All’inizio del Peintre de la vie moderne, come un pianista che si scioglie le mani con qualche arpeggio, Baudelaire accenna alle incisioni di moda di Pierre de La Mésangère e, subito dopo, con disinvoltura, propone una definizione del Bello. Oscillazione dal particolare più effimero al cielo delle idee. La definizione proposta da Baudelaire non spicca, a prima vista, per novità e originalità: «Il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile, la cui quantità è estremamente difficile da stabilire, e di un elemento relativo, circostanziale, che sarà, se si vuole, volta a volta o congiuntamente, l’epoca, la moda, la morale, la passione». Senza questo apporto, l’elemento invariabile della bellezza sarebbe «indigeribile, inapprezzabile, non adatto e non appropriato alla natura umana». Fin qui siamo ancora nell’ambito delle nobili ovvietà – o per lo meno delle idee che circolavano nell’aria del tempo. Non a torto è stato osservato che nell’Esquisse d’une philosophie di Lamennais si trova una distinzione simile – anche se più molle e timorata nello stile (Lamennais non avrebbe mai osato scrivere che la parte variabile del Bello è un «involucro divertente»). Ma un primo scarto peculiarmente baudelairiano si manifesta subito dopo: «Nell’arte ieratica [si intenda: l’arte arcaica], la dualità si fa vedere al primo colpo d’occhio; la parte di bellezza eterna non si manifesta se non con il permesso e obbedendo alla regola della religione a cui appartiene l’artista. Nell’opera più frivola di un artista raffinato che appartiene a una di quelle epoche che troppo vanitosamente definiamo civilizzate, la dualità si mostra ugualmente; la parte eterna della bellezza sarà al tempo stesso velata e espressa, se non dalla moda, per lo meno dal temperamento particolare dell’autore. La dualità dell’arte è una conseguenza fatale della dualità dell’uomo». Qui finalmente Baudelaire si mostra allo scoperto, con tutta la sua capacità di provocare. Innanzitutto la moda viene messa sullo stesso piano della religione arcaica. Entrambe sono il filtro attraverso cui deve passare la «bellezza eterna». E già questo è sconcertante, non solo perché si parla tranquillamente di opere frivole, ma perché la religione arcaica – quella che appena si cominciava a scoprire in certe sale del Louvre, fra gli Assiri e gli Egizi – viene messa in rapporto sia con la «bellezza eterna» sia con la moda. E non meno scandaloso era il riferimento al «temperamento particolare dell’autore». Come se l’idiosincrasia irriducibile del singolo (l’artista) diventasse la regola – e non già la natura o almeno la tradizione, come si era ripetuto per secoli. In poche righe Baudelaire preparava il terreno per un sommovimento generale. Ma era solo per introdurre uno scarto ancora più disorientante, che in forma di paralogismo si fa avanti nelle righe successive: «Se così vi piace, potete considerare la parte eternamente sussistente come l’anima dell’arte, e l’elemento variabile come il suo corpo. Per questo Stendhal, spirito impertinente, dispettoso, persino ripugnante, ma le cui impertinenze provocano utilmente la meditazione, si è avvicinato alla verità più di molti altri quando ha detto che il Bello non è che la promessa della felicità». Con subdola amabilità, Baudelaire ci avverte subito che sta spingendo la sua provocazione ancora più avanti. E lo fa usando la maschera di Stendhal. L’impertinenza attribuita a Stendhal è quella che Baudelaire sta per mostrare introducendo nella trattazione del Bello un elemento che sino a quel momento le era rimasto estraneo: la felicità. Attraversa il secolo diciannovesimo una lunga competizione che ha come oggetto la noia. Primo campione – e quasi inventore della gara – è il René di Chateaubriand. La sua noia si distingue per la vaghezza e la mancanza di dettagli. È un soffio avvolgente, una tonalità inedita. Con Baudelaire, la noia diventa un «mostro delicato», e si pone come un sinistro Bes sulla soglia di un intero ciclo lirico, che è le Fleurs du mal.
(da: Roberto Calasso, "Ciò che si trova solo in Baudelaire". Adelphi, pagg. 137, euro 14)
I fiori del bene
- di Daria Galateria -
Gli informatori della polizia avevano una strana opinione di Baudelaire. Lo avevano incontrato per caso, a Parigi, allegro, ben vestito e con l’aria di godere di ottima salute. Allegro? Mai, si irritò il poeta; o semmai «in modo da far paura, per sbarazzarmi della gente». E in effetti nel casino della rue Cadet fu visto che «si aggirava con aria sinistra in mezzo alle ragazze che atterriva». Sorride Calasso del dandy indignato della buona salute; questi saggi postumi (ora esce Ciò che si trova solo in Baudelaire) hanno una leggiadrìa, un ritmo aereo e frantumato, un senso profondo e umano del comico che rende ancora più nostalgici del grande saggista.
Come Walter Benjamin, Calasso aveva — ha — il genio della citazione; qui ne trova a volte di “esilaranti”.
Dopo il ’48, Baudelaire si sentì fisicamente «depoliticato» — quasi a dire «scorticato»; divenne il poeta della «bella indolenza» nemica del Progresso, il deluso dalla rivoluzione, volgare «come un trasloco». Ora Calasso trasceglie, sul tema, le frasi ironiche del poeta. Come tutti i suoi amici, anche lui, Charles Baudelaire, aveva avuto la tentazione di chiudersi in un sistema «per predicare a proprio agio» (e già Calasso si diverte con noi). «Ogni volta il mio sistema era bello, vasto, spazioso, comodo, pulito, e soprattutto liscio. E ogni volta un prodotto spontaneo, inatteso della vitalità universale veniva a dare una smentita alla mia… deplorevole utopia».
E sul mondo moderno del lavoro, e la sua divisa ottocentesca, la redingote nera: «Badate che il frac e la redingote non hanno solo una bellezza politica, espressione dell’uguaglianza universale, ma anche una bellezza poetica — un’immensa sfilata di becchini, becchini innamorati, becchini borghesi, celebriamo tutti qualche funerale».
Lo scandalo de I fiori del Male era la commistione tra l’osceno e il devoto, la «sensualità liturgica». Ed ecco Calasso sottolineare i momenti particolari in cui Baudelaire si dedica alla preghiera. Nel quaderno dove il poeta elencava instancabilmente i nomi dei suoi creditori e i conti di guadagni ipotetici, Calasso legge: «Preghiera immediata prima della toilette» — che, specifica il critico, era invece lunga e accurata. In un foglietto volante: «Fare tutte le mattine la mia preghiera a Dio, a mio padre, a Mariette e a Poe» (il padre non lo aveva quasi conosciuto, tutto l’odio era andato al patrigno; Mariette è la cameriera dell’infanzia (gli spiragli di tenerezza, in quei suoi versi sempre sorvegliati, sono rarissimi, e tanto più lesivi: La servante au grand coeur, dont vous étiez jalouse, la serva di cui la madre era gelosa riposa sola, e bisognerebbe pure andare a trovarla: «i morti, i poveri morti, hanno grandi dolori»). Da Dio, e passando per l’antica cameriera, a Poe, che preghiera! E a proposito dei debiti eterni di Charles, Calasso annota un attacco di lettera alla madre: «Tanto tempo fa, al momento dei 500 franchi». Ecco come Baudelaire scansiona il tempo, dalle somme che gli sono concesse — ha ereditato dal padre, ma è stato messo sotto tutela.
La lettura di Calasso, proprio quando è più penetrante, vira a alleggerirsi in un gioco di contrappesi. La famosa teoria delle Correspondances, dell’universale analogia, solleva «la questione misterica, quindi esoterica, ermetica dell’esistenza»: da Platone a Plotino a Giordano Bruno, spiega Calasso, l’aurea catena approda a Poe (il poeta era «privo di qualsiasi bigotteria e pronto a qualsiasi ibridazione»). Tra i pittori, Baudelaire esalta l’illustratore della vita moderna, Costantin Guys, e rifiuta l’en plein air degli impressionisti, «troppo erbivori» per il suo sistema nervoso (nel processo I fiori del Male, la requisitoria denunciò il partito preso della classicità, dei ritmi monotoni che però «arrivano alla testa, inebriano i nervi». È quella di Baudelaire, concorda Calasso, «l’intelligenza di una specie nuova, fondata sui nervi»).
Nella caricatura di Guys, tra i quotidiani fuggitivi e la permanenza “filosofica”, il bello, come sempre, è doppio: «Lo spettacolo lamentevole» e triviale del moderno «eccita un’ilarità immortale»
Alla fine, Calasso torna sul sogno del bordello, già analizzato nel 2008 ne La folie Baudelaire. Qui rileva che i sogni di Baudelaire, in versi o appuntati su un foglio o per lettera, hanno una comune componente architettonica, per insofferenza dandistica alla natura: ma vi irrompono acque celesti, «vari Gange». Ancora più a fondo, il Guignon — la punizione, la malasorte — già nel 1846 nei Consigli ai giovani letterati, e poi a aprire I fiori del Male — avvisa: lo scrittore è il capro espiatorio dell’umanità, fustigato perché «gli uomini godano di peccati senza colpa». E qui, oltre l’armatura inalterabile del dandysmo, Baudelaire e il suo critico mostrano la ferita.
- Daria Galateria - Pubblicato su Robinson del 20/11/2021 -
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