Michael Henry: soggettività, valore e astrazione
- di Pedro Anselmo Coiro Rodriguez -
§ 1 Introduzione
Nel 1976, il filosofo Michel Henry - che aveva già pubblicato un romanzo vent'anni prima, pur avendo deciso di scegliere una sola attività tra la filosofia e la letteratura, per non commettere l'errore di Sartre e «fallire in entrambe» (Henry, 2005: 143) - vinse il premio Renaudot, per una sua fiction sulla decadenza e la distruzione di Aliahova, una città immaginaria ai confini del mare. Le ampie descrizioni architettoniche, i dettagli e la preziosità non dissipano il tono politico dell'opera, che forse si situa «tra il pamphlet e la favola» (Combes, 1984: 175); anche la forma dialogica è abbondante, e ogni volta i lunghi discorsi dei suoi personaggi espongono qui una tesi filosofica, là una riflessione sulla storia. Pamphlet "ultraconservatore" (ibid.), favola, romanzo filosofico o racconto edificante, in "L'Amour les yeux fermés" vediamo un professore straniero, affascinato dalla bellezza delle cupole e dei dipinti di Aliahova, paradiso rinascimentale e democratico, che viene spinto a partecipare alla resistenza contro un movimento sociale emergente, rappresentato per mezzo di figure studentesche, di teorici nichilisti e di altri personaggi sfigurati appartenenti alla contestazione del periodo del '68. Ben presto, gli agitatori universitari entrano in azione e, mentre si dispiega il corso storico della degenerazione, il romanzo prepara la scena di quelli che saranno processi sommari, esecuzioni e varie espressioni di barbarie. L'eroe, Sahli, un accademico laborioso che proviene da una splendida regione poco produttiva, si chiede perché qui, ad Aliahova, dove la vita aveva raggiunto un grado di pienezza,abbondanza e ricchezza che non era stato raggiunto da nessuna parte, sì, perché proprio qui tutto stava per crollare e travolgerci insieme ad essa? [Henry, 1976: 252]
E la risposta contiene tutti quei tasselli che servono a esporre la filosofia della soggettività e degli affetti che esamineremo in questo articolo: «[...] andando fino alla fine di sé stessa e vivendo fino alla morte, questa passione che invadeva tutto l'essere e lo spingeva in avanti è stata sostituita ovunque da dei meccanismi che funzionano da soli e in cui non ci resta altro che guardare. È una strana storia, ogni progresso della vita si è rivoltato contro sé stesso.... » [Ibidem]. Pertanto, la questione centrale consiste in una rivendicazione radicale della soggettività, vista come il luogo verso il quale dev'essere proiettata ogni spiegazione. L'origine, la sostanza e la realtà risiedono nell'individuo e nella sua esperienza di sé. Tuttavia, esiste anche un paradosso: nella citazione che abbiamo appena letto, Henry fa riferimento a un «meccanismo che funziona da sé solo». Si tratta di un meccanismo autonomo, e allo stesso tempo è «vita contro sé stessa». La concezione di una passione contro sé stessa, lo svuotamento della vita, che è in ultima analisi è auto-svuotamento, avviene allo stesso tempo in modo automatico, contrariamente alla soggettività stessa che la mette in moto, inaugurando una contraddizione che va contro il fondamento ontologico della realtà. Questa doppia osservazione, quella dell'origine e della realtà in quanto soggettività, e quella di un automatismo che è contrario alla soggettività, vale a dire, alla realtà stessa, costituisce lo stesso prisma che l'autore ha utilizzato per poter interpretare l'opera di Marx, in un libro pubblicato nel 1976, laconicamente intitolato "Marx". Ovviamente, il confronto tra la vita e la morte non è un motivo esclusivo del dramma romanzesco di Aliahova, né di quella particolare lettura della critica marxiana che ne fa Henry, ma rappresenta una distinzione fondamentale nella filosofia dell'autore francese, la quale sta alla base anche del nocciolo dell'analisi della tecnica, tema specifico che il filosofo affronta ne "La barbarie" (Michel Henry, 1987). Ed è anche il punto di partenza per poter mettere in relazione la sua lettura con gli sviluppi della scuola critica del valore; una corrente teorica emersa negli anni Ottanta in Germania, la quale cerca di spiegare il mondo moderno assumendo le categorie del valore come fondamento esplicativo. Per questa scuola di pensiero "post-marxista" o "marxiana", il lavoro astratto costituisce la sostanza delle relazioni sociali.
In questo senso, il legame diventa particolarmente fecondo allorché si fa riferimento all'opera di Robert Kurz - figura di spicco della critica del valore - che all'interno delle crisi capitalistiche assegna, in un modo diverso da quello proposto da Henry, un posto preminente all'espulsione della vita, in quanto lavoro vivo - per usare la terminologia di Marx -, e alla sua sostituzione con il lavoro morto. Il parallelismo tra i due autori è già stato notato in diversi articoli (Briche, 2011; Borges, 2020; Gibert, 2021), che approfondiscono sempre più le affinità e la complementarietà tra la fenomenologia di Henry e la critica del lavoro astratto di Kurz [*1]. Dove il nesso più evidente e difficilmente contestabile, è nella questione delle crisi economiche e della caratterizzazione del sistema sovietico e di quello capitalista - sebbene a rigore si possa parlare di modalità di un unico sistema -; per cui, una riflessione a caldo sulla caduta del Muro di Berlino spinge entrambi gli autori a indagare le cause del fallimento del socialismo realmente esistente, facendo sì che due dei loro libri rendono entrambi conto di una contraddizione fondamentale e comune ai due blocchi politici: Henry scrive, in tono saggistico e per un vasto pubblico, "Du communisme au capitalisme: théorie d'une catastrophe" (1990), mentre Robert Kurz pubblica più o meno nello stesso periodo "Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale"(1991), a proposito del quale, Anselm Jappe, nel prologo alla traduzione spagnola, sottolinea quale sia stata l'enorme ripercussione: ventimila copie vendute subito dopo la pubblicazione, e il suo essere stato al centro di importanti dibattiti (Kurz, 2016). Per meglio chiarire questo accostamento tra la filosofia di Henry e la lettura di Marx che viene svolta da parte dei critici del valore, va sottolineato il fatto che le loro concezioni del valore, allorché si approfondisce l'analisi, differiscono. Questa diversità si percepisce ancor meglio se facciamo riferimento al Marx di Henry, da una parte, e dall'altra "La sostanza del capitale" - un antologia in spagnolo che raccoglie due ampi articoli pubblicati da Robert Kurz tra il 2004 e il 2005 sulla rivista "Exit!".
Sebbene vi siano alcune questioni teoriche che si muovono sulla stessa linea (tra le cose che coincidono: critica della Modernità; caratterizzazione della lotta di classe vista come teleologia - addirittura come feticcio - e come rappresentazione che non ha alcuna corrispondenza con la realtà; rivendicazione di una lettura filosofica di Marx; importanza dell'automazione, tra le altre), vi è una chiara sovrapposizione tra i due articoli, importanza dell'automazione), tuttavia la sostanza della materia che viene trattata non è esattamente la stessa. E questo sebbene si possa intravedere come nei rispettivi lavori esista un posto per la soggettività, per la prassi, per la vita e per la rottura ontologica della Modernità che assume la forma di una forza esterna, di un soggetto automatico, di un'astrazione reale, da iscrivere nella stessa teoria. A titolo di sintesi: cercherò ora di dare una breve traccia dell'interpretazione di Michel Henry della filosofia di Marx, questione su cui abbiamo già fatto qualche passo avanti e che viene affrontata nelle due sezioni che seguono; nella seconda, alcune questioni problematiche su questo «meccanismo che funziona da sé solo» a cui abbiamo già accennato e che si adatta così bene alle letture attuali della teoria del valore di Marx; mentre un paragrafo successivo, più breve, è dedicato all'importante questione della tecnica nella filosofia di Michel Henry; e prima di arrivare alla conclusione ho toccato un tema che sia Henry sia le letture post-marxiste che abbiamo citato hanno sviluppato nei loro testi, vale a dire, il posto occupato dal socialismo realmente esistente nel suo rapporto con il capitalismo e le crisi. Nel corso del testo, è impossibile non cadere in alcune ripetizioni. Tuttavia, è necessario chiarire che almeno una parte delle ripetizioni è richiesta dall'oggetto di studio: come afferma Atilano Domínguez in una dettagliata recensione del Marx di Henry - uno dei pochi riferimenti in spagnolo su questo libro - le ripetizioni di Henry hanno a che fare con il suo metodo genetico (Domínguez, 1982: 271). Certamente, nella misura in cui la lettura di Henry consiste nel riferire ogni elemento a un fondamento che coincide - secondo la sua tesi - con la ricerca filosofica di Marx, ecco che questa ripetizione dello stesso tema diventa parte costitutiva della sua interpretazione, e segna necessariamente il nostro testo.
§ 2 Marx alla ricerca della realtà
Si può affermare senza esitazione che Michel Henry ha scritto un'interpretazione dell'opera di Marx contro due fronti: l'hegelismo e il marxismo. Da un lato, si contrappone all'idealismo tedesco, opponendosi a qualsiasi tipo di oggettivazione sospettata di realizzare un'ipostasi di rappresentazioni; Henry rifiuta ogni spiegazione teorica che non ammetta il proprio carattere irreale, e che nasconda la sua origine nell'esperienza intima dell'individuo. Per quel che riguarda il marxismo, la critica viene rivolta alle diverse manifestazioni intellettuali che sono incompatibili con la soggettività, principalmente contro lo strutturalismo, una "ideologia" che definisce l'individuo a partire dalla coscienza, per poi, dopo aver confutato la superficialità di tale coscienza, scartare l'individuo (Henry, 2009: 379); per tutto il libro viene ripetuta questa definizione dello strutturalismo visto come ideologia: «Determinare in modo generale quali siano le proprietà della realtà, facendolo sulla base di quelli che sono dei puri concetti, è proprio dell'ideologia» (ibid.: 220).
Pertanto, di fronte all'oggettivismo hegeliano, per prima cosa, si tratta innanzitutto di difendere il fatto che, nella sua interezza, l'opera di Marx è strutturata a partire da una presunta intuizione precoce del filosofo di Treviri; da un'unica domanda: dove si può trovare la realtà? In un primo momento, la risposta di Marx rifiuta di collocare la realtà nell'oggettività. La scelta dei testi che servono a difendere tale tesi, l'analisi delle fonti attraverso la quale questa ricerca della realtà si concretizza è esaustiva, ed Henry non può essere accusato di «vizio anti-filologico»(Martínez Marzoa, 2018: 17), nella misura in cui vediamo un ordine ragionato dei testi e una classificazione che è giustificata proprio a partire dall'interpretazione [*2]. L'autore arriva alla critica dell'economia politica, a partire da un modo particolare, e lo fa attraverso una rivendicazione della soggettività di fronte all'astrazione: si tratta di distinguere tra gli elementi di una filosofia marxiana e quello che invece sono dei testi secondari, minori, che invece corrispondono a una congiuntura storica e politica. (Gibert, 2021: par. 6). Il criterio che viene usato, per separare i testi principali da quelli secondari, è la grande trovata di Marx, l'incontro con la prassi: «La problematica della prassi definisce lo status originario di quel lavoro che costituisce, al tempo stesso, sia l'essenza della realtà economica che il tema centrale della riflessione teorica seguito da Marx fino alla sua morte.» [Henry, 2009: 351]
La prima pietra miliare di questo orientamento è il manoscritto della Critica della filosofia dello Stato di Hegel (1843), dove Marx, secondo Henry, soccombe a Hegel e allo stesso tempo rompe con lui e con l'intera tradizione filosofica occidentale (ibid.: 35). In questo primo testo, che è una critica dell'essenza politica, Marx assume l'identità tra Stato e società civile e si spinge oltre Hegel, cadendo in quello che Henry chiama un "iper-hegelianismo" (ibid.: 100, 123, 149). Tuttavia, nelle sue sfumature e modifiche a Hegel, Marx intravede lo sfondo di un'attività concreta degli individui, di un individuo che definisce il reale e il cui status è distinto e precedente all'idea. Certo, se ci riferiamo a questo primo testo di Marx, in cui l'essenza politica non può nascere dall'esistenza reale ed effettiva dell'individuo, l'unità con lo Stato diventa necessaria (ibid.: 72), ma tale unità deve essere più di un'astrazione e deve attuarsi immediatamente nell'attività di ogni singolo individuo. In questo senso, come sottolinea Henry, Marx amplia l'universale (ibid.: 78), lo porta nella vita dell'individuo, nella sua personalità, la quale è universale dal momento che è sociale nella sua attività. Come si vede, tuttavia abbiamo ancora a che fare con categorie hegeliane - più tardi sarà il concetto di genere che prenderà il posto dell'universale, ed Henry dedicherà buona parte del libro a disfare l'idealismo delle tesi feuerbachiane nel Marx dei Manoscritti del 1844 -, ma c'è anche un terreno fertile, affinché questa realtà della prassi, della vita, dell'individuo - tutti termini intercambiabili - a un certo punto, abbia la sua forma definitivamente spogliata dall'hegelismo. Questa maggiore chiarezza nella direzione intrapresa dalla ricerca di Marx la troviamo ne L'Ideologia tedesca (1845), come una pietra miliare, anche se Marx non si staccò mai del tutto dalla terminologia di Hegel (ibid.: 216). Per quel che riguarda il secondo fronte cui Michel Henry si dedica - quello del marxismo - nella sua letteratura troviamo il cliché del marxismo visto come ideologia messianica, non tanto come una religione secolarizzata, quanto piuttosto come il coronamento della metafisica tedesca. Al fine di sostenere questa accusa, Henry fa ricorso al modello della "kenosis" ["svuotamento"] - una nozione mistica della quale egli traccia la traiettoria: dall'alchimia medievale, passando attraverso il luteranesimo, che arriva fino alla concezione messianica del proletariato - per la quale la negatività svolge un ruolo nella vita, nella morte e nella sofferenza, visti tutti quanti come ingredienti della vita, come una forza che appartiene alla vita, come forza che appartiene alla vita, come forza che appartiene all'essere e che ha anche un significato religioso. Se questo ruolo della negatività, della necessità, della sofferenza, ha un posto nella vita - secondo la filosofia di Henry - non è però opportuno che esca da quel terreno, cioè non può essere applicato alla storia, dove arriva solo attraverso la dialettica, cioè attraverso il pensiero, a occupare un posto che non gli è proprio (ibid.: 144).
La sofferenza ha un posto nel movimento della vita, ma quando si tratta di storia non è così. Allo stesso modo in cui la distruzione di Aliahova è il simbolo di un male assurdo e cieco che suscita l'incomprensione dello straniero che vede bruciare una città sognata, ma che si spiega con una forza propria, con la cultura che arriva a un punto di crescita che minaccia se stessa, la negazione dislocata dalla vita alla storia è inadeguata e si spiega anch'essa con una potenza che appartiene solo alla vita: « [...] la potenza fondante del negativo si dispiega in una significazione assiologica che, come questo potenza, è tratta dalla sua origine segreta, dalla virtù della sofferenza per liberare in essa l'essere della vita, dalla virtù del male nella sua efficacia fenomenologica » [Ibid.: 148].
Del resto, nell'eterna discussione circa la scientificità del materialismo storico, o del materialismo dialettico, Henry pronuncia un secco no. L'ontologia di Marx consiste in una distinzione tra ciò che si trova alla base dei concetti, e i concetti stessi in quanto idealità, irrealtà. Si tratta di realizzare una «genesi trascendentale» (ibid.: 26) e stabilire un ordine in cui le strutture, le classi, la storia e persino la società vengono classificate come delle derivate, secondarie rispetto ai livelli dell'essere (ibid.). Non sorprende che, nel suo prendere posizione nel dibattito a proposito del carattere delle idee di Marx, Henry non opti né per lo scientismo né per una lettura politica, ma piuttosto per un'interpretazione ontologica, ben lungi dall'aderire all'idea di un superamento della filosofia. Arrivati a questo punto, vale la pena chiedersi cosa esattamente venga come prima cosa. Abbiamo già sottolineato come la realtà sia prassi, ma bisogna qui specificare come, però, non si tratti di una prassi umana, o rivoluzionaria, così come essa viene definita a partire da una lettura umanista, o dal marxismo critico (Sánchez Vázquez, 2003: 349); quanto piuttosto di un'esperienza fenomenologica originale, che è sinonimo di vita, e la cui caratteristica principale, a differenza delle diverse definizioni di prassi che vengono date dagli autori materialisti, consiste nell'interiorità, anziché nella sensibilità e nell'orientamento verso il mondo degli oggetti. E per questo motivo, e per la sua distanza da una concezione dell'esperienza e della prassi definite dal sensibile, la filosofia di Marx non è neppure una forma di empirismo:
«La realtà empirica non è altro che "attività sensibile", essa è la prassi così come si presenta allo sguardo della teoria. È la modalità di accesso alla prassi, e lo è nella misura in cui non è costituita dalla prassi stessa, nella misura in cui si realizza a partire dall'intuizione, e innanzitutto in quell'intuizione sensibile che non qualifica l'essere originario e proprio della prassi, bensì la sua apparenza oggettiva in quanto empirica» [Henry, 2009: 351].
Se diamo retta a Henry, l'unico filosofo che finora si era occupato della prassi in questo senso non empirico e non oggettivo è Maine de Biran (ibidem, 342). Correlata alla nozione di sforzo, che stabilisce sempre «una relazione tra una forza e una resistenza» (Drevet, 1968: 46), percepibile a partire dal «contatto interno» (Sánchez Ortiz de Urbina, 2023: 18), per Maine de Biran esiste una «forza ipersensibile», «iperorganica» (ibid. 49), la quale non è una forza fisiologica, localizzata in una qualche parte del corpo - è, appunto, iperorganica - bensì una specie di senso e di volontà interiore che - in quanto sentimento vitale - «coincide con il senso dello sforzo» (Drevet, 1968: 50). Va detto, d'altra parte, che sia in Maine de Biran sia, più tardi, in Henry lo sforzo può essere inteso in un senso più ampio e fondamentale rispetto al suo significato ordinario. Un buon esempio per cogliere questo possibile carattere negativo dello sforzo ci viene offerto dalla considerazione che ha Henry del lavoro di vigilanza, il quale viene definito dalla prassi: la vigilanza non è solo «vedere», ma è «non agire», «non è la semplice assenza di movimento» (Henry, 2009: 355). Infatti, la vigilanza conosce lo sforzo, l'individuo «rimane compos sui, padrone di sé» (Drevet, 1968: 47); pertanto, la prassi dell'individuo deve quindi essere pensata come un'azione sostenuta dalla vita, persino confusa con il movimento della vita inteso come conatus, perseveranza che supera una concezione dell'azione vista come volontà e attualizzazione di una potenzialità del corpo (Henry, 2014: 170). Però, a prima vista, questa pura soggettività, l'individuo, la vita, il conatus, lo sforzo, la prassi così intesa, presenta un problema evidente: che ne è stato delle circostanze - così enfatizzate nei testi di Marx - e che in linea di principio con questo "tocco interiore", ora invece non si spiegano. Le circostanze, che ci sono quando il singolo individuo soffre e si confronta con i bisogni e sperimenta resistenza e sforzo.Com'è ovvio, una fenomenologia radicalmente soggettiva ci porta a chiederci che cosa precede l'individuo, che cosa manca in questa insistenza sull'esperienza del sé: che ne è stato delle condizioni sociali? Per poter affrontare la questione del prodursi di simili condizioni visti come causa o effetto degli individui, il filosofo francese si risolve a pensare la determinazione della vita sociale «come sintesi passiva» (Henry, 2009: 251). Anche se le determinazioni sociali sono o sembrano, in qualche modo, anteriori all'individuo, dato che l'attività è svolta da altri individui prima di lui, Henry tuttavia non abbandona il terreno della soggettività, anzi, «egli la trova proprio nella misura in cui a svolgerla è proprio lui stesso, nella misura in cui costituisce la sua stessa vita» (ibidem); non c'è quindi, a rigore, un'anteriorità delle determinazioni, né l'individuo viene determinato dall'esterno. Ma la risposta non convince tutti: Ricoeur, in una delle uniche recensioni contemporanee degne di nota del Marx di Henry - pubblicata nel 1978 - sottolinea l'insufficienza del testo nello stabilire lo statuto delle "circostanze" sia nella lettura dell'opera di Marx (Ricoeur, 2014: par. 60) sia nella vita degli individui, i quali non possono fare a meno di un ordine simbolico né delle circostanze esterne (ibid.: par. 63) [*3]. A parte queste difficoltà, che non sono affatto insignificanti, è ora necessario definire qual è il posto delle circostanze specificamente economiche in Henry, e se sia possibile pensare a una "autonomia" di tali condizioni dal lavoro del filosofo stesso. del filosofo stesso, tenendo presente che, in quanto rappresentazioni, sono irreali. rappresentazioni, sono irreali.
§ 3. L'irrealtà economica
La prima edizione del Marx di Henry è composta da due volumi che corrispondono a due parti del libro, ciascuna dedicata all'esame di fonti e aspetti diversi del pensiero di Marx. Il sottotitolo della prima parte è «una filosofia della realtà», quello della seconda «una filosofia dell'economia»; che potrebbe benissimo sostituire il termine "economia" con "irrealtà". Tuttavia - e sta qui la possibilità di un incontro tra Henry e il post-marxismo di letture attuali come quella della critica del valore - una tale irrealtà si trova alla base di un'«alienazione ontologica» (Henry, 2009: 549). In questa alienazione, si verifica una reificazione che fa parte della mancanza dell'essere. L'autonomia delle cose, l'esteriorità della relazione sociale che si fonda sulle cose, si oppone alle leggi interiori e soggettive della vita (ibid.: 550). Entra così in gioco la nozione di «lavoro astratto», o valore, come se si trattasse di un'idealità, come se fosse una "puntata" che viene fatta «sulla posta in gioco delle cose». Per poter confrontare la sua definizione con quella di Henry, e cercare di affrontare questa irrealtà del valore come oggettività, passiamo a Robert Kurz, per cui, certo, anche "La sostanza del capitale" si riferisce al carattere rappresentativo del lavoro astratto, ma essa è parte dell'irrealtà?
«Qui, la "rappresentazione" è un processo essenziale di ciò che Marx chiamava feticismo delle merci. Infatti, il quantum di energia speso non solo è inseparabile dalla forma concreta di tale dispendio, ma esso appartiene anche al passato, e diventa inafferrabile non appena le merci vengono fabbricate, cosicché se è "contenuto" nelle merci, allora non può esserlo, ovviamente, in senso naturale o fisico. [...] Tuttavia, questa "rappresentazione" si riferisce a qualcosa che - in quanto forma di percezione e azione - è ben lungi dall'essere limitata solo alla mente dei soggetti, ma bensì possiede anche una realtà fisica, vale a dire, nei processi di combustione che hanno avuto luogo a un certo punto nel passato, nei corpi umani, nel dispendio di unità di energia» (Kurz, 2021: 69).
Se Kurz sottolinea l'esistenza di un riferimento fisico, allora bisogna anche tener presente che l'idealità è irreale sotto due aspetti: il lavoro astratto - ogni dispendio di energia separato dalla sua forma concreta è un'irrealtà - e il dispendio di energia, in quanto dispendio del passato, non può avere un'esistenza reale in un oggetto; «si rivela effettivamente e doppiamente irreale» (ibid.). È irreale, eppure tuttavia è anche una «astrazione reale»! «La forma di rappresentazione di questa sostanza reale, invece, non ha nulla di propriamente fisico, ma è innanzitutto un'astrazione reale, una modalità di percezione e di azione socialmente costituita» [Ibidem]. Kurz, in ogni caso, pur riferendosi a questo dispendio individuale di energia, a questa combustione che deve avvenire nel corpo, nella sua analisi del capitalismo e della sua forma feticista rimanda la questione al carattere sociale della rappresentazione. L'astrazione si incarna nelle relazioni sociali, e se lo fa nella prassi, tutto lascia pensare che questa prassi sia, in linea di principio, diversa da quella che Henry difende, quest'ultima indistinguibile dalla vita individuale; Kurz parla di «prassi coercitiva», «prassi distruttiva», «prassi liberatoria»... ovviamente, tutti termini estranei a Henry, sebbene non sappiamo ancora se siano anche incompatibili. La «prassi distruttiva» trova il suo motore in un'astrazione che è reale perché è sociale, «diventa reale, e quindi determina le azioni degli individui» (ibid.: 63). Secondo la prospettiva della critica del valore - secondo cui procede Kurz - si distinguono una lettura "essoterica" e una "esoterica" di Marx, ed è quest'ultima quella che viene rivendicata (Jappe, 2017: 51). Questo punto potrebbe avvicinare i due autori di cui ci stiamo occupando (Gibert, 2021: par. 7), ma non è nemmeno azzardato, però, affermare che il Marx "esoterico" di ciascuno dei due autori differisce: quello di Henry cerca la realtà attraverso una genealogia che possiamo conoscere grazie al ricorso alla fenomenologia, mentre quello di Kurz denuncia la realtà paradossale di un'idealità che si spiega con una relazione sociale, il cui terreno è in definitiva una combustione reale di energia fisica nella produzione di merci. Infatti, se l'alienazione ha luogo all'interno della soggettività, «come modalità di vita» (Henry, 2009: 606), nella critica di Kurz al feticismo, l'analisi è orientata all'oggettività e alla sostanza come «dispendio sociale di energia» (Kurz, 2021: 275). Ma, dall'altro lato, «Il processo di astrazione reale costituisce in sé stesso il processo della produzione; ed è lì dove [...] si astrae sia il contenuto materiale che quello sociale della produzione» (ibid.: 279). Tuttavia, una simile premessa rimane compatibile con quella di Michel Henry, secondo cui «Esistono solo azioni individuali: la prassi non esiste. La prassi sociale non è altro che la rappresentazione di tutte le azioni individuali che intervengono e si intrecciano all'infinito nella società, e la rendono ciò che è» (Henry, 2009: 358)? Per quanto in entrambi gli autori vi sia un'inversione, una rottura ontologica e la definizione di un'astrazione reale, essi tuttavia non sembrano condividere la stessa definizione di "sostanza". Henry la riferisce a una sostanza trans-storica, a una temporalità eterogenea, mentre la critica del valore, cui diciamo che Kurz appartiene - senza aver risolto se possa essere compatibile con una prospettiva fenomenologica radicale, senza negare che essa possa essere solo «l'altra faccia di Giano» (Borges, 2020) - ha una nozione esplicitamente storica di "sostanza", che riferisce a uno specifico modo di produzione. Così, possiamo alludere, ad esempio, alla considerazione che Anselm Jappe ha del valore, in quanto forma a priori: «L'apriori di Kant è un'ontologizzazione, e un'individualizzazione non storica del valore, che nella società moderna è il vero a priori, ma è un a priori sociale, non naturale» (Jappe, 2017: 178).
§ 4. Tecnica, scienza e modernità
A partire da una citazione illuminante contenuta nel suo libro del 1987, "La barbarie" - una citazione di Joseph de Maistre, il quale afferma che la barbarie «è una rovina, non un inizio» (Henry, 2014a: 13) - possiamo conoscere quale sia l'idea che Henry ha della cultura, analoga alla sua idea di prassi,vale a dire che essa coincide con l'idea stessa della vita; per prima cosa viene la vita, e il fatto che essa si perda nella barbarie, va inteso come un movimento di auto-negazione (ibid.: 113). Pertanto, rispetto alla barbarie, e precedente, è la cultura, che a sua volta, senza troppi giri di parole, si identifica con la scienza galileiana. E questa scienza appartiene alla cultura, è un prodotto della soggettività, sebbene in essa si verifichi un'o svuotamento della soggettività: «l'auto-negazione della vita, è questo l'evento cruciale che determina la cultura moderna in quanto cultura scientifica» (ibid.). L'argomentazione a proposito di una realtà vagheggiata a partire dalla matematica, e avviata verso un eccesso tecno-scientifico, è un'idea che viene ribadita da diversi pensatori della tecnologia i quali possono avere una certa affinità con la posizione di Henry in quella che è la sua critica della Modernità, come per esempio può essere Jacques Ellul, con la sua trilogia sul sistema tecnico [*4]. Anche il più tardo critico della "svolta teologica" nella fenomenologia francese, Dominique Janicaud, è d'accordo quando si tratta di mettere in discussione la neutralità della tecnologia e la sua intrinseca mancanza di limiti (Janicaud, 1990: 13), anche se egli non perde occasione per rimproverare a Henry che questa identificazione con la barbarie non contempla la possibilità che ci possano essere alcuni limiti che vengano imposti, dall'esterno della tecnoscienza, ed esercitino dominio e controllo sulla scienza (ibid.: 22). Ora, in questo articolo ci sono già abbastanza elementi per sospettare che Henry non potrebbe mai soddisfare una simile richiesta; nella filosofia di Henry, una cultura tecnica è impensabile; sarebbe come se ci fosse qualcosa di simile a una cultura dell'astrazione e dell'irreale. La tecnica, nella sua accezione moderna, si scontra con ogni regolamentazione, perché non è più la tekhnê vista come «espressione della vita» e come «prassi individuale» (Henry, 2014a: 84). Il rovesciamento operato dalla Modernità esclude una misura comune con la tecnica come cultura: «l'evento cruciale della Modernità come passaggio dal regno dell'umano a quello del disumano: l'azione è diventata oggettiva» (ibid.: 85).
Pedro Anselmo Coiro Rodriguez - 31/5/2023 – fonte: Eikasia, Revista de Filosofia -
NOTE:
[*1] - Esiste anche una notevole affinità tra Michel Henry e Moishe Postone, un altro autore che ha sviluppato una lettura di Marx simile a quella della critica del valore. Pur non trattando la questione in modo approfondito, Alain Eraly individua e descrive questo incrocio in una recensione che tratta la questione dell'astrazione reale (Eraly, 2012).
[*2] - Se esiste un difetto filologico, esso ha a che fare con le omissioni, o con il peso che Henry conferisce ad alcuni passaggi, rispetto ad altri, e non con la trascuratezza dovuta alla scelta della gerarchia delle fonti, né con una confusione tra l'opera di Marx e quella dei suoi epigoni tra l'opera di Marx e quella dei suoi epigoni; in questo proposito, Serge Cantin segnala che nelle citazioni ci sono addirittura alcuni tagli che sminuiscono il rigore di Henry: «si tratta del carattere oggettivo d quelle che sono le essenziali forze soggettive dell'uomo, in altre parole, la definizione naturalistica dell'uomo»; frase questa, prelevata a partire dalla lettura che Henry fa nella sua citazione de Manoscritti del 1844 (Cantin, 1990: 392).
[*3] - Recentemente, ci sono stati altri autori che hanno affrontato questo problema da un altro punto: se Ricoeur suggerisce che Henry nella sua interpretazione del corpus marxiano fa sentire troppo la sua voce (Ricoeur, 2014: par. 3), questi ricercatori invece mettono in evidenza quale sia il ruolo della voce di Henry che è sospettosamente quasi inudibile allorché parla di prassi: il vuoto intorno alla «passività radicale» (Jean e Leclercq, 2012: p. 7). Henry avrebbe così inclinato il testo verso l'attività, trascurando il carattere duplice che aveva mantenuto ne "L'essenza della manifestazione" (1963), un libro che, secondo gli appunti privati di Henry, era indispensabile per comprendere l'opera di Marx (ibid.: p. 7).
[*4] - La Technique ou l'Enjeu du siècle, 1954; Le Système technicien, 1977; Le bluff technologique, 1988.
Nessun commento:
Posta un commento