lunedì 27 dicembre 2021

Dopo la società ?!??

Siamo in transito. Non è una metafora. Dopo tanto vagare senza una meta all'interno della società liquida, ci siamo arenati. È un approdo sconosciuto, che assomiglia al mondo che abbiamo lasciato, ma con caratteristiche inedite. In questa nuova fase, si possono scorgere i segni di una modernità in rapido declino propri della società liquida di Zygmunt Bauman, che è stata solo un passaggio temporaneo, un avvertimento di ciò che sarebbe avvenuto di lì a soli pochi anni. L'idea di liquidità, come ultima fase della modernità, conteneva segni evidenti di un disagio sociale: l'insicurezza e l'incertezza nei rapporti umani, la disgregazione della solidarietà, l'individualismo, tradotto in una ricerca frenetica del proprio interesse personale. Questi segnali erano poi accompagnati da più inquietanti dimostrazioni di un cambiamento inarrestabile, tra cui la crisi del lavoro, sempre più precario e smaterializzato, assieme alla supremazia delle nuove tecnologie nella comunicazione, come nei processi produttivi. E infine la sfiducia nella politica, visibilmente privata di un potere effettivo: un potere ormai passato nelle mani di entità sovranazionali e di grandi gruppi finanziari. L'improvvisa diffusione della pandemia da Covid-19 ha contribuito ad accelerare il mutamento, rendendolo necessario nella sua tragicità e nell'urgenza di una risposta quanto più immediata alle esigenze di sicurezza, continuità, riconversione. L'accelerazione ha impresso ritmi inimmaginabili a un processo che era già iniziato a causa della crisi della modernità, ma che avrebbe impiegato più tempo per realizzarsi. Cosa succede ora? Secondo alcuni osservatori, tra cui il sociologo Alain Touraine, ci aspetta un'inquietante prospettiva di 'de-socializzazione' o di fine del sociale. Potremmo allora definire 'post-società' questo tempo nuovo che incombe, una condizione in cui prevalgono le moltitudini, muta la modalità delle relazioni sociali e si alterano i rapporti tra pubblico e privato.

(dal risvolto di copertina di: "Post-società. Il mondo dopo la fine della modernità", di Carlo Bordoni. Luiss University Press. €20)


A confronto con il politologo britannico Colin Crouch, che ha denunciato lo svuotamento degli istituti rappresentativi. Le nuove tecnologie non ci hanno portato più libertà, e la pandemia ha accentuato la spinta all’individualismo che induce Carlo Bordoni a parlare di post-società. Eppure ci sono movimenti vivaci che fanno sperare per il futuro

Post democrazia
- conversazione tra CARLO BORDONI e COLIN CROUCH  -

Colin Crouch, sociologo e politologo britannico, professore emerito all'Università di Warwick e per molti anni docente all'Istituto europeo di Firenze, è noto per avere coniato il termine post-democrazia. Una condizione in cui la pratica democratica perde di consistenza, garantendo solo libertà formali svuotate di contenuto. Il tutto è presentato subdolamente come «normalità», mentre di fatto la politica smarrisce il contatto con i cittadini. Brillante intuizione che Crouch sviluppa in due volumi successivi: uno del 2003 (Postdemocrazia) e un altro del 2020 (Combattere la postdemocrazia), entrambi pubblicati da Laterza. Nel secondo ha adeguato la sua analisi a una situazione in netto peggioramento. In questi anni, infatti, sono cresciuti fenomeni come il populismo e il sovranismo, per non parlare dell’affermazione del neoliberismo a livello sovranazionale. Se prima c’erano ancora margini di speranza, scrive, adesso la situazione è compromessa. L’unica via è combattere la post-democrazia. L’occasione di ragionare con Crouch, che interverrà in streaming all’anteprima di BookCity, si presta a un confronto inedito tra due «post»: la sua post-democrazia e la mia post-società. Un dialogo tra due punti di vista diversi che presentano scenari distopici, utopie alla rovescia.

CARLO BORDONILe nostre due concezioni, unite dallo stesso prefisso, sono indicative di un tempo in cui prevale l’esigenza di recuperare lo spirito critico, un po’ appannato dalla persistenza del pensiero unico. Un tempo in cui tutto è «post» e nasconde il desiderio di superare una condizione di disagio. Credo che il primo a usarlo sia stato Jean-François Lyotard con il post-moderno, sulla scia degli architetti americani che rifiutavano l’architettura razionalista. Il post-moderno ha quindi un diritto di primogenitura, ma anche la responsabilità di avere dato vita a una serie di parole composte che, per il motivo stesso di accompagnarsi a questa intrigante particella, si sono guadagnate grande popolarità. Forse anche troppa, fino a perdere la forza evocativa del «post», non crede?

COLIN CROUCH — Certo, il concetto di «post» può risultare scomodo, ma dobbiamo ricordarci che «post» non significa «non». Le condizioni che esistevano prima del «post» continuano a esistere sullo sfondo, influenzando la nuova condizione, che ne è ancora dipendente, quasi come un parassita. È importante per la mia post-democrazia che tutte le istituzioni della democrazia continuino, ma in modo debole. Anche gli individui di cui lei parla nel suo Post-società (Luiss University Press), dipendono dalla realtà di una vita collettiva. Gli umani non possono sopravvivere senza legami con gli altri. I grandi imprenditori, anche se celebrano il loro individualismo, per mantenere la ricchezza dipendono dall’attività di migliaia di persone, che lavorano per loro senza avere alcun peso individuale nella collettività dell’impresa. L’uso tanto frequente di «post» suggerisce, tra l’altro, che sappiamo da dove proveniamo, ma non dove stiamo. Non lo capiamo. Penso che questo voglia dire che la nostra società è complessa, diversa. Se ci sono tendenze antidemocratiche, ad esempio, c’è anche la loro controparte, movimenti attivi e vivaci.

CARLO BORDONIDopo la post-modernità di Lyotard, il post-industriale di Touraine e la sua post-democrazia, non ho resistito neppure io al fascino del prefisso e l’ho utilizzato per indicare la condizione umana dopo la pandemia. Il termine post-società credo rifletta bene l’effetto alienante di una condizione dove i valori che hanno caratterizzato finora il vivere civile sono messi in secondo piano o lasciati cadere di fronte a un individualismo aggressivo e accentratore. Alcuni di questi aspetti negativi erano già presenti nel mondo liquido denunciato da Bauman, ma la pandemia li ha esasperati, unendoli a nuove forme reattive, proprie di una situazione di emergenza. L’emergenza è anche al centro del suo lavoro sulla post-democrazia. Lei credeva nelle opportunità della rete, in una tecnologia di liberazione. Al contrario, si sta dimostrando uno strumento di manipolazione in mano a pochi. Anche in questo caso siamo di fronte a un «post», sicché il rapporto dei social media con la democrazia è tutto da rivedere. Le previsioni oscure che lei formula nel suo secondo volume lasciano spazio per l’ottimismo?

COLIN CROUCH — Benché i miei libri sulla post-democrazia siano distopici, sostengo che sia sempre importante sforzarsi di vedere il lato positivo, come atto di volontà: come sosteneva Antonio Gramsci, il pessimismo dell’intelligenza, l’ottimismo della volontà. Senza la possibilità dell’ottimismo, si scivola nel fascismo. Nonostante tutto, vedo possibilità positive nell’esperienza terribile della pandemia. Per esempio, abbiamo scoperto l’importanza delle altre persone, dei beni e servizi collettivi, del lavoro di molti lavoratori malpagati e sottostimati. Perciò molti sono pronti a riscoprire l’importanza delle azioni pubbliche, e dunque della democrazia. Ho scritto dell’occasione che per un «momento» ci concede la pandemia. Chissà quanto dura un «momento» storico? Ho in mente un periodo abbastanza breve ma utile, di cui molte persone si ricordano, per ciò che hanno visto e pensato. Questa esperienza può stimolare una nuova volontà collettiva. Fra poco lo dimenticheranno. Ma intanto l’occasione esiste. Mi sembra che questo sia possibile e anche importante per la sua definizione di post-società.

CARLO BORDONISì, c’è da sperare che serva a recuperare il processo di socializzazione, però trovo che dopo la pandemia le prospettive non siano rosee. Perché il cambiamento che osservo in Post-società era già iniziato prima e il Covid-19 lo ha solo accelerato. Penso si tratti di mutamenti irreversibili e che si debba imparare a conviverci. Tuttavia post-società è un termine provocatorio. Non significa che non esiste più una società: anche il post-sociale è fondato su una forma di socialità. Però è «diverso» dal tipo di società precedente, quella moderna. Penso non tanto a una post-modernità, ma a qualcosa di più radicale che mette in discussione i principi su cui erano fondate le relazioni pubbliche e private. Si potrebbe parlare di società digitale, di società individualizzata o iper-tecnologizzata, ma sarebbero definizioni parziali, prive della forza di post-società. C’è l’illusione, che lei ha sconfessato, di poter dominare la tecnologia, contando sulla sua funzionalità intuitiva. Ma soprattutto diviene accettabile l’isolamento sociale, prevale una difesa dei diritti individuali piuttosto che quelli collettivi. Il sociale non è più attuale: è proclamato a parole, al pari degli ideali, di fatto disattesi, di democrazia e uguaglianza. La post-società esalta il singolo, la sua centralità e il suo diritto/dovere di affermarsi e di esprimersi. Il tutto a spese di ogni forma di solidarietà, partecipazione e tolleranza. Se questo è quanto emerge sul piano dei comportamenti, cambia anche il punto di vista politico. Che ne sarà della democrazia? E soprattutto trovo sia giusta la domanda che lei fa alla fine del suo libro: «Dove siamo diretti?».

COLIN CROUCH — Nuovi tempi ci consegnano nuovi attori sociali. L’età dei partiti, visti come portatori dei più importanti progetti collettivi, sta passando. Questo è vero, anche se questi progetti sono individualistici, perché l’individualismo ha bisogno delle azioni pubbliche per realizzarsi. I partiti devono rimanere, perché non vedo la possibilità di confronti pacifici tra posizioni diverse, né di formazione di maggioranze nella politica di massa senza la presenza di qualcosa come i partiti. Ma divengono sempre più i ricevitori quasi passivi delle idee e dei progetti formati altrove. La questione importante è: chi sta altrove? Sono solo le grandi imprese e i ricchi, che possono usare fondi enormi per influenzare il mondo politico? O c’è spazio per un ruolo strategico che rappresenti altri interessi — dei poveri, delle persone minacciate dal cambiamento climatico e così via? Il futuro della democrazia dipende dalla risposta a questa domanda — che dipende a sua volta dalla salute della società — così da poter evitare le conseguenze di una post-società. E a proposito di dove siamo diretti: i nostri due saggi lo spiegano. Speriamo che basti a correggere la rotta.

- Conversazione pubblicata su La Lettura del 14/11/2021 -

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