venerdì 5 aprile 2024

Leggere Marx - I testi più importanti di Karl Marx per il XXI secolo - 5

Le sottigliezze teologiche di un tavolo e i geroglifici sociali dei produttori di merci

« A prima vista, una merce appare una cosa banale, ovvia. La sua analisi, in realtà, rivela che è una cosa ingarbugliatissima, piena di sottigliezze metafisiche e di ghiribizzi teologici. Finché è valore di uso, è una cosa sensibile, e fin qui non c’è alcunché di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che essa soddisfa, con le sue proprietà, bisogni umani, sia che riceva tali proprietà soltanto come prodotto del lavoro umano. È chiaro come la luce del Sole che l’uomo, con la sua attività, modifica in maniera utile a se stesso la forma dei materiali naturali. Per esempio, la forma del legno viene trasformata quando se ne fa un tavolo. Cionondimeno, il tavolo rimane legno, cosa ordinaria e sensibile. Ma, appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in tutt’altro oggetto, una cosa sensibile e soprasensibile, allo stesso tempo afferrabile e inafferrabile. Non solo poggia con i piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, esso si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare. Pertanto, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore di uso. E nemmeno sorge dal contenuto delle determinazioni di valore, considerate per se stesse. Infatti, in primo luogo, per quanto differenti possano essere i lavori utili o le attività produttive, è verità fisiologica che essi sono funzioni dell’organismo umano, a differenza di altri organismi, e che tutte tali funzioni, quale che sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc., umani. In secondo luogo, per quel che sta alla base della determinazione della grandezza di valore –cioè la durata temporale di quel dispendio, ossia la quantità del lavoro compiuto–, la quantità del lavoro è distinguibile dalla sua qualità in maniera addirittura tangibile. In tutte le condizioni storiche e sociali, il tempo di lavoro, che la produzione dei mezzi di sussistenza costa, ha necessariamente interessato gli uomini, benché tale interessamento non sia uniforme nei vari stadi di sviluppo della civiltà. Infine, appena gli uomini cominciano a lavorare, in un qualsiasi modo, gli uni per gli altri, anche il loro lavoro assume una forma sociale.

Da dove sorge, dunque, il carattere enigmatico del prodotto del lavoro, appena questo assume la forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. L’uguaglianza dei lavori umani riceve la forma materiale dell’uguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro; la misura del dispendio di forza di lavoro umana mediante la sua durata temporale assume la forma della grandezza di valore dei prodotti del lavoro; infine, i rapporti fra i produttori –nei quali si attuano le determinazioni sociali dei loro lavori– assumono la forma di un rapporto sociale fra i prodotti del lavoro. (...) L’arcano della forma di merce consiste, dunque, semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, e li fa apparire come caratteri oggettivi degli stessi prodotti del lavoro, come qualità naturali anziché proprietà sociali di quelle cose, e quindi restituisce a loro anche l’immagine del rapporto sociale fra i produttori da un lato e il lavoro complessivo dall’altro, per farli apparire come un rapporto sociale fra oggetti, un rapporto esistente al di fuori degli stessi produttori. Proprio per questo quid pro quo, i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente soprasensibili, cioè cose sociali. Proprio come l’impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico si rappresenta non come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa esistente al di fuori dell’occhio. Sennonché, nel fenomeno della vista, la luce è realmente proiettata da una cosa, l’oggetto esterno, su un altro oggetto materiale, l’occhio. Esso è un rapporto fisico tra cose fisiche. Al contrario, la forma di merce, e così il rapporto di valore fra i prodotti del lavoro nel quale essa si manifesta, non ha assolutamente qualcosa a che fare con la sua natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quello che per gli uomini qui assume la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose, è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. In effetti, per trovare una analogia a questo fenomeno, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Qui, i prodotti del cervello umano si manifestano come figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto l’una con l’altra e tutte insieme in rapporto con gli uomini. In tal modo, nel mondo delle merci, si comportano anche i prodotti della mano umana. Questo io lo chiamo il feticismo che si appiccica ai prodotti del lavoro appena prendono la forma di merce, e che perciò è inseparabile dalla produzione delle merci.

(...) Come l’analisi precedente ha già dimostrato, tale carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci. In generale, gli oggetti di uso diventano merci soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro. Il complesso di tali lavori privati costituisce il lavoro sociale complessivo. Poiché i produttori entrano socialmente in contatto soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati si manifestano soltanto all’interno di tale scambio. Ovvero, in realtà, i lavori privati sono articolazioni del lavoro sociale complessivo e si realizzano soltanto mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori. Perciò, ai produttori, i rapporti sociali fra i loro lavori privati si manifestano come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma, anzi, come rapporti di cose fra persone e rapporti sociali fra cose. Solo all’interno dello scambio reciproco i prodotti di lavoro ricevono un’oggettività di valore socialmente uguale, separata e distinta dalla loro oggettività di uso, materialmente differente. Questa scissione del prodotto del lavoro in oggetto utile e cosa di valore si realizza, in pratica, soltanto quando lo scambio ha raggiunto un’estensione e un’importanza sufficienti, affinché cose utili vengano prodotte per lo scambio, vale a dire affinché nella loro stessa produzione sia tenuto in conto il carattere di valore degli oggetti materiali. Da questo momento in poi, i lavori privati dei produttori assumono in realtà un carattere sociale duplice e contrapposto. Da un lato, come lavori utili determinati, debbono soddisfare un determinato bisogno sociale, e così imporsi come articolazioni del lavoro complessivo, del sistema naturale e spontaneo della divisione sociale del lavoro; dall’altro lato, essi soddisfano i molteplici bisogni dei loro produttori, soltanto in quanto ogni lavoro privato, utile e particolare è scambiabile con ogni altra specie utile di lavoro privato, e quindi esso è equiparato all’altro. L’uguaglianza di lavori toto cœlo differenti può consistere soltanto in un’astrazione dalla loro reale disuguaglianza, nella loro al carattere, a tutti comune, di dispendio di forza di lavoro umana, di lavoro astrattamente umano. Il cervello dei produttori privati riflette a sua volta questo duplice e contrapposto carattere sociale dei loro lavori privati, nelle forme che si manifestano nel commercio pratico, nello scambio dei prodotti; e quindi riflette il carattere socialmente utile dei loro lavori privati nella forma che il prodotto del lavoro deve essere utile, e utile per altri; e riflette il carattere sociale dell’uguaglianza dei lavori di specie differente nella forma del carattere comune di valore di quelle cose materialmente differenti che sono i prodotti del lavoro. Gli uomini, dunque, riferiscono l’uno all’altro, come valori, i prodotti del loro lavoro, non certo per il fatto che queste cose contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo; in ciò è presente, allo stesso tempo, il contrario. Gli uomini equiparano, nello scambio, l’uno all’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, in quanto equiparano l’uno all’altro, come valori, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno.
Quindi il valore non porta scritto in fronte che cosa esso è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto del lavoro in un geroglifico sociale. Col tempo, gli uomini tentano di decifrare il senso del geroglifico, tentano di penetrare attraverso la scienza l’arcano del loro proprio prodotto sociale, poiché la determinazione degli oggetti di uso come valori è un loro prodotto sociale quanto il linguaggio. La tarda scoperta scientifica che i prodotti del lavoro, in quanto valori, sono soltanto espressioni in forma di cosa del lavoro umano speso nella loro produzione, segna un’epoca nella storia dello sviluppo della specie umana, ma non disperde affatto la parvenza che il carattere sociale del lavoro appartenga agli oggetti materiali, cioè ai prodotti stessi. Ciò che è valido soltanto per quella particolare forma di produzione, la produzione delle merci – il fatto che il carattere specificamente sociale dei lavori privati indipendenti l’uno dall’altro consiste nella loro uguaglianza come lavoro umano e assume la forma del carattere di valore dei prodotti di lavoro – appare tanto eterna e naturale, sia prima che dopo di questa scoperta, a coloro che sono irretiti nell’ingranaggio di rapporti della produzione mercantile, quanto il fatto che la scomposizione scientifica dell’aria nella chimica dei suoi elementi ha lasciato sussistere inalterata nella fisica la forma gassosa come forma corporea.

Quel che, in pratica, interessa coloro che scambiano prodotti è, innanzitutto, il problema di quanti prodotti altrui riceveranno per il proprio. Insomma, in quale proporzione i prodotti si scambiano. Queste proporzioni, una volta maturate fino a raggiungere una certa consistenza abitudinaria, sembrano allora sgorgare dalla natura stessa dei prodotti del lavoro, cosicché p. es. 1 tonnellata di ferro e 2 once di oro sono di valore uguale, allo stesso modo che 1 libbra di oro e 1 libbra di ferro sono di peso uguale nonostante la diversità delle loro caratteristiche chimiche e fisiche. In realtà, il carattere di valore dei prodotti del lavoro si consolida soltanto attraverso la loro affermazione come grandezze di valore, e poiché queste variano di continuo, indipendentemente dalla volontà, dalla prescienza e dall’azione dei permutanti, agli occhi di quest’ultimi il loro proprio movimento sociale assume la forma di un movimento di cose, sotto il cui controllo essi si trovano, anziché controllarle. (...) In generale, la riflessione sulle forme della vita umana, e quindi anche l’analisi scientifica di esse, prende una strada opposta allo svolgimento reale. Essa comincia post festum, a cose fatte, e quindi parte dai risultati ultimi e in sé conclusi del processo evolutivo sociale. Le forme che imprimono ai prodotti del lavoro il suggello di merci, e quindi sono il presupposto della circolazione delle merci, possiedono già la fissità di forme naturali della vita sociale, prima ancora che gli uomini cerchino di decifrare non il carattere storico di tali forme – le quali per essi, anzi, sono ormai immutabili –, ma il loro contenuto. Così, soltanto l’analisi dei prezzi delle merci ha condotto alla determinazione della grandezza di valore; e, per quel che riguarda infine la forma di valore, soltanto l’espressione comune delle merci in denaro ha condotto alla fissazione del loro carattere di valore. Ma proprio questa forma acquisita e compiuta –la forma di denaro– del mondo delle merci occulta sotto il velo materiale di una cosa, invece di svelarlo, il carattere sociale dei lavori privati, e quindi i rapporti sociali fra i lavoratori privati. Quando dico che abito, stivali, ecc. si riferiscono alla tela come incarnazione universale di lavoro umano in abstracto, l’assurdità –se non la pazzia– di questa espressione salta agli occhi. Ma, quando i produttori dell’abito, degli stivali, ecc. riferiscono queste merci alla tela – o, all’oro e argento, il che non cambia nulla alla questione – come equivalente generale, la relazione fra i loro lavori privati e il lavoro sociale complessivo si manifesta a loro precisamente in questa forma assurda. Tali forme costituiscono appunto le categorie dell’economia borghese. Sono forme di pensiero socialmente valide, e quindi oggettive, in quanto riflettono i rapporti sociali reali di produzione, i quali appartengono soltanto all’epoca di questo modo di produzione sociale storicamente determinato, cioè la produzione di merci. Pertanto, appena ci rifugiamo in altri modi di produzione, svanisce subito tutto il misticismo del mondo delle merci, tutta la magia e la stregoneria che avvolgono in un alone di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci. Poiché l’economia politica borghese predilige le robinsonate, venga dunque in scena per primo Robinson Crusoe sulla sua isola.

Robinson è parco di natura, ciononostante egli ha bisogni di varia specie da soddisfare, e quindi deve industriarsi in lavori utili di vario genere, come la foggiatura di utensili, la fabbricazione dei mobili, l’addomesticamento dei lama, la pesca, la caccia, ecc. Qui non si parla di preghiere e quisquilie simili, poiché il nostro Robinson, ci prende il suo gusto e considera tali attività come svago e ristoro. Nonostante la diversità fra le sue funzioni produttive, egli sa che esse sono soltanto differenti forme di operosità dello stesso Robinson, e dunque modi differenti di lavoro umano. Proprio la necessità lo costringe a ripartire esattamente il proprio tempo fra le sue diverse funzioni. Che l’una prenda più posto, l’altra meno posto nella sua attività complessiva, dipende dalla maggior o minor difficoltà da superare per conseguire l’effetto utile desiderato. È l’esperienza a insegnarglielo. E il nostro Robinson, che ha salvato dal naufragio orologio, libro mastro, penna e calamaio, comincia presto, da buon inglese, a  tenere la contabilità di se stesso. Il suo inventario contiene un elenco degli oggetti di uso in suo possesso, delle differenti operazioni richieste per la loro produzione, e infine del tempo di lavoro che gli costano in media determinate quantità di quei differenti prodotti. Tutte le relazioni fra Robinson e le cose che formano la ricchezza creata dalle sue mani, sono qui tanto semplici e trasparenti che perfino Herr Max Wirth potrebbe, senza un particolare sforzo mentale, capirle. Eppure, quelle relazioni contengono tutte le determinazioni essenziali del valore. Trasportiamoci ora dalla luminosa e ridente isola di Robinson nel tetro Medioevo europeo. Qui, invece dell’uomo indipendente, troviamo che tutti sono dipendenti – servi della gleba e latifondisti, vassalli e signori feudali, laici e preti. La dipendenza personale caratterizza tanto i rapporti sociali della produzione materiale, quanto le sfere di vita su di essa edificate. Ma proprio perché i rapporti personali di dipendenza costituiscono il fondamento sociale dato, lavori e prodotti non hanno necessità di assumere una figura fantastica differente dalla loro realtà. Essi entrano nell’ingranaggio della società come servizi e prestazioni in natura. La forma naturale del lavoro, la sua peculiarità –e non la sua generalità, come avviene sulla base della produzione di merci–, è qui la sua forma immediatamente sociale. Il lavoro servile si misura mediante il tempo, esattamente come il lavoro che produce merci, ma ogni servo della gleba sa bene quel che egli aliena al servizio del suo padrone, che è una quantità determinata della sua forza di lavoro personale. La decima che si deve consegnare al prete è più chiara della benedizione del prete. Perciò, qualunque sia il giudizio che si voglia dare delle maschere dietro le quali gli uomini compaiono l’uno di fronte all’altro in quel teatro, in ogni caso i rapporti sociali fra le persone nei loro lavori si manifestano come loro propri rapporti personali, e non sono travestiti da rapporti sociali fra le cose, fra i prodotti del lavoro.  Non abbiamo bisogno, ai fini della considerazione di un lavoro comune, cioè immediatamente socializzato, di risalire alla sua forma naturale e spontanea, che incontriamo sulla soglia della storia di ogni popolo civile. Un esempio più vicino a noi è offerto dall’industria ruralmente patriarcale di una famiglia di contadini, che produce per il proprio fabbisogno grano, bestiame, filati, tela, capi di vestiario, ecc. Per quanto riguarda la famiglia, questi differenti oggetti materiali si presentano come prodotti diversi  del suo lavoro familiare; invece per quanto riguarda gli oggetti stessi, essi non si rappresentano reciprocamente l’uno di fronte all’altro come merci. (...)

In una società di produttori di merci, il cui rapporto di produzione generalmente sociale consiste nell’essere in rapporto con i propri prodotti in quanto merci –e quindi valori–, e nel riferire i propri lavori privati, l’uno all’altro, in questa forma impersonale di cose, come lavoro uguale umano, il cristianesimo, col suo culto dell’uomo astratto –e specialmente nel suo svolgimento borghese, nel protestantesimo, nel deismo, ecc.–, è la forma di religione più adeguata. Nei modi di produzione della vecchia e stagnante Asia e dell’antichità classica, ecc., la trasformazione del prodotto in merce, e quindi l’esistenza dell’uomo come produttore di merci, recita una parte subordinata, che però diventa tanto più importante, quanto più le comunità si addentrano nello stadio del loro declino. Popoli commerciali veri e propri esistono, solo negli intermundia del mondo antico, come gli dèi di Epicuro, o come gli Ebrei nei pori della società polacca. Quegli antichi organismi sociali di produzione sono straordinariamente più semplici e più trasparenti dell’organismo borghese, ma poggiano o sull’immaturità dell’uomo individuale, che ancora non ha tagliato il cordone ombelicale del legame naturale di specie con altri uomini, oppure su rapporti immediati di signoria e di servitù. Essi sono il portato di un basso grado di sviluppo delle forze produttive del lavoro e, in corrispondenza a esso, di rapporti sociali fra gli uomini ancora impacciati e ristretti entro i confini del processo materiale di generazione della vita, e quindi del processo intercorrente fra uomo e uomo, e fra l’uomo e la natura. Tale limitatezza reale dei rapporti sociali si riflette idealmente nelle antiche religioni della natura e della nazione. Il riflesso religioso del mondo reale può scomparire, in generale, soltanto quando i rapporti della vita pratica quotidiana rappresentino agli uomini giorno per giorno relazioni chiaramente razionali con il proprio simile e fra di loro e la natura. La figura del modo di vita sociale, cioè il processo materiale di produzione, si toglie il suo mistico velo di nebbia soltanto quando, come prodotto di uomini liberamente uniti in società, sia sottoposto al loro controllo cosciente e condotto secondo un piano. Tuttavia, affinché ciò avvenga si richiede un fondamento materiale della società,  ossia una serie di condizioni materiali di esistenza, che, a loro volta, sono il prodotto naturale e spontaneo, cioè organico, di uno sviluppo lungo e tormentoso della storia. Ora, l’economia politica ha in effetti analizzato, seppur in modo incompleto, il valore e la grandezza di valore, e ha scoperto il contenuto nascosto in queste forme. Ma non ha mai posto neppure il problema del perché quel contenuto assuma quella forma, e dunque del perché il lavoro rappresenti se stesso nel valore, e del perché la misura del lavoro mediante la sua durata temporale rappresenti se stessa nella grandezza di valore del prodotto del lavoro. Queste formule portano segnata in fronte la loro appartenenza a una formazione sociale nella quale il processo di produzione asservisce gli uomini e l’uomo non domina ancora il processo produttivo, ed esse valgono per la sua coscienza borghese come necessità naturale, ovvia quanto il lavoro produttivo stesso. Le forme preborghesi dell’organismo sociale di produzione vengono quindi trattate dall’economia politica pressappoco come le religioni precristiane sono trattate dai Padri della Chiesa. La noiosa e insipida querelle sulla funzione della natura nella formazione del valore di scambio dimostra, fra le altre cose, fino a che punto una parte degli “Économistes” sia ingannata dal feticismo che si appiccica al mondo delle merci, ossia dalla parvenza cosale che le determinazioni sociali del lavoro siano caratteri degli oggetti materiali. Poiché il valore di scambio è un determinato modo di espressione sociale del lavoro speso nella produzione di una cosa, esso non può contenere più sostanza naturale di quanta ne contenga, p. es., il corso dei cambi. Dato che la forma di merce è la forma più generale e meno sviluppata della produzione borghese – che perciò si manifesta così presto, benché non ancora nel medesimo modo dominante, e quindi caratteristico, di oggi – il suo carattere di feticcio sembra ancor relativamente facile da penetrare. Ma nelle forme più concrete, scompare perfino questa parvenza di semplicità. E da dove provengono le illusioni del “sistema monetarista”? Questo sistema non ha capito che l’oro e l’argento, in quanto denaro, rappresentano un rapporto sociale di produzione, ma li ha considerati nella forma di cose naturali dotate di assurde e pazzesche proprietà sociali. E la moderna economia politica, che, piena di boria e di sussiego, sogghigna guardando il sistema monetario, disprezzandolo però dentro di sé, non tradisce a sua volta smaccatamente il proprio feticismo, appena tratta il capitale? Da quanto tempo è svanita l’illusione fisiocratica che la rendita fondiaria cresca dalla terra e non dalla società? Ma, per non fare anticipazioni, basti qui un altro esempio relativo alla stessa forma di merce. Se le merci quindi potessero parlare, direbbero: “ Il nostro valore di uso può interessare gli uomini, A noi, come cose, non compete. Ma ciò che ci compete, come oggetti materiali, è il nostro valore. Questo lo dimostrano le nostre mutue relazioni come cose in forma di merce. Noi ci riferiamo reciprocamente l’una all’altra soltanto come valori di scambio “.

Si ascolti ora come, interprete fedele dell’anima stessa delle merci, parla l’economista: Il valore” (valore di scambio) “è una proprietà delle cose, la ricchezza” (valore di uso) “una proprietà degli uomini. Il valore in questo senso implica necessariamente lo scambio, la ricchezza no .
” La ricchezza” (valore di uso) “è l’attributo dell’uomo, il valore è l’attributo delle merci. Un uomo, o una comunità, è ricco; una perla, o un diamante, ha valore […]. Una perla, o un diamante, ha valore come perla, o come diamante”. (da: SAMUEL BAILEY, A Critical Dissertation on the Nature, Measure and Causes of Value [1825]) Finora nessun chimico ha ancora scoperto valore di scambio in perle o diamanti. Purtuttavia, i nostri “Economisti”, gli scopritori di questa nuova sostanza chimica, i quali incidentalmente avanzano pretese speciali di profondità critica, trovano che il valore di uso delle cose è indipendente dalle loro proprietà materiali, mentre, al contrario, il loro valore di scambio compete a esse in quanto cose. Quel che li conferma in tale idea, è la circostanza assurda e pazzesca che, per l’uomo, il valore di uso delle cose si realizza senza scambio, cioè nel rapporto immediato fra la cosa e l’uomo, mentre il loro valore si realizza inversamente soltanto nello scambio, cioè in un processo sociale. Chi non ricorda, a questo punto, il buon Dogberry, mentre ammaestra il guardiano notturno Seacoal che: “ To be a well-favoured man is […] the gift of Fortune; but reading and writing comes by Nature” [“Essere un uomo di bell’aspetto è (…) un dono della Fortuna, ma saper leggere e scrivere viene dalla Natura” da: WILLIAM SHAKESPEARE, Much Ado About Nothing [Tanto rumore per nulla] (1598-1599), Atto III, Scena 3)].»

(Karl Marx, da "Il Capitale. Critica dell'economia politica", Libro I, Capitolo 1, La Merce. 1890)

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« Tuttavia i nessi delle forme irrazionali, in cui si manifestano e si riassumono praticamente determinate relazioni economiche, non toccano - nella loro vita quotidiana - i rappresentanti concreti di tali relazioni; e dal momento che essi sono abituati a muoversi nell'ambito di queste relazioni, non trovano che in esse ci sia nulla di strano. Una contraddizione totale, che per essi non ha quindi nulla di misterioso. Nelle assurde manifestazioni, estraniate dal loro legame interno e prese isolatamente, essi si sentono a proprio agio, come un pesce nell’acqua. E qui vale ciò che Hegel dice riferendosi a certe formule matematiche, ossia che “ciò che sembra irrazionale al senso comune è razionale, e ciò che a esso sembra razionale appare come se fosse l’irrazionalità stessa.” ».

(Karl Marx, da "Il Capitale. Critica dell'economia politica, Libro III, prima edizione, a cura di Friedrich Engels, 1894)

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