L’ombra in esilio è il romanzo più radicale di Norman Manea: una riflessione sull’identità e sul senso inconciliabile di sradicamento che avvolge l’esistenza degli esuli del mondo.
C’è un uomo di origini ebraiche al centro di questa storia, un sopravvissuto. È sopravvissuto all’Olocausto e al regime di Ceausescu, alla fuga che lo ha portato fortunosamente a Berlino, superando il Muro, e alla perdita di tutti i suoi affetti. Si fa chiamare Nomade Misantropo, perché – come quella del leggendario Ebreo Errante – la sua vita sembra destinata a un esilio senza fine. Nel percorso che lo condurrà a trovare una nuova casa negli Stati Uniti, sul suo volto appariranno i volti delle persone incontrate per la via, la sua voce diventerà un mosaico di quelle attraversate, la sua ombra l’insieme di quelle lasciate dalle luci altrui. L’ombra in esilio è il racconto di questo viaggio in cui si uniscono le storie maggiori e minori del Novecento. Un viaggio che viene vissuto dal Nomade sul piano reale e su quello letterario, intervallando l’orrore dei gulag ai romanzi di Robert Musil, il volto di Thomas Mann a quello della statua di George Washington, l’11 settembre alle poesie di Eugenio Montale.
Un «romanzo collage», in cui Manea ripercorre i temi che hanno caratterizzato la sua ricerca narrativa fondendo assieme autobiografia e invenzione, storia e letteratura, la condizione di apolide con la «colpa» dei sopravvissuti, fino a giungere sulla soglia degli interrogativi centrali dell’esistenza umana: ma io, io che ho barattato l’intero mio passato per avere un futuro, io che oggi parlo e scrivo con una lingua diversa da quella che avevo, io chi sono?
(dal risvolto di copertina di: Norman Manea, "L'ombra in esilio". Traduzione di Roberto Merlo e Barbara Pavetto. Il Saggiatore, pag.368, € 26)
Confessioni di un esiliato per l'eternità
- di Alberto Manguel -
Quando nel 1930 lo psicologo svizzero Jean Piaget chiese a un bambino di sette anni cosa fosse la sua ombra, il bambino rispose: «L'ombra esce fuori dalla persona. Noi abbiamo un'ombra dentro». Piaget pensò che il bambino non avesse sviluppato a sufficienza le sue capacità «geometriche» razionali, ma quella risposta conteneva una verità intuitiva. Sotto la luce la nostra ombra viene proiettata, ma per essere proiettata deve esistere in qualche modo dentro di noi. Gli antichi la chiamavano Psyche o Anima: i moderni la chiamano l'altra faccia del nostro io cosciente. Quando è buio, sentiamo che è lì.
La luce e il buio segnalano il nostro passaggio nel tempo, ma anche nello spazio. Quando veniamo strappati via, noi e la nostra ombra, dal posto che ai nostri occhi ci definisce, per nascita o per scelta, veniamo strappati via anche dalla sequenza temporale della nostra vita. L'esilio, per qualunque ragione, scompagina la storia dell'esule. Trasforma il passato dell'esule in un ammasso di capitoli buttati lì a casaccio, ricordati male, e il futuro in una bozza di capitoli immaginati confusamente. La vita dell'esule diventa una finzione: l'Itaca lasciata indietro non esiste più, l'Itaca desiderata non è stata ancora costruita e Odisseo l'esule è condannato a boccheggiare in un mare sconfinato, punito per un crimine kafkiano, innominato.
Norman Manea, uno dei più insigni scrittori della nostra epoca, è stato un esule per tutta la vita. Nel 1941, quando aveva cinque anni, fu deportato nel campo di concentramento in Transnitria, da dove fu liberato, insieme ai membri sopravvissuti della sua famiglia, solo quattro anni più tardi. Studiò e scrisse nella sua Romania natia sotto l'oppressione del regime comunista, finché non fu costretto a emigrare nel 1986, andando a vivere in prima in Francia e in Germania, e dopo negli Stati Uniti. "L'ombra in esilio" è il suo ultimo libro, forse il più rivelatore, mirabilmente tradotto da Roberto Merlo e Barbara Pavetto: una sorta di apologia pro vita sua scritta con un virtuosismo, un'intelligenza e un umorismo abbaglianti. L'esilio è il tema di Manea fin dai primi libri, dapprima quello che Julio Cortàzar chiamava «esilio interiore» e poi l'oltraggiosa condizione dell'emigrazione forzata: l'esplorazione di questo tema da parte di Manea qui tocca i livelli più profondi e illuminanti. Dante sosteneva che la storia biblica dell'esodo dall'Egitto era la metafora fondamentale di ogni vita umana: Manea va oltre e lo raffigura, più che come una condizione, come una costanza di cambiamento, una catena ininterrotta di metamorfosi imposte che impediscono perennemente all'esule di acquisire un'identità fissa. A causa della sua condizione di outsider (pensate all'ebreo errante), Manea definisce il suo personaggio un teppista, un pagliaccio, un buffone, uno di quei tipi scalmanati che provocano scandalo nei luoghi pubblici. L'esule sconvolge convenzioni ed esistenze nella tensione fra la società che lo ha espulso e quella che apparentemente lo accoglie. L'esilio lo sottopone a un gioco di specchi mobili, che interrompono costantemente qualsiasi tentativo di costruire una storia logica con un inizio, uno svolgimento e una fine. «Il privilegio della sofferenza! Con o senza ombra, non è questo il problema di questi nomadi che nell'ombra ci vivono da sempre!»
Attraverso "L'ombra in esilio" corre, come un filo rosso, la storia di Peter Schlemihl, l'eroe dell'eponima fiaba magica di Adalbert von Chamisso del 1814, che racconta di un uomo che vende la sua ombra al diavolo in cambio di un sacco di ricchezze senza fondo, per poi scoprire che un uomo senza ombra non ha posto nella società umana. A differenza dell'eroe di Chamisso, il protagonista di Manea compie le sue peregrinazioni accompagnato dalla sua ombra, ma è lui o l’ombra, o tutti e due, che ripetono la storia dell'Esodo? "L'ombra in esilio" è un potente capolavoro ammonitore, un «romanzo collage» lo chiama Manea, e non potrebbe essere altrimenti. Collage di brandelli autobiografici, letture eclettiche, feroci scene satiriche, frammenti documentali di informazione che fanno le veci di permessi di soggiorno, lettere di presentazione e documenti di identità, i requisiti vitali e quasi irraggiungibili di un esule. Queste finzioni burocratiche sono tradotte, dalla brillante mano di Manea, in un Bildungsroman dal sapore fiabesco.
Il libro comincia con storie dal passato comunista della Romania, quando il protagonista, il teppista, è accusato di soffrire di «fobia della realtà». La cura proposta è l'esilio. «riscatto dalla miseria e dalla tirannia [...] La rinascita, l'ennesima dopo la lunga morte incompiuta, la regressione verso l'infanzia». Manea, al termine della sua lista di definizioni da dizionario, di «esule», osserva che il significato di «uccello migratore» è ormai «obosoleto, raro». Ma diventare un uccello migratore appare inevitabile. E lì segue una serie di scontri burocratici, erotici, politici, ostacoli che un Poseidone ossessivo getta sulla strada dell'esule (una strada che l'esule non ha scelto). L'ultimo ostacolo, ma non veramente l'ultimo, è accademico, quando l'esule vuole imparare il mestiere del pagliaccio e deve confrontarsi con le regole e i regolamenti di una scuola circense negli Stati Uniti. «Credevi nelle illusioni post-Auschwitz?», gli chiedono in una delle ultime pagine. «Che non si ripeta mai, mai, mai! Così urlavano i sopravvissuti? E quelli che avevano avviato e assistito alla messa in funzione dei forni crematori? Credevi davvero che non si sarebbe ripetuto? E perché non dovrebbe ripetersi?». Guardando lo stato odierno del pianeta, la domanda, ahimè, è puramente retorica.
- Alberto Manguel - Pubblicato su Robinson del 29/10/2023 -
Nessun commento:
Posta un commento