Non era mai banale il filosofo Salvatore Veca, scomparso a Milano lo scorso 7 ottobre, poco prima di compiere 78 anni. Aveva una grande capacità di spiazzare, di indicare nessi reconditi, di imprimere profondità alle sue riflessioni. Ne è un esempio il testo inedito che pubblichiamo in questa pagina, preparato dall’autore come introduzione al ciclo «Lezioni di rivoluzione», organizzato nel 2017 per il centenario della Rivoluzione russa dalla Fondazione Feltrinelli, della quale Veca era stato per lungo tempo prima direttore scientifico e poi presidente. La stessa Fondazione ha incluso questo contributo nel primo di una serie di cinque quaderni dedicati al pensiero di Veca. Qui il nodo con cui si confronta l’autore è quello del cambiamento legato alla perdita di legittimità del vecchio assetto di potere. Ogni evento rivoluzionario rivela un vuoto di autorità nel quale s’inseriscono le forze intenzionate a creare un nuovo ordine politico e sociale. In questo quadro un fattore cruciale, individuato a suo tempo da Immanuel Kant e poi ripreso da Michel Foucault a proposito della rivoluzione francese, è lo scatenarsi dell’entusiasmo, il diffondersi della convinzione che i confini del possibile possono essere dilatati. Poi, certo, ogni rivoluzione è destinata a istituzionalizzarsi. Nel XX secolo ciò è avvenuto attraverso l’affermazione del partito che si fa Stato e assume un «ruolo autocratico» nel quale si esprime la tensione tra la discontinuità rivoluzionaria e la continuità con il passato.
I nuovi confini del possibile. La rivoluzione secondo Kant
- di Salvatore Veca -
Bernard Williams in "La filosofia come disciplina umanistica" distingue tra cambiamenti o rivoluzioni nell’ambito della scienza, adottando l’idea di crisi di spiegazione, e cambiamenti o rivoluzioni nell'ambito dell’etica e della politica, adottando l'idea di crisi di fiducia. Nella scienza, quando troppe cose non tornano, la crisi di spiegazione implica che i sostenitori della vecchia teoria divergono dai sostenitori della nuova teoria, condividendo l’idea che qualcosa non funzioni e che le anomalie e gli intoppi si addensino. Nell’etica e nella politica, quando troppe cose non tornano, i sostenitori del vecchio ordine divergono dai sostenitori del nuovo ordine, ma non condividono l’idea che qualcosa non funzioni. In questo secondo caso, i sostenitori del nuovo ordine trovano le loro ragioni nel collasso della fiducia e delle credenze sulla legittimità del vecchio ordine. Non si tratta, quindi, di una crisi di spiegazione quanto piuttosto di una crisi di fiducia.
Questa prospettiva, nei casi di rivoluzioni politiche e sociali, ci induce a scorgere nel vuoto di potere e di credenza nella sua legittimità come autorità la precondizione fondamentale dell’evento rivoluzionario. Si consideri il lungo processo di erosione delle credenze nella legittimità d’ancien régime che contraddistingue il fenomeno della verifica e della critica dei poteri politici, religiosi, epistemici dei Lumi in Francia e che precede la catena di eventi che, a partire dalla convocazione degli Stati Generali, innesca il processo della Rivoluzione francese e il suo dérapage (slittamento, ndr). Allo stesso modo, si consideri il vuoto di legittimità dell’autocrazia zarista che, sullo sfondo della catastrofe della Prima guerra mondiale, apre lo spazio per il processo rivoluzionario che, a partire dal febbraio del 1917, porta all’Ottobre: data in cui il Palazzo d’Inverno a Pietrogrado è quasi vuoto, il governo provvisorio non ha più alcuna autorità, Kerenskij è fuggito. In modo analogo alla presa della monumentale Bastiglia, nella quale il 14 luglio 1789 erano detenuti solo sette prigionieri. Del resto, dopo la Lunga marcia di Mao, la costituzione della Repubblica popolare cinese presuppone lo sfondo della Seconda guerra mondiale e l’erosione del sistema di potere centrale, almeno dal primo decennio del XX secolo. Tutto ciò attiene alle precondizioni essenziali delle rare rivoluzioni che mirano a istituire un nuovo ordine sociale nello spazio del vuoto o del vacuum imperii o potestatis.
Michel Foucault ha richiamato la nostra attenzione, in un celebre corso del 1983 al Collège de France, su due domande e due risposte fondamentali di Immanuel Kant, a partire dal celebre scritto su Che cos’è l’Illuminismo?. Alla prima domanda sulla natura del processo illuministico, Foucault connette una seconda domanda che si formula nei tardi scritti kantiani di filosofia della storia, della politica e del diritto: che cos’è la Rivoluzione? È nota la risposta di Immanuel Kant alla nuova domanda: che cos’è la Rivoluzione? Ed essa è coerente con le tesi sostenute a proposito dell’Illuminismo. Foucault ne sottolinea la rilevanza: «Kant dice che quello che ha senso e che costituisce il segno del progresso è il fatto che, intorno alla Rivoluzione, vi sia “una partecipazione di aspirazioni che quasi sconfina nell’entusiasmo”. L’entusiasmo per la rivoluzione, secondo Kant, è il segno di una disposizione morale dell’umanità e questa disposizione morale si mostra permanentemente in due modi: innanzitutto nel diritto di tutti i popoli a darsi la costituzione politica che loro conviene e, inoltre, nel principio, conforme al diritto e alla morale, di una costituzione politica in grado di evitare, in virtù dei suoi stessi principi, ogni guerra offensiva. Ora, l’entusiasmo per la rivoluzione esprime proprio la disposizione che porta l’umanità verso una simile costituzione».
Il theatrum revolutionis chiama in causa, in primo luogo, gli osservatori, il pubblico, gli spettatori. Ed è così che si tratteggiano gli effetti di breve termine delle Rivoluzioni politiche e sociali. Come osserva Foucault lettore di Kant, la Rivoluzione francese è un signum prognosticum per i contemporanei e definisce una cesura e un passaggio da un vecchio ordine a un altro ordine che deve istituirsi nel vuoto e nel collasso di fiducia e di legittimità dilatando i confini dello spazio del possibile politico. Mostrando la falsa necessità delle vecchie credenze nel non poter essere altrimenti dell’ancien régime in Francia e nell’ordine autocratico zarista in Russia. (Sullo sfondo l’eco della celebre massima: siamo realisti, chiediamo l’impossibile.) L’entusiasmo «kantiano» per la Rivoluzione russa coinvolge gli spettatori, individui e popoli, perché si è di fronte a un esperimento sociale di rottura della gerarchia come mera coercizione, come oppressione, sfruttamento e umiliazione di amplissimi strati di popolazione, sotto il segno dell’ideale dell’uguaglianza umana. (Così come, nel caso francese, all’autorità come mera coercizione si sostituisce la nuova legittimità di liberté, égalité, fraternité.) Tutto ciò, è bene ripetere, concerne gli effetti di breve. Sugli effetti di lungo termine, il discorso è diverso. In mezzo c’è la questione decisiva post revolutionem: quella della sua fine. E dell’istituzionalizzazione del nuovo ordine. Perché è solo con l’istituzionalizzazione, che sancisce la fine della Rivoluzione, che possiamo rintracciare e saggiare i tratti della continuità e della discontinuità con un qualche ancien régime.
Nel processo rivoluzionario possiamo riconoscere i tratti fondamentali di un conflitto che investe le credenze delle modalità: sono chiamate in causa le credenze della necessità, dell’attualità, della contingenza e dell’attualità. La necessità viene sottoposta all’esame come falsa necessità, alla luce di una dilatazione della possibilità, a partire da un’interpretazione della attualità. La contingenza è il segno dell’inaspettato. Lenin è la figura torreggiante nell’interpretazione della falsa necessità della legittimità dell’autocrazia; nell’interpretazione dell’attualità dell’azione rivoluzionaria alla luce della sua prospettiva marxista; nella contingenza su cui si basa l’idea della sua visione dello sviluppo politico, del partito bolscevico, della rivoluzione come processo propriamente politico in virtù dell’organizzazione; nella consapevolezza della necessità della generazione della rivoluzione nei Paesi dello sviluppo capitalistico sviluppato, in primis la Germania, perché la rivoluzione dei soviet dei contadini, dei soldati e degli operai possa preservare la stabilità della vittoria e del comando politico, della sua trasformazione nella nuova legittimità che, saturando il vuoto di potere, istituisce il nuovo ordine sociale e il nuovo assetto fondamentale delle istituzioni del potere e del governo. Così, il partito bolscevico non può non assumere il ruolo autocratico che realizza, consolida nel conflitto, corrobora il proprio potere, finendo per coincidere con lo Stato come monopolista della forza che si avvale del monopolio del suo impiego legittimo.
Come aveva osservato Samuel P. Huntington nel classico saggio su Ordine sociale e cambiamento politico, le rivoluzioni contadine sconfitte del XVI e XVII secolo generano i Leviatani, mentre le rivoluzioni contadine vincitrici nel XX secolo hanno generato il partito e possono chiudersi con l’invenzione del partito che si fa Stato. Conosciamo bene lo sviluppo storico della costruzione della società socialista. E riconosciamo la tensione fra continuità e discontinuità della Rivoluzione contro Il Capitale, di cui scrisse Antonio Gramsci. Ma questo non riduce, come accennavo, gli effetti globali dell’Ottobre, per gli spettatori e gli osservatori. Per il mondo. Gli effetti, in questa prospettiva, coincidono con la dilatazione delle frontiere del possibile. Una dilatazione che si fonda, per usare la celebre dicotomia di Max Weber, più su un’etica della convinzione o dei principi che su un’etica delle responsabilità. Ma questa è un’altra storia
- Salvatore Veca - Pubblicato su La Lettura del 14/11/2021 -
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