Il formalismo russo, di cui Viktor Šklovskij è considerato fondatore, ha contribuito a produrre, agli inizi del XX secolo, uno sguardo che interroga la letteratura dall’interno: la domanda non riguarda più il significato dell’opera, ma il modo in cui è stata costruita. Šklovskij isola un elemento, l’intreccio, e vi dedica una ricerca lunga tutta la vita. L’intreccio ha una funzione ambivalente: è la somma dei procedimenti di costruzione dell’opera e la disintegrazione della fabula; è un ”fenomeno di stile” e, allo stesso tempo, il principio di manipolazione e assoggettamento del materiale di cui l’opera si compone. Nei testi del saggista, scrittore e filosofo religioso Vasilij Vasil’evic Rozanov (1856-1919), Šklovskij intravede una forma nuova: una prosa “senza intreccio”, in cui l’autore sconfessa i temi tradizionali dei classici russi e, attraverso l’utilizzo del frammento, perviene a ”mettere a nudo” i procedimenti della letteratura. Questa messa a nudo riguarda una prospettiva di emancipazione: un tentativo di ”uscire dalla letteratura”, cioè di liberare il materiale dagli automatismi della finzione letteraria. Rozanov, la cui stesura avviene negli anni appena successivi alla Rivoluzione d’ottobre, è il quarto titolo della collana Ostranenie. Tradotto dal russo da Maria Zalambani. A cura di Federica Arnoldi, Luca Mignola e Alfredo Zucchi.
(dal risvolto di copertina di: Viktor Šklovskij, "Rozanov". Wojtek Edizioni, pag. 84 € 16)
Il formalista rivoluzionario
- di Leonardo G. Luccone -
C'è un'onda Šklovskij che si ripresenta negli anni, si infiltra nella riflessione letteraria e si rinnova, seduce con la malìa del formalismo e poi si inabissa fino al successivo sbocco. Provate a consultare il catalogo di una libreria antiquaria e vi accorgere che dalla fine degli anni Sessanta a oggi (la testa di ponte fu "I formalisti russi" di Todorov) c'è stato un battere di comparse e sussulti, riapparizioni, sparizioni, riproposte - decine e decine di libri di editori grandi e piccoli e paratesti a libri di altri, una fodera di riflessione nella spezzata e cantabile prosa di Šklovskij che si prefiggono di rispondere a una manciata di domande: «Che forma hanno le opere di valore?». «Cosa succede quando si fa arte?».
Šklovskij esordisce nel 1917 con "L'arte come procedimento" - un articolo da conferenza, come si usava allora. Ha ventiquattro anni e si capisce subito dove vuole arrivare. Esibisce un disordine, ha scritto Ripellino, che è «lievito, ariosità, visione inconsueta del mondo». Šklovskij conia il termine che lo ha reso famoso, ostranenie, straniamento, la sterzata semantica per rendere estraneo l'abituale, trasferendo ciò che sentiamo come consueto su un «diverso piano di valori». Mostra che c'è un altro mondo e che l'atteggiamento poetico permette affrancarsi dal ricalco e di dedicarsi . come sarà evidente in "Teoria della prosa" del 1925 - alla «complicazione della forma», l'atto supremo per prolungare la percezione. Come? Attraverso la digressione che produce una «sensazione di dissimiglianza» e con il coraggio della frammentazione che obbliga chi legge a ricostruire la forma dell'opera. Šklovskij - sezionatore di testi - ha colto le innovazioni di Gogol e Tolstoj e le annovera con furori di esempi , per poi, da scienziato della parola, nota Lucio Villari, farne il tesoro del suo stesso stile. "Zoo o lettere non d'amore" (ora Sellerio, curato da Maria Zalambani) è un manifesto di struttura d'opera straniante: un russo a Berlino si innamora di una russa e le chiede il permesso di scriverle. Lei, gentilmente, lo concede ma a patto che non le parli mai d'amore. "Viaggio sentimentale", la sua opera più famosa (ora Adelphi), è un diario d'amore e rivoluzione dopo le rivoluzioni, dove la frammentazione diventa un continuum.
Se è vero che ci sono due Šklovskij, il primo è dirompente e cubo-futurista; il secondo, dal 1930 in poi, è conformato al realismo socialista. Per saggiarne la dissonanza vale la pena rileggere un passaggio che Arbasino scrive su Il Giorno il 13 ottobre 1965 dopo averlo incontrato a Roma. È del secondo Šklovskij che parla, ma nella luce inaspettata del primo: «Nemico della psicologia, indifferente alla storia culturale, positivista squisito (ma non sociologo), Šklovskij attacca il Pensieo per Immagini (immobili, indifferenti a ogni livello del linguaggio); e tende a un metodo morfologico "specificatorio" per individuare quel connotato di "letterarietà" che fa di un'opera, appunto, un opera letteraria».
«Mai avuto talento, mettevo in atto una furia», dirà qualche anno dopo Šklovskij a Serena Vitale che era andata a intervistarlo a Mosca. Così il padre del formalismo è tornato ancora una volta - e con uniedito, almeno in Italia - grazie alla collana Ostranenie di Wojtek. "Rozanov" è del 1921 e si concentra sull'intenzione e sul «genere assolutamente nuovo» ed eterogeneo per forma e aspetto del lavoro di Vasilij Rozanov, uno scrittore filosofo morto nel 1919, e sull'intreccio, l'elemento che precede l'organizzazione del materiale narrativo. Šklovskij lo considera manifestazione e funzione dello stile, dispositivo e legge organizzativa. L'intreccio è la catapulta straniante sul materiale, in grado di deformarlo fino al paradosso di una prosa senza «la schiavitù dell'intreccio». In "Viaggio sentimentale" Šklovskij scrive di sé inventando il personaggio che è sé stesso: «Ho vissuto onestamente la rivoluzione. Non ho annegato nessuno, non ho calpestato nessuno, non ho accettato compromessi spinto dalla fame. (...) I libri li ho scritti in fretta e furia». Come nota Zalambini nella postfazione a "Rozanov", nel 1981 il tardo Šklovskij deve ammettere: «Sono vissuto e vivo senza avere ancora un'idea chiara di cosa sia l'intreccio».
- Leonardo G. Luccone - Pubblicato du Robinson del 29/10/2023 -
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