Una breve storia della critica del valore basata sugli scritti di Robert Kurz, tratta da: Anselm Jappe, Sous le soleil noir du capital, Crise & Critique, 2021:
«Il fatto che le attività dissociate non producano direttamente valore non significa che costituiscano una dimensione "libera" o "non reificata": esse svolgono un ruolo ausiliario per il lavoro astratto e ne conservano l'impronta. In concreto, il "lavoratore" maschio non sarebbe in grado di creare valore se non avesse una moglie che si occupa del suo benessere, dei lavori domestici e dell'educazione dei figli. Il valore è quindi strutturalmente "maschile", anche se le donne possono produrre valore e talvolta persino comandare la sua produzione. Secondo la critica della dissociazione del valore, la società del valore e del lavoro si basa, storicamente e logicamente, su una logica di esclusione: sono considerati "soggetti" a pieno titolo solo coloro che hanno interiorizzato completamente la mentalità del lavoro e i suoi corollari - autodisciplina, razionalità, durezza verso se stessi e gli altri, spirito di competizione, ecc.; questo si chiama "dissociazione".
Il soggetto "maschio" e il non-soggetto "femmina" sono costituiti sul piano della soggettività proprio da questa dissociazione-valore. Sul piano socio-psichico, la dissociazione non riguarda solo le donne. Per poter sopravvivere ed essere competitivo nel mondo delle merci e del lavoro, della politica, della scienza e dello Stato, il soggetto maschile socialmente dominante deve interiorizzare i vincoli sociali oggettivi, attraverso l'auto-violenza e l'autodisciplina, in modo da rendersi adatto al funzionamento di questo universo. Un processo questo che farà del suo genere il "sesso del capitalismo". In questo processo di soggettivazione, l'uomo assume la forma del soggetto moderno. Egli è pertanto il soggetto della conoscenza e della volontà, ed è soprattutto, sul piano logico e storico, il soggetto economico e il soggetto politico - homo economicus e homo politicus - e infine è anche il soggetto che imbriglia e domina la natura. Ma egli può diventare questo soggetto dominante solo al prezzo di una dissociazione interna: il maschio deve espellere e reprimere tutto ciò che non può assumere la forma del lavoro e del valore, e attribuirlo esternamente al non-soggetto dell'Altro: la donna e il non-bianco, lo zingaro e il superfluo. E questo processo di espulsione e repressione di tutto ciò che è dissociato sarà costituito anche dalla paura del suo ritorno, che può sempre trasformarsi in odio per le donne, paura della de-mascolinizzazione e così via. Pertanto, l'esclusione delle donne, dei non bianchi e degli altri soggetti "minori" non è stata una "incongruenza" all'interno di una logica del valore vuota di contenuti e che, in base al suo principio, avrebbe dovuto abbracciare il mondo intero e un giorno avrebbe potuto farlo; al contrario, questa esclusione è stata costitutiva fin dall'inizio, anche se le sue forme empiriche sono cambiate molto dall'Illuminismo.
(...) Pertanto, nessun programma di emancipazione può basarsi sul lavoro, in quanto il lavoro non ha mai coinciso con l'attività produttiva umana, con quel "metabolismo con la natura" (Marx). Il lavoro, come forma sociale, rappresenta una "astrazione reale", che riduce tutti le azioni sociali a espressioni quantitative fatte della stessa sostanza sociale senza contenuto, e che mira solo alla sua accumulazione. Nella misura in cui la produzione non serve a soddisfare i bisogni, ma ha il solo scopo di trasformare cento euro in centodieci - e poi in centoventi - il processo può essere definito "tautologico": esso serve solo perché così si può passare da una cosa all'altra - ma su una scala sempre più grande - consumando energie umane e risorse naturali in un dinamismo sempre più cieco. La valorizzazione del valore si impone quindi sia agli attori sociali che agli stessi capitalisti. Credere nell'esistenza di un grande controllo occulto esercitato dai capitalisti costituisce solo un modo per rassicurare sé stessi. La verità è assai più tragica: non esiste nessuno che controlli questo meccanismo autoreferenziale il quale sacrifica il mondo concreto a un'astrazione feticizzata che deve crescere continuamente. Per la stessa ragione, ogni critica moralistica del capitalismo risulta inutile; e questo anche se nessuno è obbligato a trovare simpatici i grandi e piccoli "ufficiali e sottufficiali del capitale" (Marx).
I conflitti tra le classi sociali, e soprattutto il conflitto tra i proprietari dei mezzi di produzione e i venditori di forza-lavoro, tra i detentori di capitale fisso e i detentori di capitale variabile, tra i proprietari del lavoro nella sua fase viva e quelli che lo detengono nella sua fase morta, svolgono ovviamente un ruolo rilevante. Ma non costituiscono né l'essenza del capitalismo né il fondamento primario della sua dinamica immanente e autodistruttiva. Tutti questi fenomeni non sono altro che le forme concrete, visibili e storicamente variabili in cui ha luogo l'accumulazione tautologica del valore. Le lotte sociali classiche ruotavano intorno alla spartizione del plusvalore; l'esistenza del valore veniva presupposta come se fosse un "bene" neutrale, che doveva essere semplicemente catturato. Non si teneva quindi conto della distinzione essenziale tra ricchezza concreta - che può essere effettivamente espropriata - e valore astratto. Per abolire il valore occorre abolire il lavoro che lo crea: per questo non ha senso contestare il capitalismo in nome del lavoro. Ugualmente non avrebbe alcun senso contrapporre il buon lavoro concreto al cattivo lavoro astratto: persino se tutto il lavoro non dovesse più essere ridotto al dispendio di energia che lo caratterizza, ciò che rimarrebbe non sarebbe affatto il lavoro "concreto" ( tale categoria è essa stessa un'astrazione), quanto piuttosto una molteplicità di attività, ognuna legata a un obiettivo specifico - come accadeva nelle società precapitalistiche, che non conoscevano il termine "lavoro" in senso moderno.»
(Robert Kurz)
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