Questo saggio introduce il lavoro di Robert Kurz e quella sorta di critica del valore un po' emarginata a cui esso viene associato: la Wertkritik. A partire da un resoconto storiografico critico svolto dalla "Nuova lettura di Marx", Robert Kurz sostiene che le differenze teoriche e politiche tra la Wertkritik e le altre correnti critiche del valore, non possono essere guardate con sufficienza o liquidate come se fossero delle mere lotte territoriali, ma vanno intese come l'espressione di quello che è un fondamentale disaccordo sulla natura del capitalismo e sul ruolo della "critica", il cui tratto distintivo è, naturalmente, l'insistenza su una vera e propria teoria della crisi Qui viene esposta la particolare versione di Robert Kurz della Wertkritik, ma, nel farlo, si argomenta contro il suo abbandono della nozione di lotta di classe, proponendo di integrare l'analisi di Kurz con l'analisi svolta da Théorie Communiste sull'attuale periodo del capitale, pretendendo che essa sia più "storicamente fondata".
La teoria critica come teoria radicale della crisi: Kurz, Krisis e Exit!
Sulla teoria del valore, la crisi e il fallimento del capitalismo
La sostituzione del movimento Nuit Debout con il movimento dei Gilets Jaunes, in Francia, così come il recente movimento del Rif nel nord del Marocco sembrano confermare la tesi di Alain Badiou secondo cui attualmente staremmo vivendo in «un'epoca di rivolte». La crisi finanziaria scoppiata nel 2007 costituisce in maniera immediata quello sfondo del nuovo ciclo di proteste che si è spostato, in modo disomogeneo, dall'Europa meridionale al Nord Africa, poi di nuovo all'Europa meridionale e poi agli Stati Uniti e al Canada, per riemergere in Nord Africa, Medio Oriente, , Sud America, e così via. Le proteste sembrano segnalare una profonda transizione storica, o una rottura dove la cosiddetta egemonia neoliberista viene messa in discussione o, quantomeno, non smette di essere messa in discussione, com'è avvenuto negli ultimi trent'anni in Occidente. Sebbene le proteste assumano forme assai diverse, a seconda di dove si materializzano, dal Cairo a Istanbul a San Paolo, e sebbene le richieste espresse nelle proteste abbiano tutte caratteristiche locali, sembrano però essere chiaramente collegate tra di esse in quanto espressioni di una crisi economica e di quella che è la politica generale. La crisi e le proteste – che sembrano diffondersi solo in modo da formare come una rete discontinua di disperazione e di resistenza – sembrano collegate come se costituissero una sorta di unità (vedi Bolt Rasmussen 2015). Pertanto, la questione è come comprendere nel tempo l'attuale congiuntura, e capire di che cosa sono espressione le numerose rivolte nel mondo. con che tipo di crisi abbiamo a che fare? Quanto è profonda? Stiamo assistendo all'inizio della fine del capitalismo "neoliberista", o addirittura del capitalismo in quanto tale? Siamo testimoni della transizione in cui da un'epoca guidata dagli Stati Uniti, si passa a quella in cui la Cina sta diventando la potenza dominante l'economia mondiale? Oppure siamo davanti a una vera e propria crisi del modo di produzione capitalistico, e non semplicemente a un cambiamento di egemonia politica ed economica? Le domande si accumulano altrettanto velocemente del modo in cui il mondo sembra cadere a pezzi. È un'analisi adeguata delle trasformazioni strutturali in atto oggi, diventa più urgente che mai. In un contesto del genere, non sorprende affatto che, con l'emergere della crisi finanziaria del 2007, ci sia stata un vera e proprio rinascimento marxista. Sono state presentate una moltitudine di competenti analisi marxiste, le quali - al di là delle accuse dei media (la colpa è dei banchieri avidi, la colpa è della classe media americana, la colpa è dei greci, la colpa è dei tedeschi, ecc.) - tentano di spiegare la crisi, alcune con maggior successo di altre. Tutta una serie di seminari sul comunismo, di Alain Badiou e Slavoj Žižek, che si sono svolti a Londra, Berlino e a New York dall'autunno del 2008, hanno attirato grandi folle, e costituiscono un esempio di tutto ciò. Sia Badiou che Žižek hanno scritto dei libri sulla crisi attuale, ma nessuno dei due propone una valida analisi marxista dei problemi inerenti al modo di produzione capitalista; preferendo invece rimanere su un piano della spiegazione puramente filosofico (Badiou) e culturale (Žižek). Se vogliamo coniugare il comunismo rivoluzionario con una critica dell'economia politica, allora potrebbe rendersi necessario guardare oltre questa "blanda" e in qualche modo riduttiva critica dell'ideologia delle rappresentazioni dominanti del neoliberismo. Ovviamente, si presume che Antonio Negri e Michael Hardt siano impegnati in un'impresa simile, ma il loro ottimismo (qualsiasi cambiamento nella composizione del capitale diventa espressione del potere costitutivo della moltitudine, e il lavoro immateriale rende superflua la mediazione del capitale sulla capacità di cooperazione e creatività della moltitudine) non sembra realmente in grado di spiegare la portata della crisi attuale e la distruzione violenta che ha già causato [*1]. Il vitalismo ottimista di Hardt non è adatto all'epoca dei disordini. Di fronte a una grave crisi strutturale dell'economia mondiale, in corso dagli anni '70, gli ovvi limiti culturalisti del "marxismo occidentale" (Anderson 1976) e di tutti i suoi successori post-marxisti – da Laclau e Mouffe fino a Badiou e Žižek oppure, più recentemente, Srnicek e Williams – sono diventati sempre più evidenti. Tutti questi discorsi post-marxisti, per quanto diversi essi siano, sembrano tutti condividere la mancanza di interesse rispetto al compito necessario che è quello di identificare, esporre e criticare le contraddizioni e i limiti fondamentali inerenti a un modo di produzione basato sulla forma del valore. In altre parole, l'attuale congiuntura richiede una rinnovata attenzione alla critica dell'economia politica. Se oggi – come si potrebbe argomentare, ad esempio, sulla scia di Immanuel Wallerstein (2003) e di Giovanni Arrighi (1994) – riteniamo di trovarci in un regime di astrazione e di dominio sociale che tende da tempo a un potenziale cataclisma, lo facciamo perché sosteniamo che attualmente ci stiamo scontrando con i limiti della "critica" post-marxista. Pertanto, qui di seguito, proponiamo di rivolgere la nostra attenzione a quelli che costituiscono gli sviluppi marxisti continentali alternativi, correlando l'analisi tedesca della forma-valore – più specificamente, gli scritti di Robert Kurz – con la teoria francese della comunizzazione, come essa viene presentata da Théorie Communiste, al fine di trovare alcune coordinate che siano più utili per una critica marxista radicale del capitalismo e del suo attuale regime di accumulazione in crisi. Kurz potrebbe non avere tutte le risposte – il suo abbandono della nozione di lotta di classe è problematico, come mostreremo – ma la sua analisi marxista hegeliana delle contraddizioni fondamentali del capitale costituisce un importante contributo alla continuazione dell'analisi critica della società tardo capitalista. Questo saggio è un tentativo di mostrare i punti di forza del suo approccio; ma tuttavia concludiamo con una discussione critica circa i limiti della critica del valore di Kurz, rispetto alla quale introduciamo l'analisi del periodo attuale - più storica e più specifica - svolta da Théorie Communiste, tornando così alla questione della crisi attuale e delle sue potenzialità per una nuova offensiva proletaria.
La teoria della forma valore
Una prima significativa ed efficace fonte che ci permette di comprendere l'attuale situazione storica, proviene da un ramo specifico del pensiero marxiano, che viene attualmente importata, dalla Germania nel mondo anglosassone, sotto l'etichetta di "critica del valore", o "teoria della forma valore".
In genere, la teoria della forma-valore viene presentata come un corpus di pensiero, più o meno coerente, che risale al periodo turbolento del maggio '68, e alle sue implicazioni politiche, un periodo durante il quale gran parte del tradizionale dogma marxista veniva ampiamente messo in discussione. La sfida alla doxa marxista era diventata evidente su tutta la mappa continentale dell'Europa del dopoguerra, a partire dalle correnti strutturaliste e post-strutturaliste in Francia fino al pensiero operaista e post-operaista in Italia e oltre, andando a costituire ciò che poi sarebbe divenuta nota come la "svolta critica" nel marxismo, ovvero, come l'emergere di una Nuova Sinistra. Sfortunatamente, in quelle che sono le dominanti narrazioni storiografiche anglosassoni del marxismo critico, purtroppo la teoria tedesca della forma-valore viene spesso trascurata, o semplicemente ignorata; la cosa più evidente, forse è la sua assenza nel canonico libro sul "marxismo occidentale" di Perry Anderson (1976). Tuttavia - come viene qui sostenuto - accanto e al di fuori del nesso franco-italiano (che da Anderson e molti altri era stato annunciato come se si trattasse del centro fondamentale della svolta critica del marxismo) esistevano valide alternative marxiste. Forse, da nessun'altra parte troviamo una risposta più chiara, e teoricamente elaborata, all'ortodossia marxista tradizionale di quella presente nei dibattiti tedeschi degli anni '70. Qui, la necessità di liberare il pensiero di Marx dalle pretese dogmatiche del "marxismo tradizionale" veniva formulata programmaticamente, come un appello per una "ricostruzione" teorica sotto il nome (applicato retroattivamente) di una "Neue Marx-Lektüre"; vale a dire, come viene tradotto in inglese, una "Nuova lettura di Marx"[*2]. Nelle pagine che seguono, torneremo su questi dibattiti tedeschi, al fine di consentire una nuova valutazione di quali siano stati i loro meriti storici, così come le loro ramificazioni contemporanee. [*3]
I dibattiti tedeschi e la nuova lettura di Marx
Nonostante l'introduzione, nel 1997, del concetto di Neue Marx-Lektüre – come tentativo retroattivo di raggruppare le diverse correnti del pensiero marxista tedesco sotto un'unica etichetta [*4] – non esisteva, in senso stretto, una posizione teorica omogenea disponibile, quanto piuttosto una pluralità di prospettive diverse tutte pertinenti a una Nuova Lettura di Marx. Forse, in quanto tale, sarebbe stato più appropriato riferirsi al plurale a quelli che erano i dibattiti tedeschi. Tuttavia, tutti quanti questi dibattiti cercarono di andare oltre le carenze ideologiche del marxismo ufficiale, e di superare il cosiddetto "materialismo storico" o "dialettico" che ne costituiva il suo nucleo teorico. Uno dei testi chiave per risvegliare un rinnovato interesse critico nei confronti di Marx era rappresentato dalla tardiva ricezione dei Grundrisse, i manoscritti preparatori del Capitale di Marx. La prima edizione dei Grundrisse era stata pubblicata nel 1939(-41) a Mosca dall'Istituto Marx-Engels, con il titolo completo di Grundrisse der Kritik der Politischen Ökonomie (Rohentwurf) [*5]. Tuttavia, questa prima edizione moscovita non era completa, e inizialmente solo poche copie dell'opera raggiunsero il pubblico occidentale. Solo molto più tardi, nel 1953, la Dietz Verlag di Berlino pubblicò una versione completa contenente i sette manoscritti, più un'aggiunta di vario materiale correlato (Rosdolsky 1977, xi; Nicolaus 1973, 7).
Ciononostante, qualche tempo dopo che quest'edizione del 1953 era stata resa disponibile a un pubblico più ampio fuori dell'Unione Sovietica, la discussione su quest'opera innovativa rimase comunque piuttosto limitata, confinata, per così dire, a un pubblico di lingua tedesca - per quanto con alcune importanti eccezioni, come nel fondamentale libro di Alfred Schmidt del 1962 "Der Begriff der Natur in der Lehre von Karl Marx" (cfr. Schmidt 1971; la traduzione inglese è apparsa con il titolo "The Concept of Nature in Marx") - il quale sembrava prestare una certa attenzione a queste "bozze" del Capitale (forse sulla base del falso presupposto che il Capitale di Marx avesse già esaurito l'argomento della critica dell'economia politica). La situazione sarebbe cambiata radicalmente solo alla fine degli anni Sessanta. Da questo punto di vista, ad aver realmente innescato la svolta critica nel marxismo, è stata la pubblicazione nel 1968 di quello che costituiva un ampio commento ai Grundrisse, scritto da parte del linguista ucraino in esilio e studioso di Marx, Roman Rosdolsky; un'opera suggestivamente intitolata Zur Entstehungsgeschichte des Marxschen "Kapital", o, nella traduzione inglese del 1977, "The Making of Marx's Capital". In questo libro, Rosdolsky (1977, xii) cercava di riconsiderare tutte le verità consolidate dell'«economia politica marxista», facendolo sulla base di un'indagine più seria di quello che era il metodo critico di Marx, e che per lui costituiva «il più trascurato» tra tutti i problemi della teoria economica di Marx. Pertanto, per Rosdolsky (1977, xii), i Grundrisse - o, nei suoi propri termini, la bozza - erano esattamente il libro che avrebbe pienamente risarcito questo «totale disinteresse per il metodo di Marx» e avrebbe aiutato a liberare le opere mature di Marx dalle loro (errate) interpretazioni "economistiche", rendendo così possibile una rivalutazione del suo metodo critico-dialettico. Rosdolsky auspicava una riconsiderazione delle radici hegeliane del metodo dialettico di Marx, e del rapporto tra le categorie del Capitale (in particolare quelle del primo volume) e la nozione di totalità o, più precisamente, con il concetto di un "capitale in generale" (Kapital im Allgemeinen). Oltre al materiale resosi disponibile con la pubblicazione dei Grundrisse, nell'originale tedesco, i tedeschi ebbero anche il vantaggio di accedere a un ricco archivio di manoscritti: le relative edizioni MEGA (la prima e la seconda) le quali comprendevano, tra l'altro, dei documenti importanti, come l'Urtext, il Contributo alla critica dell'economia politica (rispetto al quale, il Capitale veniva visto da Marx come una suo proseguimento) e i Rendiconti; per citare solo alcuni dei testi al centro dei dibattiti tedeschi dell'epoca. Un denominatore comune dei dibattiti tedeschi era la centralità che veniva assegnata all'analisi della forma valore della merce (e al problema del feticismo, che, come vedremo più avanti, una tale analisi comporta). L'attenzione all'analisi della forma merce del valore, veniva sollecitata da alcuni studenti di Adorno - Hans-Jürgen Krahl (1943-70), Hans-George Backhaus (1929-) e Helmut Reichelt (1939-) - i quali avevano notato come la questione della forma valore della merce fosse trattata in modo molto diverso da Marx nella prima edizione del Capitale del 1867 - il quale conteneva un'appendice, o Anhang, che trattava esclusivamente la forma valore - rispetto alle edizioni successive, dove apparentemente il suo approccio era stato divulgato in misura assai più considerevole. Profondamente sconcertati per questi enigmi della forma-valore, presentati lì e altrove nell'opera di Marx, e insoddisfatti delle "soluzioni" dialettiche offerte dai teorici della Scuola di Francoforte [*6], questi giovani eredi (o eresiarchi, se si preferisce) della tanto acclamata Teoria critica si avventurarono in profonde speculazioni circa quali fossero stati i motivi che avevano spinto Marx a modificare nelle edizioni successive del Capitale la sua analisi del valore, del denaro e del feticismo.
Ricostruendo la critica marxiana dell'economia politica
Per degli autori come Krahl, Backhaus e Reichelt, l'approccio analitico alla forma rivelava un'incompletezza nella struttura interna del Capitale, dovuta, a loro avviso, sia a un'ambiguità presente nel pensiero di Marx sia all'interferenza editoriale di Engels. Di conseguenza, hanno optato per un programma metodologico che ricostruiva il sistema di pensiero di Marx in modo da poter così comprendere e valutare sia l'ampiezza teorica e pratica che la profondità della sua critica dell'economia politica; un programma ben riassunto dai traduttori dello stimolante articolo di Backhaus (1980, 96) "Sulla dialettica della forma-valore":
«Per noi, l'analisi della forma-denaro del lavoro sociale nel capitalismo rappresenta il primo passo di quella che è una critica teorica della "società moderna" nella sua totalità, così come viene concepita da Marx, che servirà a rendere riconoscibile la necessaria critica pratica rivoluzionaria. Questa critica non si limita all'economia, ma deve andare ben oltre la base di una esauriente "critica dell'economia politica", fino alla (secondo quella che era la dichiarazione programmatica) "sovrastruttura", la quale sorge sulla base determinata da tale forma. Pertanto, questo progetto sistematico può diventare concreto solo quando (in primo luogo) viene ricostruito il frammento sistematico marxiano e se (in secondo luogo) viene completato tale frammento, fino a essere convertito in un sistema».
Il "frammento" a cui si fa riferimento qui, è il primo capitolo del Capitale ("Merci e denaro") e, in particolare, la terza parte di questo capitolo, "La forma del valore o il valore di scambio". Il sistema da completare, o da ricostruire, è la struttura del concetto di "capitale in generale", la struttura delle forme determinate di capitale, così come appaiono nel capitalismo. Il progetto sistematico consiste, pertanto, nello sviluppo logico-dialettico della forma-valore del denaro, a partire dalla necessità interna a priori di questa stessa categoria.
Tuttavia, secondo questi autori, lo stesso Marx - per tutta una serie di ragioni legate a quelle che allora venivano descritte come preoccupazioni "essoteriche" nella costruzione stessa della teoria marxiana - non fu capace di completare questo compito sistematico: vale a dire, per preoccupazioni considerate esterne rispetto alla struttura interna e necessaria di un'analisi del capitale stesso (vale a dire, preoccupazioni politiche o popolari) [*7]. L'idea era quella secondo cui Marx (1999) avesse concesso una coerenza dialettica a quelle che erano le sue preoccupazioni relative alla leggibilità popolare; ragion per cui, sarebbe arrivato, più o meno inavvertitamente, a nascondere quello che era il suo vero metodo esoterico, il quale veniva spiegato assai più chiaramente nell'analisi del valore, del denaro e del capitale, così come era stata svolta nell'edizione originale del 1867 de "il Capitale", e nell'Appendice ad esso. Di conseguenza, gli autori si sono assunti il compito di ricostruire la dialettica interna del capitale, nel Capitale, mostrando come il nucleo di questa dialettica fosse già contenuto in quello che era l'elemento più semplice e distinguibile nell'analisi: cioè, nella merce, a partire dalla sua duplice natura di valore (valore d'uso e valore di scambio). Ed è l'una o l'altra versione di questo programma metodologico di "ricostruzione" a essere recentemente riemersa nei discorsi marxiani contemporanei, a volte sotto i nomi generici di Nuova lettura di Marx, Critica della forma-valore, Critica del valore, e talvolta più specificamente come "dialettica sistemica" (teoria della forma del valore nella sua attuale mutazione anglofona), o come qualche altra nozione correlata. Sebbene le varie tendenze contemporanee alla critica del valore condividano, di fatto, un'enfasi su questioni metodologiche riguardanti l'analisi della forma valore della merce, esse non sono affatto delle semplici variazioni della Nuova Lettura di Marx, così come spesso presentano la cosa i suoi sostenitori e commentatori [*8]. Al contrario, esistono alcune differenze teoriche – e quindi politiche – fondamentali, le quali non possono essere semplicemente spazzate sotto il tappeto della "Nuova lettura di Marx". Per quanto accattivante possa sembrare, la cosiddetta Nuova Lettura di Marx continua a essere un termine generico che - va ricordato - è stato applicato in maniera retroattiva, ed è stato consapevolmente promosso proprio dai sostenitori di una specifica, e piuttosto apolitica e (al limite) neoscolastica lettura di Marx: una lettura che rientra consapevolmente in quello che rimane un lignaggio della venerabile erudizione marxista e della teoria critica tedesca. Più di chiunque altro, probabilmente, quello che rappresenta la voce principale dell'attuale Nuova Lettura di Marx - il matematico e studioso di Marx, Michael Heinrich - rientrerebbe in questa categoria. [*9]
Il disagio nella teoria marxiana del collasso
All'inizio degli anni Novanta, Heinrich ha intrapreso un'ambiziosa esegesi dell'opera di Marx. Di conseguenza, i suoi scritti su Marx, che comprendono numerosi articoli e libri – forse, il più popolare nel mondo anglofono, è il suo manuale, "An Introduction to the Three Volumes of Karl Marx's Capital "(Heinrich 2012), il quale viene ampiamente considerato come uno dei resoconti più autorevoli di Marx in lingua tedesca. Un'affermazione centrale nell'opera di Heinrich, è quella secondo cui la critica di Marx dell'economia politica è stata una rivoluzione teorica solo parzialmente realizzata, e che Marx, in ultima analisi, è rimasto vincolato e confinato proprio all'interno del campo dell'economia politica con cui inizialmente voleva rompere. Il carattere di incompletezza della teoria critica di Marx nel suo complesso, era dovuto, secondo Heinrich, ad alcune fondamentali "ambivalenze" della teoria del valore di Marx [*10].Ed è per questo motivo che la teoria critica del valore di Marx va ripulita da tutte queste ambivalenze teoriche, e dev'essere ristabilita sulla base di una solida "teoria monetaria del valore" (fondamentalmente, su questo punto e su molti altri, Heinrich concorda con l'approccio scolastico della forma di valore seguito da Christopher J. Arthur e dalla sua consorteria, sebbene Arthur operi con un'enfasi più apertamente hegeliana, posta sulla "dialettica sistemica", presumibilmente inerente all'opera matura del Marx del Capitale) [*11]. La percezione che ne ha Heinrich - secondo cui l'opera di Marx sarebbe piena di ambiguità teoriche interne e di incoerenze - lo porta a respingere l'esistenza di una teoria della crisi, e a negare la necessità immanente di un collasso totale del modo di produzione capitalista. Heinrich rifiuta in maniera esplicita la potente idea avanzata da Marx - forse più chiaramente nei Grundrisse - secondo cui il modo di produzione capitalista tende a minare sé stesso e che perciò, attraverso una serie discontinua di crisi sempre più profonde, finirà per collassare – per così dire – sotto il suo stesso proprio peso. Piuttosto, a prescindere da quel che possono credere i sostenitori di una «teoria marxiana del collasso» [ Heinrich (2012, 177) ritiene che tale teoria sia operativa nelle teorie di Rosa Luxemburg, in quelle di Henryk Grossmann e, più recentemente, nell'approccio critico al valore sostenuto da Robert Kurz, insieme al suo ambiente circostante ( cosa su cui torneremo tra poco), l'enigmatica affermazione dei Grundrisse, a proposito del collasso, è stata semplicemente un errore teorico da parte di Marx: «Nelle opere successive Marx non riprende questa idea dai Grundrisse. Al contrario, Marx respinge implicitamente ogni suo precedente argomento a favore di un crollo». In altre parole, Heinrich nega categoricamente qualsiasi nozione di una possibile «crisi finale» e/o di un «crollo», e lo fa accusando Marx di aver tratto una «conclusione estremamente inverosimile» solo sulla base di alcune mere osservazioni empiriche, che erano prive di un adeguato riferimento concettuale (206-7). E tale argomentazione, porta Heinrich (2012, 206-7) a concludere che è del tutto «sorprendente che Marx stesso non si sia reso conto di quanto sia debole l'argomento».
Robert Kurz: Wertkritik, Krisis ed Exit!
Come già detto, gli argomenti di Heinrich contro una «teoria marxiana del collasso» sono stati sviluppati nel corso di una disputa teorico-politica polemica e continua con Robert Kurz (1943-2012), il cui contributo al campo teorico della critica del valore consiste principalmente nel suo continuo insistere su una teoria relativa a una crisi terminale del capitalismo, e nella sua elaborazione. L'approccio radicale e specifico di Kurz alla critica del valore, è noto col nome di Wertkritik, vale a dire, l'equivalente in inglese di «critica del valore», così come i curatori di "Marxism and the Critique of Value" (Larsen et al., 2014) - l'unica introduzione in lingua inglese, finora, sull'argomento - scelsero di tradurlo. Come viene debitamente sottolineato nell'introduzione a questa acuta raccolta di traduzioni di alta qualità della teoria del valore critico radicale (Wertkritik), esiste il rischio concreto che si possa confondere questa corrente di pensiero radicale con altre branche contemporanee della critica del valore (come quella di Heinrich) le cui «precise origini nella Germania occidentale degli anni settanta e ottanta, rimangono oggetto di qualche controversia», come viene diplomaticamente asserito. Inoltre, viene specificato come «Wertkritik, in questo senso sistematico designi in pratica il lavoro accumulato da quelli che probabilmente non sono stati più di trenta o quaranta individui, i quali formavano due collettivi (attualmente non cooperativi tra loro) orientati alla teoria, e il cui nucleo centrale ha vissuto e lavorato per anni dentro e intorno alla città bavarese settentrionale di Norimberga, e la cui attività principale è stata quella di produrre due riviste annuali – Krisis e Exit – oltre a Streifzüge, una pubblicazione viennese più simile a un opuscolo, e che era vagamente alleata con Krisis, come una sorta di terza sede» (Mediations 2013, xi). Nonostante le differenze chiaramente identificabili (l'importanza data alla teoria della crisi di Marx, ne è un esempio), che separano questo ramo specifico della critica del valore (Wertkritik) dalle altre varianti marxiste più generiche, essi vengono spesso tutti raggruppati sotto un'unica narrazione storiografica principale; quella di una Nuova lettura di Marx [*12], oppure vengono addirittura ignorati del tutto [*13]. Dopo il 2004, complicare ulteriormente le cose, interviene anche una parte delle persone intorno a Krisis – tra i quali lo stesso Kurz, Roswitha Scholz e Anselm Jappe, tra gli altri – ha decidono di separarsi da Krisis per formare Exit!, e che iniziano a riferirsi alla loro teoria chiamandola Wertabspaltungskritik, sottolineando in tal modo, sulla spinta di Scholz, la problematica di genere inerente alla dinamica della forma del valore in sé. Questo aspetto «dissociativo» (e, pertanto, tutta la corrente femminista della critica del valore) viene così purtroppo relegata nella scelta, sicuramente più agevole, di narrare tutta la storia sotto il titolo unificante di Wertkritik. Un altro sfortunato svantaggio relativo a questa narrazione, consiste nella tendenza a cancellare non solo quelle che erano le differenze interne nella «scuola della Wertkritik di Norimberga» - come è stata chiamata altrove (vedi Fleischer 2011) - ma anche - cosa più seria - le differenze teoriche più sostanziali che erano presenti nella controversia decennale tra Heinrich e Kurz, la quale (tra molte altre questioni) interessa il problema dell'esistenza di una teoria della crisi in Marx, occupando un posto centrale. Nelle pagine seguenti, riconsidereremo la critica del valore, così come essa viene associata alla posizione di Kurz, per vedere come e perché deve essere distinta da quella di Heinrich e dalla cosiddetta Nuova lettura di Marx.
Polemici e accademici
Come già accennato, i due rami più importanti della critica del valore associati a Kurz, sono le riviste "Krisis: Kritik der Warengesellschaft" [Krisis: critica della società delle merci] e "Exit! Krise und Kritik der Warengesellschaft" [Exit! Crisi e critica della società delle merci"], quest'ultima costituita da un gruppo che si è scisso da quello della prima rivista [*14]. Krisis iniziò con il nome di Marxistische Kritik [Critica marxista] a metà degli anni 1980, ma cambiò il suo nome nel 1989, prendendo le distanze dalla maggior parte di ciò che appare sotto il nome di marxismo. Kurz è stato un autore estremamente produttivo all'interno di questo mezzo e ha continuato a scrivere: quattordici libri, prima di morire nel 2012 all'età di 68 anni. Fino a tempi recenti, nessun libro di Kurz era mai stato tradotto in inglese e, a parte la raccolta di saggi summenzionata– Marxism and the Critique of Value – si trovano solo poche (e spesso molto dubbie) traduzioni in inglese. Kurz è stato coerente nel suo tenersi lontano dal mondo accademico, e dalle sue particolari forme di retorica politica e marxista, non diversamente da come hanno fatto altri vecchi pensatori rivoluzionari come Amadeo Bordiga, Guy Debord e Jacques Camatte. E così, a causa della sua lontananza dalle istituzioni accademiche, Kurz non è stato oggetto dello stesso tipo di attenzione di cui è stato oggetto qualcuno come Heinrich - che è un affermato accademico professionista e professore alla Freie Universität - o come i due teorici della Scuola di Francoforte ,Jürgen Habermas e Axel Honneth - entrambi direttori del prestigioso Istituto di Francoforte per la ricerca sociale, visti presumibilmente come tedofori della fiamma della "teoria critica". Tuttavia, nel 1999 - sebbene Kurz abbia sempre preferito rimanere abbastanza nell'ombra - ha ricevuto una certa attenzione da parte del grande pubblico – anche se solo momentaneamente – a causa della pubblicazione del suo "Schwarzbuch Kapitalismus (Ein Abgesang auf die Marktwirtschaft)" ["Il libro nero del capitalismo (Un canto del cigno per l'economia di mercato)"]. Il libro, è di oltre 800 pagine e contiene un'esposizione storica immensamente dettagliata di quello che è stato lo sviluppo capitalistico, e delle scie di sangue che ha lasciato dietro di sé nella sua disastrosa corsa. Come viene chiarito da Kurz nella sua prefazione all'edizione ampliata del 2009, il libro voleva essere un saggio di storia controcorrente, un intervento teorico in un'epoca eccessivamente esaltata di euforia capitalista generalizzata. Quando il libro vide la luce per la prima volta, nella seconda metà del 1999, esattamente dieci anni dopo la caduta del muro di Berlino e alle soglie della cosiddetta "New Economy", lo slogan del momento, in quel periodo era la conclamata cosiddetta «fine della storia». In un simile clima di consenso neoliberista, "Schwarzbuch Kapitalismus" aveva naturalmente suscitato scalpore, ricevendo elogi e critiche in egual misura. Tuttavia, il lavoro di un teorico di estrema sinistra relativamente sconosciuto era arrivato sulle pagine dei principali giornali tedeschi, come Frankfurter Rundschau, Süddeutsche Zeitung e Die Zeit, tra gli altri. E proprio Die Zeit aveva pubblicato non meno di due recensioni del libro, una delle quali lo aveva definito come il libro più importante dell'ultimo decennio (Lohmann 1999). Ma a lungo termine, lo stile polemico di Kurz, e le sue escursioni teoriche, spesso assai dense, non erano particolarmente adatti al successo popolare, o accademico. Il suo approccio ultra-critico, e non esattamente educato, nei confronti dei teorici contemporanei, a volte rasenta un'arroganza sprezzante. E sebbene si potrebbe anche supporre che Kurz abbia quanto meno qualcosa in comune con altri sostenitori del pensiero marxista e post-marxista, secondo Kurz stesso è invece chiaro che non è così, se si considera, ad esempio, il seguente passaggio, per nulla atipico, di quella che è l'introduzione al suo ultimo libro, Geld ohne Wert [Denaro senza valore] (pubblicato postumo):
«Tutti i concetti cosiddetti "post", derivano dall'ideologia postmoderna, e sono fondamentalmente incompatibili con la critica marxiana dell'economia politica, così come lo sono con quel "tipo di teoria" e con la comprensione concettuale che la riguardano. L'unico scopo che essa ha [l'ideologia postmoderna] è quello di sabotare qualsiasi progresso teorico che va in direzione della comprensione della nuova situazione storica, per annegarlo nell'eclettismo. ... Il termine "post-marxismo" riassume tutti i tentativi che sono stati fatti allo scopo di "post-modernizzare" la teoria marxista, vale a dire, di eliminare ogni aspetto scomodo di quella teoria in modo che, anziché superare criticamente sia il movimento operaio che il marxismo di partito, lo si virtualizzasse, in modo da renderlo così compatibile con gli interessi della classe media.» (Kurz 2012, 16).
Evidentemente, questo profondo disprezzo per tutta la tradizione del marxismo nella sua totalità – a partire dal movimento operaio tradizionale per arrivare alle sue forme "post-modernizzate" – si è espresso anche come una delle caratteristiche distintive dell'inimitabile stile di scrittura di Kurz. Il fatto che Kurz non rifugga dalle polemiche, appare evidente nel modo in cui egli tratta Heinrich nel suddetto libro – Geld ohne Wert – che fondamentalmente consiste in una lunga confutazione dell'interpretazione di Heinrich della teoria del valore di Marx; basata com'è, secondo Kurz, su un «individualismo metodologico» che contrasta nettamente con l'approccio più olistico dello stesso Marx.
Anche se – o proprio perché – Heinrich sostiene un approccio «critico del valore», che superficialmente potrebbe sembrare essere strettamente correlato a quello di Kurz; egli diventa la personificazione di tutto ciò che oggi è sbagliato nel marxismo e, più specificamente, proprio nella cosiddetta corrente della critica del valore. Una tendenza che oggi - a mezzo decennio dalla prematura scomparsa di Kurz - sembra lentamente prendere piede anche nel mondo anglosassone, laddove alcuni dei disaccordi evidenziati in questo saggio sembrano invece essere tralasciati in favore di una storiografia più unitaria e, senza dubbio, un po' più conveniente. Come sottolinea Esther Leslie (2014, 410) – in quella che è una delle poche recensioni in lingua inglese dell'opera di Robert Kurz – ci sono «molte discussioni riguardo la provenienza e la genealogia dell'approccio della Wertikrik, e la maggior parte di esse sono acrimoniose e territoriali». Non c'è da stupirsi che ci siano state delle controversie, se si considera la natura altamente politicizzata di questi dibattiti. Ma ciò che è fondamentalmente in gioco per uno come Kurz va ben oltre la narcisistica idea accademica di «occupare una nicchia», e di certo non lo si può ridurre a una questione di «differenziare il proprio marchio», come sembra che Leslie, con un tono stranamente suggestivo, scelga invece di inquadrarlo (422).
La questione più importante che dev'essere posta non riguarda se le idee di Kurz siano o meno "originali", se siano delle "reinvenzioni" di discussioni già esistenti o delle "selezioni" da esse, bensì se piuttosto abbiano o meno forza esplicativa, rispetto all'attuale situazione storica, dal momento che offrono un'adeguata prospettiva di antagonismo nei confronti del capitale. Ed è proprio la continua insistenza sulla nozione di crisi in Marx, ciò che consente a Kurz – in contraddizione con Heinrich, e apparentemente anche in contraddizione con Leslie (2014, 416), la quale ritiene che l'approccio di Kurz alle crisi segnali la «debolezza della teoria» che tenderebbe verso «una sorta di inevitabilità economica» – di sviluppare una teoria adeguata del collasso del modo di produzione capitalista.
Crisi e Collasso
Parafrasando il resoconto di Leslie (2014, 416) su Kurz: in tutto il lavoro di Kurz , il termine privilegiato è "crisi". Non c'è nient'altro che crisi, ed è permanente. In altre parole, la teoria delle crisi di Kurz corre come un filo rosso in tutta la sua opera, da Schwarzbuch Kapitalismus a Geld ohne Wert, e sarebbe sempre lo stesso argomento centrale quel che si trova in forme diverse nei numerosi articoli e nei saggi pubblicati nel corso degli anni, dal primo saggio del 1986 in Marxistische Kritik (in seguito ribattezzato Krisis), intitolato "Die Krise des Tauschwerts" [La crisi del valore di scambio], fino a una delle sue ultime elaborazioni, svolta nel saggio "Die Klimax des Kapitalismus" sulla rivista Konkret, nel 2012. In breve, Kurz diagnosticherebbe una crisi sistemica fondamentale del capitalismo, originata dall'esaurimento della fase finale dell'accumulazione del capitale, avvenuto intorno agli anni Settanta. Secondo Kurz, l'ultima ristrutturazione del capitale è stata accompagnata da una grande trasformazione tecnologica della produzione, quella che lui chiama la «terza rivoluzione industriale», la quale ha profondamente alterato la composizione organica del capitale, vale a dire il rapporto tra lavoro vivo, da una parte, e lavoro morto (accumulato) o capitale, dall'altra. Con l'automazione del processo di produzione, il quale – come effetto collaterale necessario – rende sempre più persone superflue alla produzione di plusvalore, il capitalismo entra in aperta contraddizione con sé stesso. Mentre lotta con i propri bilanci interni, il lavoro rimane necessario per la produzione di valore, ma simultaneamente diventa superfluo per il processo di produzione stesso; Il capitale non è più in grado di sostenere, né il proprio ciclo di vita (è incapace di valorizzarsi in misura sufficiente), né la crescente popolazione in eccesso che viene continuamente sempre più esclusa dal proprio metabolismo. Con l'introduzione del computer e della microelettronica, ci sono sempre più lavoratori che vengono espulsi dal metabolismo del capitale; essi vengono semplicemente esclusi, e sono diventati ridondanti per la produzione capitalista. La logica espansiva del modo di produzione capitalistico reca in sé le proprie barriere e le proprie contraddizioni interne. Di pari passo con lo sviluppo del modo di produzione capitalista, le possibilità di espansione si esauriscono gradualmente, e così il lavoro vivo - che è il punto di partenza per la creazione di plusvalore - viene gradualmente sostituito da macchine e tecnologia. La concorrenza tra i capitali individuali, e la loro ricerca di "profitti", li costringe a sostituire i lavoratori con delle tecnologie sempre più avanzate, estromettendo in tal modo quella che è l'unica fonte del plusvalore. In tal modo - secondo Kurz - la terza rivoluzione industriale costituisce la barriera finale al modo di produzione capitalista. Il fatto che il capitalismo tenda a collassare non significa, tuttavia, che il capitalismo si abolirà presto da sé solo; dal momento che il potenziale distruttivo del collasso è indefinito, e può durare per decenni, rendendo così ancora più necessaria la critica del modo di produzione capitalista e delle sue forme sociali.
Una «crítica categoriale»
Secondo Kurz, una vera critica rivoluzionaria deve ambire a una totale rottura "ontologica" con l'edificio della società capitalista nella sua totalità, e con la razionalità illuministica a essa inerente. E questo implica che si vada oltre il paradigma superficiale del tradizionale pensiero marxista, per il quale le categorie più fondamentali del capitalismo – lavoro, valore, merce, politica, ecc. – di per sé non sarebbero problematiche, di modo che, a differenza di Marx, acquisiscono così un carattere "trans-storico". Il lavoro non è qualcosa che dev'essere liberato, e il valore non è qualcosa che va distribuito in maniera più equa. Ma, al contrario, solo mettendo radicalmente in discussione tutte le categorie fondamentali dell'economia capitalista si potranno soddisfare quegli standard fissati da Kurz, per mettere in atto un'autentica critica dell'economia politica. Se Heinrich e altri, hanno cercato di valorizzare il concetto di "Nuova Lettura di Marx" per i propri fini di branding, la relazione che ha Kurz con tale concetto può essere meglio definita negativamente; come un processo continuo di critica nel quale si prendono le distanze. Per Kurz, la maggioranza dei sedicenti marxisti e dei cosiddetti teorici critici del valore, associati o meno che siano alla Nuova Lettura di Marx, non sono stati altro che dei falsi discepoli, incapaci di comprendere e di impegnarsi criticamente con il "vangelo". Nel sacro pantheon del marxismo occidentale, e oltre, ci sono solo poche le eccezioni - che vanno da Marx stesso a Benjamin e Adorno - esenti (solo in maniera limitata) dalla critica feroce di Kurz. Sono pochi i pensatori marxisti che vengono presi in considerazione. Kurz, piuttosto attinge a delle idee sparse e a figure emarginate, come lo studioso russo di Marx, Isaak Ilyich Rubin, e come il suo collega Evgeny B. Pashukanis; oppure si riferisce a una ristretta schiera di eretici comunisti di sinistra, come Anton Pannekoek e Guy Debord. In aggiunta a questo lignaggio di pensiero para-marxiano, Kurz fa ricorso e attinge a piene mani a studiosi di antropologia e storia, come Marcel Mauss o Jacques le Goff, e sembra che, tra i suoi contemporanei, qualcuno come Giorgio Agamben occupi per lui un posto più importante della maggior parte dei santi cavalieri del classico allineamento marxista, da Bernstein a Badiou. Un'eccezione significativa all'antipatia generale, di cui soffre Kurz per gli autoproclamati marxisti e post-marxisti, è lo storico americano Moishe Postone, il quale, nel 1990, ha sviluppato un'analisi del capitalismo sostanzialmente simile a quella di Kurz, e che viene continuamente invocato come fonte di riferimento positiva non solo del lavoro di Kurz, ma anche dei testi prodotti sulle riviste Krisis e Exit!
Per Kurz, il libro fondamentale di Moishe Postone, "Time, Labour, and Social Domination: A Reinterpretation of Marx's Critical Theory" - il quale prende le distanze da quello che viene definito "marxismo tradizionale", e lo fa analizzando la forma di valore del capitale come se fosse una struttura di dominio quasi oggettiva e socialmente mediata - è molto più importante di qualsiasi altra opera in particolare. E ciò implica un cambiamento di focus, da un approccio basato sulla nozione di lotta di classe, verso un'analisi che ha a che fare con l'emergere di un nuovo tipo di dominio sociale, mediato dalla forma di valore, dove l'essere umano si trova a essere subordinato a degli imperativi strutturali impersonali. Quella che Postone e, mutatis mutandis, Kurz vogliono aggiornare è la critica di Marx all'economia politica: «la messa a nudo della legge economica del movimento della società moderna».
Pertanto, per Kurz, la cosa più importante è una critica negativa della società capitalista, e non la lotta della classe operaia contro la borghesia. In altre parole, il marxismo come critica radicale dell'economia politica, e non come progetto politico il cui obiettivo è l'emancipazione della classe operaia. Ed è pertanto in tal senso che Kurz riconosce Postone come un importante precursore di una critica radicale della società capitalista, alla pari di Lukács, da cui deriva in maniera originale la nozione di «critica categoriale», ma che viene comunque criticato insieme a Heinrich, per l'assenza di qualsiasi teoria della crisi. Pertanto, il movimento centrale della critica del valore di Kurz consiste nel reinstallare il conflitto all'interno della forma più elementare di ciò che nella società capitalista è la ricchezza: vale a dire, la merce. Questo conflitto essenziale, attraversa tutti i livelli della sua analisi, e raggiunge il culmine nella teoria della crisi. La crisi non può ridursi a essere solo una semplice irrilevante disturbo in quello che altrimenti sarebbe un macchinario funzionante senza alcun intoppo; va riconosciuta in quanto componente intrinseca di un avanzato «sistema di macchinari» programmato, per così dire, per autodistruggersi. La rivoluzione, in quello che è il vero senso della parola, implica una rottura con tutte le categorie feticistiche derivate dalla forma del valore della merce, e consiste in una de-feticizzazione della razionalità borghese in tutto e per tutto. La forma valore della merce, è una forma che contiene già in maniera latente il potenziale di crisi, vale a dire, un'essenza che – parafrasando Hegel – non può fare a meno di manifestarsi.
Una genealogia del dissenso antipolitico
Come dovrebbe ormai essere evidente, la teoria della crisi implica anche una coerente postura antipolitica; non esiste alcun programma proletario, non c'è nessun piano politico – né nell'opera di Marx né nella teoria critica del valore – che riguardi come dovrebbe realizzarsi l'emancipazione. Tutto quel che abbiamo, è una concezione negativa di quello che è un sistema che si trova sull'orlo di un collasso automatico. Il fatto che Marx abbia cercato di salvare la nozione di "speranza" rivoluzionaria, collegando con la classe operaia allora emergente quella che è stata la sua critica del capitale, e che abbia cercato di teorizzare la classe operaia vista come il soggetto storico - il proletariato, destinato ad abolire il capitalismo e a porre fine allo sfruttamento, mettendo fine così anche al furto dei frutti del lavoro operaio da parte del capitale – è stato poco più che un "errore", una mera espressione delle specifiche circostanze storiche dell'epoca. L'evoluzione storica, dopo Marx, ha dimostrato che la classe operaia è una parte interna al modo di produzione capitalistico e, in tale configurazione, non costituisce alcun tipo di minaccia sistemica per il capitale; sostiene Kurz. Nel corso, e per mezzo, del movimento operaio, la classe operaia ha combattuto per il suo riconoscimento nell'ambito del capitalismo, e non per la soppressione del capitalismo. La lotta di classe del movimento operaio, è stata una competizione interna che si è svolta nel contesto delle categorie immanenti del capitalismo. In altre parole, la sfida è quella di storicizzare Marx e andare oltre il marxismo. Solo così sarà possibile ristabilire la critica radicale, di Marx, del modo di produzione capitalistico. L'emancipazione non dev'essere più proiettata nel futuro, vista come se costituisse un'idea astratta di proletariato in quanto soggetto rivoluzionario, ma va collegata a una continua analisi critica del capitalismo in quanto sistema profondamente irrazionale sull'orlo del collasso sistemico. Il compito non è quello di distribuire la ricchezza in maniera diversa, quanto piuttosto modificare radicalmente il modo di produzione su cui si basa l'obsoleto programmatismo del marxismo del ventesimo secolo. Pertanto, la critica del valore non si oppone solamente al movimento operaio tradizionale – visto nelle sue diverse espressioni politiche e filosofiche, nella sua lotta per una diversa distribuzione dei beni della società e nei suoi sforzi per frenare la paludosa cupidigia del capitale – ma anche a tutti quei marxismi rivoluzionari auto-identificatisi che hanno cercato di rivoluzionare il capitalismo a partire da una revisione socio-materiale nella quale viene assunta la proprietà dei mezzi di produzione, che dalla borghesia passano alla classe operaia. La critica del valore, alla Kurz, considera il proletariato come parte interna del modo di produzione capitalistico; essa è, per così dire, una critica post-proletaria. A distruggere il capitalismo, non saranno i proletari uniti; il capitalismo crollerà da sé solo. Tuttavia, una simile inevitabile rottura non implica in alcun modo una transizione graduale verso un comunismo di lusso, completamente automatizzato, come alcuni di recente (Srnicek e Williams 2015) hanno sostenuto. Alle porte, non c'è alcuna transizione morbida, ma solamente conflitto sociale, e barbarie. Pertanto, la domanda è: di fronte a un collasso planetario in corso, come (ri)organizzarsi, al di là di quelle che sono le forme storicamente obsolete di politiche identitarie?
Rivoluzione: teoria o movimento?
Il capitalismo è condannato. Esso si caratterizza a partire da delle contraddizioni inconciliabili, presenti nelle categorie fondamentali del modo di produzione capitalistico. È questa l'analisi di Kurz. Il capitalismo è diretto verso la sua auto-distruzione, inevitabilmente. E questo, non a causa delle azioni della classe operaia, né per le azioni concertate da tutto il movimento operaio. L'antagonismo tra capitale e lavoro è interno, e non si tratta di trasformare, a livello locale, le classi lavoratrici in un soggetto cosciente, in quello che sarebbe il soggetto storico. Per Kurz, non esiste un proletariato, visto nel senso di una forza interna/esterna in grado di mettere fine allo sfruttamento capitalista. Il proletariato si trova a essere pienamente inscritto nel funzionamento della modernità capitalistica, e nella cultura della classe operaia, non c'è alcuna prospettiva rivoluzionaria. Non esiste un «costituirsi della classe operaia», nel senso dell'emergere di un soggetto ribelle capace di trascendere il capitalismo. Radicalizzando la critica di Debord al movimento operaio consolidato e alla sua lenta integrazione nello stato sociale del dopoguerra, Kurz non solo rigetta le posizioni riformiste e gradualiste che privilegiano la classe operaia, e la considerano come una sorta di comunità senza macchia in grado di affrontare la "bugiarda" borghesia e le sue istituzioni repressive, ma rifiuta anche la nozione di proletariato come classe per sé stessa. Non esiste alcuna essenza proletaria, al di fuori del modo di produzione capitalistico, in grado di lanciare un attacco al capitalismo. Non esiste opposizione. Una "liberazione" - ovvero, la fine del dominio non soggettivo del capitale - può avvenire solo a partire dall'eliminazione di tutti i feticci fondamentali: merce, valore, lavoro e denaro. Tutte le idee di una rivoluzione contro il capitalismo falliranno inevitabilmente, se non saranno in grado di scatenare un processo che vada fino alle radici del male, ponendo fine alle forme quasi oggettive di dominio che caratterizzano il capitalismo. L'Unione Sovietica, si erge ancora come un tragico esempio di tutti quegli sforzi che si sono fermati alla superficie, prendendo il potere, ma riproducendo necessariamente alla fine la produzione di plusvalore, intrapresa ora in nome del proletariato. Come chiarisce Kurz - riecheggiando Debord - tutto ciò equivale solo a che i lavoratori in qualche modo controllino la loro stessa alienazione. L'idea socialista di uno Stato socialista, in una qualsiasi delle sue forme, è solo un'illusione. Non esiste alcuna transizione, né esiste una soluzione eurocomunista alla contraddizione interna del capitalismo. Non si tratta di un modo migliore di gestire l'economia. Non c'è mai stato. Come spiega Kurz, nell'introduzione all'edizione 2009 dello Schwarzbuch Kapitalismus, non esiste alcuna «forza sociale visibile» in grado di realizzare «l'emancipazione sociale» [*27].
Tutto ciò tende a dare alla sua analisi un tono mesto e malinconico; come se scrivesse in tono ironico. Ma Kurz si è lasciato alle spalle la nozione di soggetto rivoluzionario. Sia che esso appaia nella forma della classe operaia cinese, in quella della moltitudine, del precariato o semplicemente del proletariato, l'idea di un soggetto rivoluzionario è ormai solo un residuo problematico di quella che era l'illusione ideologica del "libero arbitrio" di un soggetto borghese. In quanto idea e prassi della rivoluzione, il punto di vista di classe è diventato obsoleto.
Il grandioso abbandono della lotta di classe messo in atto da Kurz, è stato criticato dalle altre componenti dell'ultra-sinistra [*15]. Il fatto che il movimento operaio occidentale abbia indubbiamente contribuito solo a rafforzare la società capitalista (sebbene, naturalmente, abbia garantito i diritti relativi a una lunga lista di questioni precedentemente escluse dallo status "politico"), non significa che tuttavia i lavoratori non abbiano tentato di negare la relazione capitale-lavoro in un certo numero di situazioni storiche, dalla Comune di Parigi, passando per Barcellona nel 1936, e arrivando fino ad oggi. Come scrive Kurz, il movimento operaio ha cercato di strappare il potere alla borghesia e di controllare il processo di produzione capitalista, controllando in tal modo la propria alienazione senza porre fine al dominio capitalista; però ha anche rifiutato il lavoro salariato e si è rifiutato di partecipare alla gestione della produzione di plusvalore; vale a dire, in altre parole, ha tentato di negare il capitale. Il proletariato è – come scrive Maurice Blanchot (1971, 117), riecheggiando Marx – un'identità instabile caratterizzata da una qualità autocritica, "tesa" e necessariamente "scomoda", simultaneamente soggetto e oggetto, merce e proprietario della merce.
Riteniamo che l'analisi che Kurz fa delle contraddizioni fondamentali del capitale sia molto importante, ma siamo riluttanti ad accettare il rifiuto della nozione di lotta di classe che viene messo in atto da Kurz. Proponiamo pertanto di integrare la sua teoria critica del valore con l'analisi, storicamente più sensibile, condotta dal gruppo di estrema sinistra francese Théorie Communiste.
Théorie Communiste emerge, dopo il maggio '68, dal movimento post-situazionista francese e italiano ed è attiva dalla fine degli anni '70, pubblicando dal 1977 una rivista con il nome del gruppo. L'approccio di Théorie Communiste è assai più di tipo storico, rispetto a quello di Kurz, finendo però per arrivare a quelle che sono delle conclusioni in qualche modo simili, sebbene siano allo stesso tempo diverse. A differenza di Kurz, Théorie Communiste si confronta molto più direttamente con la vecchia strategia marxista: attua un'analisi della situazione storica, selezionando quegli eventi considerati di eccezionale importanza nel contesto storico contemporaneo, al fine di individuare il proletariato e consentirgli di emanciparsi dallo sfruttamento e dall'alienazione. Théorie Communiste non ha rinunciato al proletariato, ma usa questo concetto per continuare e per attualizzare l'analisi ultrasinistra e situazionista della società capitalista. Tuttavia, come Kurz, Théorie Communiste sostiene che nella storia del modo di produzione capitalista - con la ristrutturazione dell'economia avvenuta negli anni Settanta e Ottanta sotto forma di nuove tecnologie, esternalizzazione e introduzione di un'enorme quantità di credito - abbiamo superato una soglia decisiva .
Il gruppo fa uso della distinzione marxiana tra sussunzione formale e sussunzione reale del capitale, per dividere la storia della lotta di classe in tre periodi; essendo ora entrati nell'ultimo dei quali, la fase della sussunzione reale, dove un superamento del capitalismo diventa possibile per la prima volta. Nei due precedenti periodi che costituiscono la prima e la seconda fase della sussunzione formale - e che vanno, prima, dal 1830 al 1900, per arrivare poi fino al 1970 - la lotta di classe si è sempre svolta nel contesto di una tutta serie di organizzazioni - come il partito e il sindacato - che, piuttosto di tentare di attaccarla, hanno mediato e sostenuto quella che era la relazione capitale-lavoro. Tutte quelle lotte si configuravano come dei tentativi per cercare di affermare il punto di vista operaio riguardo la relazione capitale-lavoro, che voleva liberare i lavoratori dallo sfruttamento capitalista, senza però smantellare effettivamente le relazioni capitalistiche di base, per mettere i lavoratori a capo della società capitalista. Questo ciclo di lotte rappresenta ciò che Théorie Communiste chiama col nome di programmatismo; il quale ha incluso sia le lotte riformiste che quelle rivoluzionarie. La classe operaia rappresentava, o aveva, un'identità autonoma sottomessa e tuttavia esistente che doveva essere liberata. Il programmatismo costituisce l'autoaffermazione del proletariato, sia tramite le riforme sociali sia mediante la presa socialista del potere. Esisteva un programma: il programma riformista consisteva nella garanzia dei diritti dei lavoratori; Il programma rivoluzionario prevedeva la creazione di uno Stato operaio. In entrambi i casi, l'identità del lavoratore rappresentava sia il riferimento principale che il programma.
Oggi, tale identità non esiste più. Così argomenta in maniera efficace Théorie Communiste, unendosi a Kurz in quella che è una critica radicale nei confronti di qualsiasi tentativo di proseguire sulla strada del vecchio movimento operaio. La ristrutturazione dell'economia che ha avuto luogo negli ultimi quarant'anni, ha lacerato la vecchia classe operaia, la quale non è più in grado di riprodursi. L'esternalizzazione, la precarizzazione, il lavoro informale e l'indebitamento hanno dissolto tutte le precedenti strutture di classe. Pertanto, non esiste più alcuna autonomia dei lavoratori da affermare. Ma su questo non si dovrebbe piangerci sopra, vedendo la scomparsa del "lavoratore" e del movimento operaio come una possibilità; sostiene Théorie Communiste. Oggi, noi ci troviamo sia di fronte a un limite che a una possibilità, e questo nella misura in cui l'insurrezione rivoluzionaria contro il capitalismo diventa possibile per la prima volta, al di là dell'idea di una gestione differente dell'economia capitalista. Ormai, come sottolinea Théorie Communiste (2009, 34), non si tratta più di una gestione socialista del capitalismo, quanto piuttosto dell'abolizione del modo di produzione capitalistico, insieme all'abolizione della riproduzione della classe operaia vista come soggetto/oggetto interno al capitalismo.
«La dinamica di questo ciclo costituisce la crepa, lo strappo [écart] che alcune pratiche attuali creano rispetto a quello che è il limite generale di questo ciclo di lotte: agire come classe. Attualmente, l'attività di classe del proletariato si trova a essere sempre più lacerata al suo interno: finché essa rimane l'azione di una classe, continua ad avere il capitale, come unico suo orizzonte ... Ma simultaneamente, nella sua azione contro il capitale, ciò che affronta è proprio la sua stessa esistenza in quanto classe, che ora deve trattare come un qualcosa da sopprimere».
È in questo modo che Théorie Communiste ci dà conto del come e del perché la resistenza della classe operaia, nel diciannovesimo e ventesimo secolo, sia rimasta parte integrante dello sviluppo del capitalismo, ci dà conto di come la classe operaia sia diventata il proprio progetto e la propria identità da produrre, e non invece un relazione che dev'essere negata. Questo ci aiuta a spiegare la fusione del capitalismo con la classe operaia e con il suo movimento. Per un lungo periodo, il risultato di questo processo è stato l'integrazione o il recupero. Ma a partire dagli anni '80, la frammentazione diventa all'ordine del giorno. I cambiamenti post-fordisti dell'economia hanno distrutto tanto i soggetti riformisti della classe operaia, quanto quelli rivoluzionari, nelle loro forme programmatiche. È stato questo lo sfondo della lunga sequenza di proteste "negative" cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni, dalla Francia del 2005 alla Grecia del 2008, dall'Egitto e dagli Stati Uniti nel 2011, e così via fino ad oggi. Stiamo assistendo alla chiusura e alla fine di quel periodo programmatico nel quale i lavoratori sfidavano ma allo stesso tempo, soprattutto, affermavano il capitalismo.
La lotta di classe del periodo della sussunzione formale non ha mai trasceso il capitalismo, e infatti è stato solo con la transizione verso una nuova era che si è resa possibile una rivoluzione comunista nel senso della fine del capitalismo. Poco a poco, la classe operaia può arrivare a problematizzare le condizioni che la rendono parte del capitalismo, metterle in discussione e possibilmente superarle. In questo momento si tratta soprattutto di un limite, relativo all'incapacità dei lavoratori di riprodursi, come avevano fatto finora. I giovani delle banlieues della periferia di Parigi, della Grecia, dell'Egitto, di tutto il Nord Africa e del Medio Oriente - ma sempre più anche quelli dell'Europa occidentale - si ritrovano a essere isolati dall'economia capitalista. Sono superflui, ridondanti e non è previsto che possano rientrare nel metabolismo del capitale. Questa brutale esclusione rappresenta anche una possibilità; sostiene Théorie Communiste: la relazione capitale-lavoro si trova davanti a un limite storico, aprendosi così a qualcosa di differente. Nella lotta, i lavoratori si scontrano direttamente con quella che è la loro esistenza stessa in quanto lavoratori, in quanto parte del capitalismo; ma si confrontano anche con la possibilità di porre fine a questa relazione, vale a dire, si confrontano con la rivoluzione. Pertanto, la nuova ondata di proteste ha perciò una prospettiva rivoluzionaria, e ce l'ha proprio perché, e nella misura in cui non può avanzare rivendicazioni, se non quelle volte a eliminare immediatamente le forme capitalistiche di base, quali il rapporto salariale e la proprietà privata, in quelle che sono le loro forme attuali. La rivoluzione non può più essere una meta lontana, ma deve presentarsi immediatamente, fin d'ora, nella lotta contro il capitalismo. Oggi l'analisi strutturalista di Théorie Communiste, riguardo la condizione del comunismo di essere possibilità, presenta tutta una serie di somiglianze con la teoria radicale della critica del valore di Kurz - per esempio, l'enfasi posta sia sul capitalismo come dominio senza soggetto, sia sulla "complicità" del lavoratore – e tuttavia non trascura la nozione di lotta di classe, insieme a quella di comunismo visto come «il movimento reale che abolisce lo stato di cose esistente», come scrivevano Marx ed Engels. Come viene provocatoriamente affermato da Théorie Communiste (2016, 17), la teoria critica del valore è una teoria morta perché è del tutto priva qualsiasi nemico. Essa finora ha preferito avanzare letture su vasta scala della struttura fondamentale del capitalismo, mappando l'esistenza degli imperativi strutturali generali che determinano le decisioni politiche, sociali ed economiche. Théorie Communiste si pone più in sintonia con le lotte in atto.
Questo contrasto evidenzia forse quello che è un problema generale della prospettiva della critica del valore. Paradossalmente, il suo abbandono della lotta di classe finisce per perpetuare il dominio capitalista, il quale, per così dire, ha ingoiato e fagocitato tutte le contraddizioni di classe, senza lasciare crepe, o brecce. Allo stesso tempo, per il fatto di lanciare invettive che accusano il "marxismo tradizionale" di essere "affermativo" e "acritico", assistiamo al fatto di vedere che i difensori della tradizione riproducono la vecchia posizione d'avanguardia del capo onnisciente che cerca di mobilitare le masse docili. Il pericolo, è quello che i teorici critici del valore finiscano per confinare nella loro condizione coloro che sono privi di risorse, mentre rivolgono loro improperi e insulti. Questa postura avanguardista, che divide le persone in maestri e allievi, per poi subito dopo cercare disperatamente di annullare tale separazione [*16], rischia di diventare irrilevante via via e nelle misura in cui la crisi peggiora, mentre le lotte proseguono in tutto il mondo nei loro movimenti balbettanti.
- Mikkel Bolt Rasmussen e Dominique Routhier - Pubblicato il 24/7/2023 su https://necplusultra.noblogs.org
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[*1] - Sebbene in "Questo non è un manifesto" Hardt e Negri (2012, 7) abbiano dovuto moderare un po' il loro ottimismo, la loro analisi delle rivolte del 2011, insieme al tono generale, rimane lo stesso: «I movimenti di rivolta e di ribellione ... Ci forniscono i mezzi non solo per rifiutare i regimi repressivi sotto i quali queste figure soggettive soffrono, ma anche quelli per invertire queste soggettività in figure di potere». E così via.
[*2] - Per un resoconto più ricco e canonico - sebbene non esente da problemi - della Neue Marx Lektüre, vedi Ingo Elbe (2010).
[*3] - Qui ci concentriamo sul contesto della Germania occidentale, dal momento che è stato in questo ambiente geografico che i dibattiti hanno prodotto risultati sostanziali nei termini dello sviluppo di una metodologia critica per comprendere la critica marxiana dell'economia politica. Non analizzeremo invece le specifiche ragioni storiche e politiche di tale fatto. Ma di certo, tuttavia, questi dibattiti avvenuti in Germania occidentale non si sono svolti in un completo isolamento, e si sono basati in parte su impulsi teorici che provenivano, per così dire, dall'esterno. Due nomi - che dovrebbero essere menzionati se si prestasse la dovuta attenzione al contesto intellettuale, cosa che purtroppo non rientra nell'ambito di questo saggio – sarebbero Isaak I. Rubin (nato nel 1886; giustiziato durante la Grande Purga del 1937) e Evgeny B. Pashukanis (nato nel 1891; anche lui scomparso nel corso delle purghe del 1937). Entrambi erano studiosi sovietici di Marx, i quali oggi vengono ampiamente riconosciuti in quanto precursori della metodologia critica della forma del valore sviluppatasi più tardi nel dibattito tedesco. Tra le influenze teoriche più o meno contemporanee ai dibattiti della Germania occidentale, Elbe (2010, 10) cita Louis Althusser, Jacques Rancière, Lucio Colletti, Moishe Postone e John Holloway.
[*4] - È assai probabile che Hans-Georg Backhaus (1997, 9) abbia introdotto il termine nel senso specifico che ha acquisito oggi; sebbene Elbe (2010, 31n8) suggerisca che potrebbe invece essere datato al 1973.
[*5] - Il lavoro editoriale è stato svolto sotto la direzione di Pavel Veller, e non faceva parte della prima edizione di MEGA (Marx-Engels Gesamtausgabe), che è cessata prima del suo completamento già nel 1935 (Bellofiore e Fineschi 2009, 2).
[*6] - Come ha affermato Reichelt (1982, 166) nel corso di una presentazione orale polemica, «dalla Scuola di Francoforte, c'era assai poco da imparare, dal momento che essa era rimasta rimasta bloccata nel punto di vista del soggetto borghese».
[*7] - La distinzione tra gli aspetti essoterici e quelli esoterici della teoria di Marx, può essere fatta risalire a Stefan Breuer (1977).
[*8] - Si vedano, ad esempio, Endnotes (2010), Leslie (2014) e Mediations (2013).
[*9] - Però la critica andrebbe applicata – in una certa qual misura – anche a nomi come Wolfgang Fritz Haug, Dieter Wolf, Ingo Elbe e altri associati alla promozione del marchio "Neue Marx Lektüre". Per alcuni commenti critici sulla Neue Marx Lektüre, si veda, ad esempio, Reitter (2015).
[*10] - «Però questa rivoluzione scientifica, questa rottura con il campo teorico dell'economia politica, non era completa. In alcuni punti della sua esposizione, Marx rimaneva aggrappato al campo con il quale poi rompeva proprio in quel momento. Nello stesso testo, così, possiamo osservare una rottura con tale campo e simultaneamente anche la continua presenza di alcuni elementi di quello stesso campo» (Heinrich 2004).
[*11] - Dal punto di vista di Arthur, Hegel è un riferimento naturale per la teoria della forma-valore, nella misura in cui in Hegel può essere identificata - oltre a una dialettica storica - anche un altro tipo di teoria dialettica, la quale può essere trovata in particolare in scritti come la Scienza della logica e la Filosofia del diritto. Secondo Arthur (2011, 2), quella che in Hegel è quest'altra dialettica – la quale, a partire da una prospettiva teorica della forma valore ,fornisce la chiave per comprendere il modo di presentazione che viene impiegato da Marx nel Capitale – «può essere chiamata "dialettica sistemica", visto che si occupa dell'articolazione di categorie progettate per concettualizzare un insieme concreto esistente».
[*12] - Questo è il caso di Elbe (2010). Roswitha Scholz ha criticato spesso la storiografia di Elba, in quanto (euro)androcentrica a scapito di un sottoinsieme di contributi marginalizzati del pensiero marxista che vanno dalla "Wertabspaltungskritik" (la problematica prospettiva di genere che distingue la critica del valore di Scholz, di Kurz e del gruppo Exit! dalle altre posizioni all'interno della critica del valore) fino alla teoria postcoloniale. Si veda, ad esempio, Scholz (2016).
[*13] - Questo è il caso dell'ambiziosa, ma problematica, storiografia globale di Jan Hoff.
[*14] - Entrambe le riviste dispongono di siti web, con ampi cataloghi di testi degli autori a essi associati: cfr. http://www.krisis.org e http://www.exit-online.org . Secondo il gruppo che si è scisso e che ha formato Exit!, la rottura è stata causata da delle differenze legate alla teoria della dissociazione del valore di Roswitha Scholz, secondo cui tutti gli aspetti della vita umana che non sono immediatamente conciliabili con la produzione capitalistica di valore, vengono dissociati e attribuiti alle donne.
[*15] - Principalmente Guigou e Wajnsztejn (2004).
[*16] - Per usare una formulazione rancieriana. Vedi Rancière (1983). Per una critica della posizione dell'avanguardia, vedi Bolt Rasmussen (2018).
fonte: NecPlusUltra - Critica spietata di tutto ciò che esiste