condizione. Nella sua fase finale, il sistema moderno diventa pertanto la prima società della storia ad essere totalmente priva di riflessione. Insieme alla sua capacità di auto-riflessione, essa perde anche quella che è una condizione fondamentale dell'esistenza umana. Una società che si limita a funzionare soltanto, non è più umana e in definitiva non può più nemmeno funzionare. In un movimento inutile, che ha perso ogni senso superiore e ogni obiettivo, il pensiero normativo dell'«etica» deve svanire senza conseguenze, dal momento che non è più ancorato a nulla. E la filosofia della «vita realizzata», dell'uomo individuale visto come «opera d'arte» di sé stesso, diventa una triste farsa, poiché essa ignora la crisi della metafisica moderna. Si proclama come pensiero «post-metafisico», mentre invece la metafisica sociale reale della modernità rimane insuperata. L'auto-estetizzazione postmoderna avviene in una casa in fiamme.

Robert Kurz, 2002. Questo testo è apparso in: R. Kurz, Weltkrise und Ignoranz. Kapitalismus im Niedergang, Edition Tiamat, Berlino, 2013, S. 60-67.

Fonte: Grundrisse : capitalisme et psychanalyse