martedì 2 aprile 2024

Presto, presto, che è tardi !!

Siamo in ritardo, dobbiamo affrettarci, dobbiamo adattarci al cambiamento: è l’imperativo che domina ormai nella società odierna, ossessionata dai dettami della teoria evoluzionistica darwiniana. Difficile sottrarsi a una dottrina così potente e strutturata, basata sul presupposto che sia indispensabile accelerare il ritmo del progresso anche a costo di forzature.
Barbara Stiegler riconduce questa visione del mondo all’orizzonte di pensiero del neoliberalismo e ne ripercorre la genesi al fine di indagarne i meriti e i limiti. Nella sua accurata analisi, Stiegler si sofferma su uno dei primi teorici del neoliberalismo, l’americano Walter Lippmann (1889-1974) che, partendo dalla necessità di una regolamentazione autonoma del mercato professata dal liberalismo, caldeggiò la trasformazione artificiale di quello stesso mercato tramite le istituzioni, come unico rimedio per scuotere le masse dalla stasi e condurle al cambiamento. Suo antagonista fu John Dewey (1859- 1952), grande figura del pragmatismo americano, che, partendo dalla stessa osservazione, invitava invece, ai fini della crescita, a mobilitare l’intelligenza collettiva, a moltiplicare le iniziative democratiche e a creare il futuro dal basso. Un dibattito quanto mai attuale, su cui questo saggio illuminante ci invita a riflettere.

(dal risvolto di copertina di: Barbara Stiegler, "Bisogna adattarsi: un nuovo imperativo politico", Carbonio, pagg. 300, € 19)

Com’è complicato adattarsi per sopravvivere
- di Sebastiano Maffettone -

Barbara Stiegler è una filosofa francese, che insegna all’Università Bordeaux-Montaigne. È figlia – difficile dimenticarlo– di Bernard Stiegler, filosofo assai noto, ancor più noto per essere finito in carcere per rapina a mano armata e in quel luogo avere iniziato a filosofare. Di Barbara Stiegler, Carbonio pubblica ora in italiano (dal francese Gallimard del 2019) un libro stranamente intitolato "Bisogna adattarsi: un nuovo imperativo politico". Come ci dice nell’eccellente saggio introduttivo Beatrice Magni – che è anche la traduttrice del testo– il titolo originale più accademico e più esplicativo era "Il ritardo della specie umana. Le fonti evoluzioniste del neoliberalismo". Il ritardo di cui si parla è quello dell’essere umano nell’affrontare le sfide e i cambiamenti del proprio tempo. Da questo punto di vista, la capacità di adattamento è una sorta di garanzia di sopravvivenza, come sostiene l’autrice sulla scia di Darwin, Bergson e Nietzsche. Non c’è però nessuna adesione al darwinismo sociale alla maniera di Herbert Spencer, che viene anzi duramente criticato. L’orizzonte in cui il paradigma evoluzionistico viene elaborato è invece quello del liberalismo. Meglio del neoliberalismo, come recita il titolo. Detto neoliberalismo non va poi confuso con l’ultra-liberalismo, che è poi l’applicazione sistematica del laissez faire da parte di uno Stato minimo. Il neoliberalismo è piuttosto azione sociale e economia sociale di mercato. La differenza principale tra neo e ultra liberali consiste nel fatto che i neoliberali accettano e anzi predicano un ruolo attivo dello stato, pur apprezzando la libertà individuale, la libera impresa e il libero mercato. La distinzione, in fondo, più ancora che nel campo dell’economia ha un’origine fondazionale. In sostanza, riguarda l’antropologia filosofica. Là dove i neoliberali sono meno ottimisti degli ultraliberali (termine vago, in verità) sulla bontà della natura umana. E proprio per questo motivo che lo stato deve essere presente, soprattutto nell’ambito della formazione dei giovani, per i neoliberali. Fin qui, però, niente è stato detto su chi sono i neoliberali di cui si occupa Barbara Stiegler in questo libro, e perché dovrebbero essere importanti per noi. In effetti, la sua indagine «genealogica», come è di moda dire ai giorni nostri, esamina il neoliberalismo in maniera peculiare. Sarebbe a dire attraverso la disputa annosa sulla natura del liberalismo tra Walter Lippman e John Dewey nel periodo tra le due guerre mondiali. Una disputa apparentemente tutta americana ma che può avere però qualche elemento di interesse per noi. La stessa autrice ne segnala due molto francesi. Il primo verte su una «conferenza Lippmann» tenutasi a Parigi nel 1938 (26-30 agosto). Conferenza cui parteciparono molte e illustri figure del liberalismo del tempo, a cominciare da Mises e Hayek, e da cui prenderà in qualche modo le mosse la Mont Pelerin Society una decina di anni dopo. Il secondo motivo concerne più direttamente la formazione filosofica dell’autrice, ed è legato all’analisi del liberalismo di Michel Foucault. Fu, in effetti, proprio Foucault che in Nascita della biopolitica ha identificato l’atto fondativo del neoliberismo nel convegno parigino Walter Lippmann, di cui si diceva. Secondo i teorici del neoliberismo, visti da Foucault, era opportuno realizzare una rifondazione del liberalismo classico attraverso una visione economica e politica più interventista del governo. In questo modo, il neoliberalismo avrebbe assunto progressivamente la forma di un’azione pubblica rivolta alla specie umana, alla salute delle popolazioni e alla qualità dei loro ambienti naturali e urbani.

La trasformazione del liberalismo – secondo Foucault– avviene principalmente attraverso la reinterpretazione che ne dà - dopo la Seconda guerra mondiale – l’ordoliberalismo tedesco. Per Barbara Stiegler, invece, la svolta neoliberale si deve all’operato di Lippman e all’opposizione ad esso mossa dal pragmatismo di Dewey. Il Lippmann di Stiegler è in sostanza una sorta di precursore della biopolitica. Anche lui predica un governo biopolitico della specie umana. Ma lo fa su una premessa, diciamo così, epistocratica che – come da Platone in poi – dubita molto dell’umana capacità di colmare il ritardo con cui affrontiamo i problemi del nostro tempo. Il suo libro famoso sulla Public Opinion (1922) già affrontava questo problema dal punto di vista del formarsi delle opinioni. Tesi che viene rafforzata e confermata nel libro altrettanto celebrato sulla Fabbrica del consenso. La sovranità viene così ripartita tra una base elettiva tradizionale e un’organizzazione «indipendente» di esperti. Alla visione epistocratica ed elitista di Lippmann, Dewey – come si vede in Liberalismo e azione sociale – contrappone la capacità della vita democratica di colmare il ritardo e di sopperire ai deficit culturali. Opponendosi al governo degli esperti di Lippmann, Dewey sostiene che la democrazia deve essere vista come condivisione pubblica delle conoscenze e dalla loro messa alla prova collettiva. Alla fabbricazione del consenso da parte della propaganda, oppone un pubblico che deve essere in grado di riappropriarsi dei mezzi di «comunicazione». Alla concezione minimalista, procedurale e a intermittenza della consultazione democratica, da ultimo, risponderà che la democrazia deve, invece, estendersi a tutte le dimensioni della vita umana, e che deve esplicitamente affrontare la questione dei valori, dei fini e degli scopi comuni della collettività politica.

- Sebastiano Maffettone - Pubblicato su Domenica del 29/10/2023 -

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