Non rimarrà affatto tutto così com'è!
- di Tomasz Konicz -
Un ampio dibattito di sinistra sui concetti di decrescita e sulla cosiddetta economia post-crescita sembra urgentemente necessario, se non altro per rompere con l'arcaica ideologia socialdemocratica e marxista tradizionale, che sta nuovamente guadagnando slancio sullo sfondo delle tendenze di crisi del capitalismo di Stato. Il fatto che la crescita infinita sia impossibile, oltre che autodistruttiva, in un mondo finito appare subito evidente, ed è facile da comunicare al grande pubblico. Questa argomentazione può essere un punto di partenza per la formazione di una coscienza radicale della crisi, evitando così che le persone insicure finiscano nell'illusione e nell'ideologia della crisi (che va di pari passo con la naturalizzazione del capitalismo, e in cui le cause della crisi vengono personalizzate).
Tuttavia, come ha osservato Christian Hofmann nel suo contributo alla discussione, questo è ben lungi dall'essere sufficiente. Si tratta piuttosto solo di un primo passo di consapevolezza che dovrà poi essere seguito da un esame della relazione di capitale, intesa come un processo feticistico caratterizzato da crescenti contraddizioni interne ed esterne. Ed è proprio qui che l'anacronistico pensiero della lotta di classe fallisce clamorosamente, dal momento che la gestione della crisi e il passaggio a un'economia post-crescita vengono trasformati invece in una mera questione di esproprio, nella quale il proletariato, ormai decaduto da tempo, dovrebbe essere rianimato nelle vesti di soggetto rivoluzionario, come sostiene Julian Kuppe nel suo contributo. Nell'ambito della sinistra - che per molti anni ha negato i cambiamenti climatici – è diventato ora normale aggiungere al suo armamentario – di riflesso - la crisi sistemica e climatica, come se si trattasse solo di un nuovo elemento da aggiungere insieme agli altri alla vecchia ideologia, in modo da poter così continuare a persistere nel pensiero radicato della lotta di classe.
Ma su un punto del genere, lo stesso Marx era contraddittorio: da un lato immaginava il proletariato come classe rivoluzionaria contrapposto al pauperismo del XIX secolo, mentre dall'altro lo identificava col capitalismo, vedendolo, nell'ambito della sua analisi della forma di valore, in quanto mero "capitale variabile"; vale a dire come quello che, per non arrivare in ritardo al lavoro, guida con l'aria condizionata accesa! La relazione di capitale - nella sua dinamica globale di di auto-valorizzazione illimitata e in qualità di "soggetto automatico" (Marx) - va assai più in là della mera divisione di classe e dei rispettivi interessi capitalistici interni alle classi. Il fattore determinante è rappresentato dall'auto-movimento feticistico del capitale, mediato dal mercato, il quale dev'essere visto come "contraddizione in processo" (Marx), che, per non collassare su sé stesso, deve sempre continuare ad aprire continuamente nuovi mercati, nuovi ambiti e nuovi contesti di valorizzazione. Detto in termini concreti, si tratta della contraddizione interna del capitale, il quale – attraverso la razionalizzazione, mediata dalla concorrenza - si libera della propria sostanza, vale a dire, il lavoro salariato: maggiore è la produttività del capitale, minore sarà sempre più il valore oggettivato in una merce; e sempre più merci dovranno essere prodotte e vendute, per continuare a riuscire a valorizzare quella che è sempre la stessa massa di valore. Il capitale brucia il mondo intero per trasformare il denaro in più denaro. Più il capitale diventa produttivo, maggiore è la quantità di materie prime e risorse che deve bruciare.
Ecco perché tutti gli sforzi di risolvere la crisi climatica capitalista attraverso l'innovazione - come sostenuto da Stefan Laurin nella sua richiesta di adesione - sembrano essere così impotenti. In questa cieca e distruttiva dinamica produttiva del capitale, per la società tardo-capitalistica, il mondo nella sua interezza è soltanto uno stadio di transizione. Pertanto, le aziende espropriate che andrebbero in mano ai lavoratori resterebbero comunque soggette alle medesime pressioni del mercato (si veda, ad esempio, l'economia di mercato socialista della Jugoslavia). La stessa cosa vale anche per il capitalismo di Stato, prediletto dai vecchi marxisti nostalgici e dai keynesiani falliti, il quale di fatto non rappresenta altro che una forma di sviluppo e di crisi del dominio del capitale; una forma, in ultima analisi, senza soggetto, tanto effimera quanto superata.
L'emancipazione dalla relazione reale-astratta di capitale, che nel suo automatismo distruttivo e contraddittorio di sfruttamento priva l'umanità delle basi sociali ed ecologiche della vita, può essere conquistata solo grazie al superamento consapevole di una simile dinamica sociale globale di distruzione, attraverso la lotta di un movimento di emancipazione. È questa la più grande debolezza del discorso della post-crescita, che generalmente ignora la questione della lotta concreta per dare forma al post-capitalismo. Laddove, anche i vecchi concetti marxisti di rivoluzione - a cui si riferisce Kuppe - qui si rivelano insufficienti, dal momento che la trasformazione aperta del sistema inizierà inevitabilmente (ed essa si trova già nelle sue fasi iniziali) sotto forma del ribollire del fascismo. Caratterizzata proprio dal fatto che quelle stesse classi, che dovrebbero essere le portatrici della rivoluzione, sono ormai in via di disintegrazione.
L'orrore consiste proprio nel fatto che alla fine, per certi versi, una rivoluzione risulterebbe superflua, visto che il tardo capitalismo crollerà comunque inevitabilmente, a causa delle sue barriere interne ed esterne. E seguendo la sua dinamica feticistica, ciò porterà alla barbarie e al collasso della civiltà. Di conseguenza, le forze progressiste dovrebbero indirizzare un tale processo irreversibile di autodistruzione del capitalismo in una direzione emancipatrice, affrontando inizialmente l'estrema destra e le sue ideologie di crisi. In tal modo, la crisi, se finalmente presa sul serio nel contesto della lotta per la trasformazione, costituirebbe il vero denominatore comune di tutte quelle lotte apparentemente disparate che potrebbero essere condotte simultaneamente sotto forma di una lotta per la realizzazione del post-capitalismo; e questo, dal momento che nella crisi capitalistica permanente non è possibile realizzare in modo immanente le richieste delle singole lotte, laddove il criterio decisivo non è quello dell'appartenenza di classe, quanto piuttosto la Coscienza della Crisi - in altre parole, la diffusione di massa della consapevolezza dell'inevitabilità della trasformazione del sistema. In una lotta di trasformazione, consapevolmente condotta, per il post-capitalismo, dovrebbe già emergere il progetto di una società post-crescita, che si renderà possibile, in maniera efficace, solo a partire da un processo aperto ed egualitario di comprensione, da parte di tutta la società, del come e del che cosa della riproduzione.
Anche un tale processo di trasformazione, per così dire ottimale, non realizzerebbe un'utopia perché - come ha spiegato Sebastian Müller nel suo contributo alla discussione - il capitale ha già eroso fin troppo quelle che sono le basi ecologiche della vita umana, per poter ora sognare un comunismo cosmico completamente automatizzato. In un post-capitalismo emancipatore, si tratterebbe piuttosto, attraverso un dibattito ricco di conflitti e di tensioni, di trovare un equilibrio tra i bisogni fondamentali dell'umanità, i desideri individuali di realizzazione di ciascuno e le necessità della lotta a livello planetario contro l'imminente catastrofe climatica. Questo è lo scenario migliore, è questo il meglio che possiamo fare. Tuttavia, ciò non deve necessariamente andare di pari passo con la rinuncia generale, poiché i bisogni potrebbero essere soddisfatti in modo assai più efficiente superando la forma merceologica; la quale contamina anche il valore di utilità (trasporto pubblico anziché SUV, design modulare al posto dell'obsolescenza, ecc.) Non appena le merci non saranno più tali - dove il loro valore d'uso è rilevante solo in quanto esso è portatore di valore di scambio - anche la produzione tardo-capitalista finalizzata alla discarica - cosa che adesso ha un effetto devastante se visto nel contesto del sistema agricolo capitalistico - potrà avere fine.
Esiste un indicatore semplicissimo che distingue la critica radicale e trasformativa dall'opportunismo, o dalla cecità ideologica: lo sforzo di dire che cosa sta succedendo. La sensazione diffusa tra la popolazione che ci sia qualcosa di fondamentalmente sbagliato deve diventare oggetto di una chiara riflessione. Le persone devono essere consapevoli dell'agonia del tardo capitalismo e dell'inevitabilità di una lotta per il futuro. I conflitti e le lotte sempre più frequenti per la sicurezza sociale, per la distribuzione, contro il fascismo, contro l'imperialismo, contro l'erosione della democrazia, contro lo stato di polizia, contro la discriminazione, ecc. che sono provocati e/o aggravati dalla crisi, acquisteranno una nuova prospettiva strategica solo se verranno combattuti consapevolmente, in quanto momenti della lotta di trasformazione. È proprio per questo che la questione della consapevolezza della crisi è così importante, perché - in assenza di un soggetto rivoluzionario - può esserci speranza solo se una parte sostanziale della popolazione riflette consapevolmente sulla natura della crisi, e sulla conseguente necessaria trasformazione. Ma nemmeno questo garantisce tuttavia un processo di trasformazione emancipatorio.
- Tomasz Konicz - Pubblicato l'11 aprile 2024 su Jungle World -
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