lunedì 20 dicembre 2021

... ci dicono dal Cile: Ultrasinistra, Wertkritik e Comunizzazione

Parlando coi muri
- di Carlos Lagos -

- Introduzione -
Già da un po' di tempo prima che scoppiasse la ribellione dell'ottobre 2019 in Cile, c'erano alcuni circoli di ultrasinistra che sentivano il bisogno di fare un bilancio della propria attività e della propria storia, e la prima difficoltà - che probabilmente li aveva scoraggiati - era stata quella di sapere di cosa esattamente volessero parlare. Qual era l'estremismo di sinistra del     quale si richiedeva un bilancio? Fino a oggi, la risposta non può che riguardare una manciata di compagni che si conoscevano, che avevano in comune il fatto di essersi messi volontariamente sotto il fuoco incrociato di marxismo e anarchismo, e che sembravano per questo condannati a non avere altri interlocutori se non quelli della propria cerchia di amici più stretti. In simili condizioni, non sembrava giustificato un bilancio che comunque avrebbe avuto ben poco da dire, a parte celebrare la tenacia di coloro che passavano il loro tempo a produrre testi che quasi nessuno leggeva. In realtà, il trascorrere del tempo e l'accumulo di esperienze avevano cambiato il quadro. E poiché per capire l'anatomia della scimmia bisogna osservare l'essere umano di oggi, si è reso prima necessario che la comunizzazione cominciasse ad essere sulla bocca di molte persone, e che i gruppi comunisti della regione cilena cominciassero a parlare con i colleghi di altri paesi, e che nascessero all'interno della regione decine di iniziative più o meno ispirate alla critica categorica del capitalismo, in modo che cominciasse ad avere senso fare il bilancio dell'autocritica di quello che era un collettivo più o meno definito. Un primo assaggio di questa volontà, si trova nell'articolo "Crisi e critica: la resa dei conti", pubblicato sulla rivista "2&3Dorm" (numero 1, 2017), il quale descrive l'emergere di una diffusa corrente comunista sullo sfondo della lotta sociale dell'ultimo quarto di secolo in Cile. Nonostante il titolo, l'articolo non offre una valutazione critica di questa corrente. Tuttavia, ha il merito di nominare e descrivere per la prima volta - con la distanza che proviene dal tempo - un campo di attività ancora giovane , la cui autocritica richiedeva un gesto fondante. La sua lettura può essere un preambolo a questa serie di testi. Nei mesi precedenti alla ribellione di ottobre, sorse dall'interno della diffusa corrente comunista l'idea di generare uno spazio di incontro e di discussione che stimolasse questo bilancio collettivo, in vista di una critica che poi ne superasse i limiti. Sebbene l'incendio improvviso ci ha costretto a cambiare i piani, la questione era già stata sollevata apertamente e pertanto non ci sarebbe voluto molto perché si manifestasse in una forma o nell'altra. Quasi un anno dopo, ha cominciato a circolare "Un lungo ottobre", del Circolo dei Comunisti Esoterici, un testo notevole per la sua lucidità e la sua portata, che senza dubbio contribuisce a rendere possibile un bilancio. Ancora una volta, però, si tratta solo di un'approssimazione, che ricostruisce acutamente il periodo di trasformazioni e di lotte sociali in cui ha avuto inizio l'itinerario del comunismo diffuso in Cile, ma senza però entrare in una critica dettagliata di quella traiettoria. Nelle prossime puntate di questa serie, condividerò alcune riflessioni maturate durante i mesi di Lockdown. Come dovrebbe essere ovvio ormai, queste riflessioni vanno nella direzione di un bilancio autocritico. Ho parlato di «corrente comunista diffusa» solo perché non riuscivo a pensare a una termine migliore per descrivere il campo di legami e attività in cui ci siamo trovati durante tutti questi anni. In altre occasioni ho usato il termine «corrente comunista radicale», e con questo ho voluto descrivere tale tendenza vista come parte dell'ultra-sinistra (spiegherò questa scelta terminologica in successive puntate), sapendo che alcuni compagni preferiscono parlare di «comunismo anarchico», de «i comunisti», e anche di «ultra-comunisti». Credo che il fatto che esistano queste diverse denominazioni, sia un sintomo della fluidità che caratterizza l'ambito, ma indica anche uno dei suoi difetti: questo ambito ha delle difficoltà a guardare sé stesso, e quindi ha difficoltà a criticarsi. Bene, sappiamo che il movimento proletario può avanzare solo criticando senza pietà i propri errori e tentennamenti. Questo è ciò che conta. Qualunque sia il nome che daremo a questa costellazione di pulsioni correlate, abbiamo avuto la possibilità di concepirla come un campo di attività che ha una storia e che è definito dal predominio di certe idee, affetti e forze, entro limiti discorsivi riconoscibili. Qui cercherò di criticare questa costellazione, fermo restando che criticare non significa condannare, ma mettere in crisi. Il mondo intero sta bruciando sul rogo della crisi: non c'è motivo di sperare che non rimangano bruciati anche quelli che ne sono i suoi appassionati negazionisti.

Avanzata e Ritirata
In un testo dedicato a scardinare le pretese di una teoria rivoluzionaria orfana della rivoluzione, Jaime Semprún ammoniva: «quando la nave imbarca acqua, non c'è più tempo per dissertazioni erudite sulla teoria della navigazione: bisogna imparare rapidamente a costruire una zattera, per quanto rudimentale». Si può essere d'accordo o meno, ma tutto indica che anche coloro che oggi si offrono come portavoce di quella che sarebbe la teoria rivoluzionaria per eccellenza, e che agiscono come se avessero la missione di proteggerla dai travisamenti, dimostrando perciò gli errori di tutti gli altri aspiranti al trono, anche loro si sono semplicemente dotati di una zattera che li tiene a galla nel naufragio, proprio come fanno tutti gli altri. Dato che la sinistra ha finalmente rinunciato a ogni ambizione rivoluzionaria, questo atteggiamento ha almeno il merito di continuare ad evocare un anelito a delle trasformazioni profonde, anche se le fa poco onore. Ma sommando e sottraendo, non si può non concludere che stiamo meglio oggi rispetto all'inizio di questo secolo, quando alcuni di noi pensavano che la ripresa della lotta di classe avrebbe dato origine a un'attività teorica rivoluzionaria in sintonia con il conflitto sociale che cresceva dappertutto.
Essendo riluttanti a quelli che erano i miraggi dell'ondata anti-globalizzazione e alter-globalizzazione, e vedendo che la forza investita nella protesta contro i vertici del potere avrebbe potuto essere applicata anche a cause migliori, ci siamo proposti in quei giorni di promuovere una critica categorica del capitalismo, basata su un rifiuto totale dell'universo ideologico borghese, e su una pratica coerente con quei principi. E anche se questo non era esplicito, ciò che animava un simile sforzo era, soprattutto, la convinzione che una prassi genuinamente rivoluzionaria avrebbe dovuto, innanzitutto, darsi intensamente all'immediatezza del movimento reale, alle sue presenze vive e alle sue forze in conflitto. Vent'anni dopo, quel tipo di attività che speravamo di vedere emergere non c'è stato, e invece abbiamo visto emergere un impulso alla ritirata che si aggroviglia sempre più su sé stesso, ritirandosi dal movimento proletario nel mentre che cerca a tentoni, o in modo esplosivo di costituirsi come forza indipendente dal dominio capitalista. Laddove si è cercato di incoraggiare un movimento teorico critico, creativo e vitale, abbiamo visto che ciò che tendeva a prendere il centro della scena, era proprio il contrario: ovvero,una nuova ideologia rivoluzionaria.
Questo non deve essere motivo di delusione: il ruolo della teoria critica non è quello di rimproverare alla realtà di non essere all'altezza delle sue aspettative, ma di capire come è arrivata ad essere quello che è e come si contraddice decretando la propria stessa scadenza. Ciò che la critica può fare, quindi, è disturbare questa contraddizione, esponendola in pubblico. La sua ragion d'essere non è quella di correggere la realtà, ma di abitarla come presenza attiva, intervenendo in essa come un agente provocatore. «Partire da quello che c'è e non dal piano precedente: abitare significa ascoltare con il corpo quello che succede. Questo vale per la politica e per tutto. Governare sarebbe, al contrario, avere un piano di ciò che dovrebbe accadere e fondarlo nella realtà, qualsiasi cosa accada.» (Amador Fernández-Savater)
Ora, nonostante il pregiudizio che presuppone l'esistenza di un vortice ideologico nel campo della critica radicale, ciò non significa che in questo stesso campo di attività non sussista, nonostante tutto, uno spirito critico che abbraccia la vita anziché rifiutarla, che si oppone a questo mondo senza dissociarsi da esso, e che non si aliena da ciò che è umano. Ciò che bisogna scoprire, è come questa posizione sia rimasta intrecciata e aggrovigliata con quell'altra posizione la quale, sostenendo di amare la vita, invece non fa altro che offrirsi come se fosse un punto di riferimento politico, screditando così ferocemente tutto ciò che la vita fa senza il suo consenso ufficiale. Lo scisma è un fattore di creatività e di aumento del potere sovversivo: esso va cercato attivamente. La contraddizione in questione può essere espressa anche in un altro modo, in un linguaggio familiare alle persone coinvolte. Nel criticare l'alienazione religiosa e la sua prosecuzione nella filosofia hegeliana del diritto, Marx scoprì l'essere umano concreto, nella sua esistenza materiale e soggettiva, visto come ragione ultima della necessità di abolire tutte le relazioni in cui l'essere umano viene umiliato e maltrattato. Non è in nome dell'umanità, né di una classe sociale, né di alcun principio astratto, che abbiamo lottato tutto questo tempo: è stato in nome delle forme concrete di vita, e tra queste la vita degli esseri umani concreti, che si manifestano in nostra presenza. Al di là di questo c'è solo aria calda, nutrimento per i preti. Per inciso, la conoscenza teorica di tale posizione assunta da Marx, non ha impedito ai suoi presunti continuatori di ridurre gli esseri umani concreti e le loro relazioni immediate, a dei meri mezzi per raggiungere un fine che li trascende. E forse in tutto ciò, è proprio questo il nocciolo della questione. Laddove ci eravamo ripromessi una prassi che avrebbe superato tutte le vecchie stronzate alienate, è stata invece impiantata una volgare pretesa egemonica sovraccarica di ideologia: una surrettizia negazione della vita.
Ovviamente, dire che si tratta di un risultato indesiderabile, il quale dev'essere criticato significa già riconoscere in partenza che questa critica difficilmente potrà suscitare interesse nelle file di quella sinistra illuminata e terzinternazionalista che immagina la rivoluzione come se si trattasse di un rifacimento del 1917 epurato dei suoi fallimenti, e che a tal fine cerca di far risorgere un'ideologia rivoluzionaria migliorata, o di restaurarne una dimenticata. Che il rifiuto dell'ideologia in quanto tale abbia costituito la base della critica sociale radicale fin dai tempi di Marx non è, in ogni caso, di loro interesse. Per la stessa ragione, questa critica riguarda piuttosto coloro che, avendo preso le distanze da una sinistra pallida e desolata, riconoscendosi come i continuatori dell'impulso radicale lasciato loro in eredità dall'ancestrale epopea umanizzante, formano quell'ultrasinistra spettrale che si dichiara nemica di ogni ideologia, ma che talvolta sembra avere un gran bisogno di ricordarsene. Ad ogni modo, semmai questo testo dovesse attraversare il nostro ambito un po' domestico, sarà bene specificare di che cosa stiamo parlando. E per fare questo, bisogna prima definire cos'è che abbiamo dovuto infrangere fin da subito per poter svolgere la critica che abbiamo fatto.
La sinistra non è altro che l'ideologia dell'Illuminismo. La composizione di questa ideologia sarebbe la seguente. In primo luogo, il predominio della ragione. In secondo luogo, i valori socratici e stoici universalisti e compassionevoli nella loro versione laica. Da questo melting pot emergono libertà, uguaglianza e fraternità. Il marxismo constata il fatto che i valori illuministici sono incompatibili con il capitalismo; e così facendo giudica implacabilmente la morale illuminata, come borghese. (Ariel Zúñiga, "La Izquierda del Estallido", 2020)
Da momento che forse siamo troppo schematici, diremo che una prima rottura con questo universo morale - una rottura con i suoi metodi e forme organizzative, ma non con il suo retroterra ideologico - ha fatto nascere all'«estrema sinistra», una corrente storica guidata da un'intellettualità borghese radicale, fondamentalmente leninista e democratica, la quale si considera rivoluzionaria in contrapposizione al social-riformismo, e che concepisce la classe operaia come un soggetto senza coscienza , che può e deve educare. Questa corrente, che attraverso i suoi idoli e simboli si pone come protagonista spettacolare della lotta di classe del XX secolo, è intrisa di una potente vocazione statale e pedagogica, crede che la crisi dell'umanità si riduca al problema di chi la governa, e disdegna la critica sociale radicale vedendola come un «malattia infantile». E sebbene non sia ancora quella classe politica civile descritta da Gabriel Salazar, tutto ciò che fa, e che non fa, è finalizzato a farne parte.
Si tratta soprattutto di militanti di sinistra senza alcuna rappresentanza parlamentare, i quali partecipano a diverse organizzazioni o collettivi politici, sociali o culturali e che, in alcuni casi, danno di sé stessi una definizione espressa nei termini di un coinvolgimento rivoluzionario (Nicolás Orellana, «La izquierda radical y la construcción de un "nosotros". Experiencia contestataria en Chile contemporáneo»).
A partire dagli anni '90, questa sinistra rivoluzionaria, avvilita e sconfortata dal crollo del blocco sovietico e dalla distruzione del sistema di rappresentanza basato sui partiti politici di massa, si è rifugiata nelle università, dove ha inventato un nuovo campo occupazionale che consiste nel diluire l'ideologia rivoluzionaria mescolandola con le nuove forme di critica culturale promosse dal post-modernismo. Questo atteggiamento le ha permesso di ammorbidire il suo precedente rigido leninismo, e di assorbire molti anarchici i quali, nonostante il loro antimarxismo, avevano comunque un'affinità con la sua spinta ideologica e cultura politica. Negli ultimi decenni, questo amalgama ha giocato un ruolo non trascurabile per quella che è stata l'ascesa dei movimenti popolari, del democraticismo radicale e del rivoluzionarismo settario.
La fine del secolo ha visto emergere, ai margini di questa ricomposizione, una corrente comunista radicale che tentava, con un obiettivo molto chiaro, di staccarsi dal guazzabuglio leninista, filo-agrario e post-moderno, il quale sembrava essere allora l'unico erede della sinistra rivoluzionaria. Questa rottura, tra le altre tendenze sovversive del XX secolo, ha trovato un solido appoggio nell'eredità eterodossa del comunismo conciliare, della sinistra comunista italiana e dell'Internazionale Situazionista.
Chiamiamo questa sinistra dimenticata col nome di sinistra radicale, nel senso che essa, nel suo attacco, è diretta contro tutto ciò che viene identificato come la radice del problema: il capitalismo moderno, visto come regime costituito sul lavoro alienato. Inoltre, queste correnti di sinistra sono state generalmente etichettate anche come «ultra-sinistra»; un concetto questo, che non ci sembra essere offensivo, nella misura in cui viene inteso nel senso di quella radicalità già indicata: una sinistra che è socialista nella misura in cui esiste come controprogetto, come antagonismo cosciente e pratico al capitalismo (Julio Cortés, "Las piezas perdidas en el rompecabezas de la izquierda radical" [nota anche come «ultra-sinistra»]).
Tale «controprogetto antagonista» aveva almeno due caratteristiche, assai specifiche. In primo luogo, aveva più affinità con l'ultrasinistra europea degli anni '70 e con le barocche costellazioni contro-culturali del XX secolo, piuttosto che con la sinistra latinoamericana, con il suo eroismo sacrificale e con le sue routine sindacali-universitarie. In secondo luogo, dirigeva le proprie critiche più verso le ideologie rivoluzionarie e le miserie del progressismo, che verso il governo del giorno e i ben noti nemici del popolo. Per la corrente comunista radicale, questo atteggiamento significava, chiaramente, che essa veniva sempre più disdegnata e disprezzata dai militanti di sinistra, e aveva pertanto sempre meno motivi per interagire con loro. Come vedremo più avanti, questo distanziamento non ha avuto molto a che fare con la rottura fondamentale che riguarda invece i disaccordi identitari e di gruppo, tipici degli ambienti di sinistra.
Quando si tratta di definirsi in un qualche modo che possa essere comprensibile nell'ambiente in cui ci muoviamo, ricorriamo  all'etichetta di «marxismo libertario» (non sempre abbiamo il tempo di spiegare perché il termine «comunisti» sia invece il più appropriato sotto ogni punto di vista). In effetti, assumere se stessi come «marxisti autonomi» o come «marxisti libertari» garantisce una sana distanza sia dalla nozione di «stalinista» (che la gente associa al comunismo), sia dall'idea di «anarchico» che viene associata all'anarchismo ideologico organizzato. (Núcleo de IRA, Sobre Marxismo y Anarquismo)
In queste frasi possiamo già percepire quale sia la precoce preoccupazione che ha questo settore di essere riconosciuto nel mondo antagonista, dal quale, allo stesso tempo, voleva separarsi. In una fase successiva, avendo reciso la maggior parte dei loro legami con la tradizionale militanza di sinistra, coloro che si erano definiti «sinistra radicale» avrebbero assunto una posizione teorica che li avrebbe portati ad abbandonare del tutto questa identità. Una tale posizione comprendeva, da un lato, una critica del capitalismo basata sulla critica dello scambio e del feticismo delle merci, dell'alienazione, della proprietà e del lavoro, così come del soggetto creato da queste categorie; e dall'altro, un rifiuto in blocco sia della modernità capitalista che dell'ideologia illuminista borghese, a partire dalla democrazia e dallo slogan di libertà-uguaglianza-fraternità che venivano denunciati come semplici alibi ideologici per il rapporto sociale di sfruttamento. Questa svolta teorica ha finito per separare completamente la corrente radicale dal resto della sinistra, che o ignora queste critiche, o le disdegna, o le vede come meri sotterfugi decorativi di una prassi incentrata sulla conquista del potere politico e dell'egemonia ideologica.
Gli obiettivi e i metodi dell'ultrasinistra, che poi non sono altro che quelli del riformismo conditi con un linguaggio radicale, non sono i nostri. Non abbiamo niente da vendere ai nostri fratelli di classe, niente con cui sedurli. Non siamo un gruppuscolo che sta competendo, usando prestigio e influenza, con gli altri piccoli gruppi e partiti che pretendono di rappresentare la classe operaia, e di governarla. Siamo proletari che lottano per l'auto-emancipazione con i mezzi a nostra disposizione, e niente di più. Tutta la sinistra e la sua ala estrema, così come molti anarchici senza classe, lo dimenticano deliberatamente. La loro pratica gruppuscolare e fantasiosa dimostra che se hanno uno scopo nella vita, non è certo quello di distruggere la società borghese, quanto piuttosto di guadagnarsi un posto di prestigio in essa, come avanguardia principale degli sfruttati. (Núcleo de IRA, Comunicado de autodisolución)
Il fatto che questo proclama magniloquente sia stato pronunciato nell'autunno del 2006, nel bel mezzo di un ciclo di proteste di massa, indica la volontà dei comunisti radicali di fondersi con il movimento sociale, voltando le spalle ai loro presunti rappresentanti politici e alle loro logiche. Sotto molti aspetti, questa non era altro che una dichiarazione di buone intenzioni, e probabilmente non avrebbe potuto essere niente più di questo. In ogni caso, se questa intenzione è di qualche interesse, lo è a partire dal fatto che esprime il desiderio di rompere con la retorica dell'avanguardia formata da rivoluzionari professionisti, e con il conseguente impoverimento gerarchico delle relazioni all'interno del milieu rivoluzionario. Anche sotto questo aspetto, non bastava desiderarlo. Nonostante il suo atteggiamento flessibile nei confronti di forme esterne, nomi, sigle e strutture organizzative, la corrente radicale comunista rimase preda della preoccupazione quasi ossessiva di darsi un'identità che la distinguesse sulla mappa dell'estrema sinistra, come se non bastasse agire diversamente e criticare la realtà con precisione e al momento giusto. Questa preoccupazione era un segno eloquente che la rottura prevista non c'era stata, oppure era stata fatta in modo incompleto. All'interno della corrente radicale continuava ad esserci un forte impulso ideologico, che prima o poi avrebbe finito per manifestarsi apertamente. Ciò nonostante, nei quindici anni successivi il desiderio di formare una corrente rivoluzionaria capace di esprimere il movimento sociale nei suoi aspetti più radicali, diede vita a un insieme eterogeneo - e a questo punto difficile da mappare - di periodici, progetti editoriali, produzioni audiovisive, incontri e iniziative pratiche di vario genere. Forse non è esagerato dire che tutto questo mostrò in anticipo, con le sue enfasi antipolitiche, quello che poi sarebbe stato il lato più anti-politico del movimento di rivolta del 18 ottobre; ciò che è innegabile in ogni caso, è che esso catturò gli impulsi più profondi, e ancora una volta seppe esprimerli in tempo. Questo, mentre ricostruiva la memoria di tutti quei gruppi e individui che in diversi periodi della storia cilena avevano fatto una critica sociale delle ideologie rivoluzionarie egemoniche. Vista in retrospettiva, la corrente comunista radicale è, nonostante i suoi difetti, quella che ha fatto di più per dare vita a una critica sociale libera da compromessi, da vane illusioni, da opportunismi e indulgenze egoistiche. Ed è proprio per questo, perché il radicalismo non appartiene ai suoi portavoce circostanziali, ma è un attributo impersonale del movimento storico, dal momento che non è garanzia di nulla, se non di sé stesso, e non immunizza nessuno, perché contagia i soggetti con la stessa facilità con cui poi li abbandona, ed è per questo che anche questa corrente rivoluzionaria deve essere bruciata dal fuoco della critica.
In un mondo che si curva sotto il peso dei morti, anche la storia collettiva più insorgente tende a camminare strisciando seguendo la cieca inerzia delle cose, pretendendo di sottrarsi al movimento reale che dissolve tutto nella sua obsolescenza. È il lavoro dello spirito critico, quello di riportarlo nel ciclo di vita e di morte, fuori dal quale non succede mai nulla e non viene mai fecondato nulla. È soprattutto nei tempi in cui la rivoluzione si insinua ovunque, senza avere alcun riguardo per la volontà di nessuno in particolare, che le minoranze rivoluzionarie sono ancora più obbligate a rivolgere la critica contro sé stesse, tornando su ciò che sembrava finito per poi ricominciare tutto dall'inizio, «facendosi beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi» (Marx, "Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte"). A partire da questo, dovrebbe essere abbastanza chiaro che si tratta di un regolamento di conti, e di girare pagina. Allo stesso tempo, dovrebbe anche essere chiaro che è impossibile separare il bilancio teorico e politico di un periodo dalle relazioni personali che in quel periodo si sono intrecciate e forgiate. La critica del nostro passato è anche un modo per approfondire l'amicizia tra quelli di noi che continuano a comprendersi, e la fratellanza tra quelli che, anche se non si capiscono completamente, continuano a vedersi come compagni. Come accade sempre, a rompersi sarà solo ciò che non è stato costruito per poter resistere. Ed è meglio che sia così, perché si tratta di superare la pigrizia legata alla stabilità e di abbandonare i vicoli ciechi. In breve, si tratta di aprire la strada.

Breve storia di un naufragio
Negli ambienti antagonisti cileni, c'è ancora chi ricorda l'esplosione di rabbia che scosse il centro di Santiago alla fine del 2004 durante il vertice APEC. Ma pochi ricordano che questo episodio fu preceduto dall'inaspettata apparizione, nella marcia del Primo Maggio dello stesso anno, di una colonna rosso-nera che si separò visibilmente dal resto del corteo mentre cantava slogan contro il capitalismo e contro il lavoro. Non è solo un banale aneddoto: si trattava di un linguaggio e di un atteggiamento che erano appena riapparsi nelle strade, rimasti in gran parte assenti dal tempo in cui erano stati liquidati il potere popolare e i cordoni industriali .
Quel «Blocco Anticapitalista» - come si definì allora la Colonna - era il risultato di mesi di discussioni tra vari gruppi interessati ad affermare una posizione critica indipendente dalle rappresentanze politiche e sindacali ufficiali. Ma, qualsiasi fossero le intenzioni, la maggior parte di loro si era fino ad allora distinta dal resto della sinistra solo perché metteva il prefisso «anarco» subito prima della parola «sindacalismo», credendo così che la rivoluzione fosse più una questione di cooperativismo che di lotta salariale, e per la loro enfasi sulla violenza di strada. Mentre, dall'altro lato mostravano un pittoresco conformismo quando attribuivano una qualità «libertaria» a tutto ciò che di questo mondo piaceva loro, sia che si trattasse di lavoro - reso preventivamente «dignitoso» dall'autogestione - di musica punk o di cibo vegetariano. Alla periferia di questo ambiente, si muoveva un piccolo gruppo che aveva già da alcuni anni smosso le acque per mezzo di pubblicazioni, incontri e azioni dirette. In quell'occasione, tale gruppo portò al blocco anticapitalista le proprie idee, condensate nella rivista "Antagonismo", e insieme a queste alcune copie del "Manifesto contro il lavoro", del gruppo Krisis, che dovevano servire come base per la discussione. Se a molti degli anarchici partecipanti, l'idea di rifiutare il lavoro salariato sembra già folle di per sé, la proposta di rifiutare del tutto il lavoro li fece proprio impazzire. Alcuni di loro, indignati, dopo aspre discussioni lasciarono il coordinamento in cui avevano girato in tondo, cercando solo di proteggere «l'idea» da quella che consideravano una bestemmia intollerabile. Ma altri, dopo aver superato qualche esitazione, abbracciarono l'approccio antioperaio e iniziarono in tal modo un itinerario che li avrebbe poi portati ad adottare termini che fino ad allora quasi nessuno avrebbe pronunciato senza arrossire, come «proletariato» e «comunismo».
Ma in ogni caso, l'obiettivo di questo piccolo nucleo di agitatori - nel contaminare la colonna libertaria con testi situazionisti e con il Manifesto del gruppo Krisis - non era quello di far sì che gli anarchici adottassero nuovi slogan o una nuova terminologia. Piuttosto, volevano introdurre una prospettiva, un tipo di riflessione critica che, anche se non la consideravano sufficiente, sembrava loro indispensabile per l'emergere di una teoria rivoluzionaria capace di «designare nella realtà sociale ciò che deve essere combattuto, in maniera prioritaria, per trasformarla» (Jaime Semprún). In tale impegno, avevano appreso tre insegnamenti che giudicavano necessari quando si fosse trattato di imprimere una direzione rivoluzionaria chiara e precisa alla prassi sociale (naturalmente, dire che gli insegnamenti erano solo «tre», e non molti altri, è solo una semplificazione schematica fatta per facilitare l'esposizione).
La prima lezione, tratta principalmente dall'agitazione situazionista, era quella secondo cui c'è una differenza chiara e decisiva tra la teoria rivoluzionaria e l'ideologia rivoluzionaria, essendo la teoria il pensiero vivo delle lotte, mentre l'ideologia non rappresenta altro che la sua fossilizzazione burocratica e gruppuscolare. I comunisti radicali ritenevano che il proletariato aveva bisogno di sviluppare una pratica teorica propria, non mediata da interessi separati; credevano anche che questa pratica consisteva fondamentalmente in una critica incondizionata del mondo sotto tutti i suoi aspetti, e che senza di essa i proletari possono solo perdersi e impantanarsi nelle paludi dell'ideologia, condannandosi così alla sconfitta. [*1]
Il secondo insegnamento, tratto dalle eresie comuniste del ventesimo secolo, assumeva che la divisione del movimento rivoluzionario in un'ala marxista e una anarchica, mentre poteva essere giustificata in un'epoca precedente, ora poteva e doveva essere superata. Non perché l'unità o la sintesi delle due correnti fosse un fine desiderabile in sé, ma perché tale divisione è un falso problema ideologico che maschera i problemi reali, i quali invece devono essere affrontati teoricamente e praticamente.
La terza lezione, infine, era che gli arcani della critica del valore e del feticismo possono essere articolati in maniera fertile con le lotte immediate degli sfruttati, e che questa articolazione può essere solo un continuo esercizio di critica e dialogo con tali lotte.
Oggi sappiamo che questi tre elementi insieme, formano una critica categoriale che non si limita affatto ad essere solo teorica o politica, ma costituisce anche uno sfondo etico ed esistenziale, poiché esprime il fatto che ci ribelliamo intimamente e quotidianamente contro ciò che ci costituisce in quanto soggetti del capitale. Una delle conseguenze è che se, nella pratica di pensare il comunismo e la rivoluzione, manca uno di questi elementi,  è difficile che gli altri possano sfuggire alla corruzione ideologica e gruppuscolare. Dopo un certo periodo di tempo - il tempo necessario affinché una generazione di rivoluzionari possa arrivare a considerare e riflettere sulla propria traiettoria di vita, e soppesarne i risultati - possiamo dire che, in qualche misura, questa deriva ideologica e gruppuscolare sia stato il destino della critica radicale nella nostra regione. In molti casi, i gruppi rivoluzionari sono stati solo apparentemente in sintonia con la radicalità dei tempi; l'intenzione teorica annunciata, non è stata sufficientemente autoriflessiva, e non è stata auto-criticata in modo sufficientemente incondizionato; e di conseguenza, gli isolati primordi di teoria rivoluzionaria che sono emersi non hanno potuto contrastare la tendenza all'ideologizzazione e al settarismo. Perché, come abbiamo già detto, non bastava desiderarlo. Mentre il movimento anti-globalizzazione si ritirava dalla scena e le lotte operaie continuavano ad essere messe in ombra da un relativo aumento del salario medio e dall'espansione del credito, le irruzioni studentesche del 2001-2006 erano state sufficientemente anti-politiche [*2] da fare in modo che la nascente critica radicale si sintonizzasse spontaneamente sulla loro dinamica, come dimostra la partecipazione attiva al turbine della rivolta di vari gruppi legati alla rivista "Antagonismo" e ad altri ambienti correlati. Tuttavia, questa partecipazione aveva un carattere marcatamente attivista e propagandistico: non includeva un'analisi delle differenziazioni interne al movimento, né produceva legami stabili con altri gruppi vicini che si trovavano all'interno dello stesso slancio della rivolta, e ai suoi margini. Queste limitazioni hanno avuto il loro prezzo durante la pausa che seguì la «rivoluzione pinguina»: una volta che le richieste del movimento erano state strutturate, e la posizione dei partiti come suoi rappresentanti ufficiali era stata consolidata, l'armonia che la corrente radicale aveva raggiunto all'interno del movimento fu in gran parte persa. Questo era il prezzo da pagare per la convinzione che gli slogan da soli potessero assicurare ai rivoluzionari una posizione di non esternalità rispetto alla lotta. Ma ciò che assicura questa posizione, non sono gli slogan che vengono sventolati nei momenti più eccitanti della rivolta, ma la continuità delle relazioni che legano i teorici a coloro che sono in prima linea nella lotta; e soprattutto la capacità di mantenere tale legame senza dover sacrificare quella distanza critica che permetta loro di avere qualcosa di utile da dire su questa immediatezza. Il relativo disinteresse della minoranza comunista nel coltivare queste relazioni, e nel riflettere collettivamente sullo sviluppo temporale di queste lotte, spiega in parte la successiva assenza di una teorizzazione di lunga data radicata nella contraddizione sociale in atto. Invece, a partire dal momento in cui la «rivoluzione pinguina» cominciò a cedere il passo alla sua rappresentazione politica ufficiale, i sostenitori della critica radicale si ritirarono all'interno della propria orbita, dove l'ascolto era assicurato da forti affinità personali, ma senza alcuna proiezione teorica. In questo ambito, dove prevaleva un'autoaffermazione identitaria intimamente legata a forme contro-culturali, insieme a una sconcertante indifferenza alle lotte della gente comune, le possibilità di sviluppo erano praticamente nulle. Una teoria rivoluzionaria non può fiorire dove i presunti teorici sono solo in dialogo con coloro che difendono uno stile di vita.
Ben presto, questa sterilità si manifestò in modo tragico quando, in ambienti dove la critica radicale aveva cominciato a dare i suoi frutti, la tendenza insurrezionalista, spronata dal crescente conflitto sociale, ma in un certo senso voltandogli le spalle, decise di «passare all'offensiva» con metodi di guerriglia urbana, che difficilmente potevano coesistere con un radicamento sociale a lungo termine e con un atteggiamento critico incondizionato. Questo cambiamento ebbe come ovvia conseguenza una mirata repressione statale contro quegli ambienti dove i comunisti radicali avevano agitato le loro critiche. Naturalmente, il tessuto di relazioni che lì esisteva, è stato in gran parte frantumato non appena c'è stata la perdita di quegli spazi abitativi e organizzativi e, soprattutto, i loro tenui legami con il milieu sociale circostante sono stati spezzati.
Il consolidamento della protesta studentesca come movimento di protesta guidato dai suoi rappresentanti ufficiali (oggi sono parlamentari), da un lato, e la distruzione violenta del tessuto sociale in cui coesisteva una fauna variegata di sovversivi iconoclasti, dall'altro, spinsero una parte considerevole di quell'energia antagonista ad essere assorbita dal cosiddetto «anarchismo piattaformista», il quale, rinvigorito da tale infusione, abbandonò ben presto ogni fervore rivoluzionario, per trasformarsi in una «sinistra libertaria» con fini elettorali; una formula questa, alla quale qualche anno prima nessuno avrebbe dato il minimo credito. Il revival del leninismo universitario, alimentato da uno statalismo tanto nostalgico quanto ignorante, fu l'altra circostanza che accompagnò l'indebolimento dell'impulso radicale nato all'inizio del secolo.
In ogni caso, probabilmente non c'era alcun modo in cui questo impulso potesse attecchire in un movimento nel quale la classe operaia in quanto tale era assente, e il cui protagonista era un corpo studentesco con aspirazioni essenzialmente democratiche tinte di carrierismo, e che aveva come risultato principale il reinserimento legittimante della fino ad allora screditata politica universitaria; fonte tradizionale di sostituzione dell'élite al potere in tempi di crisi. Queste condizioni avverse hanno portato alcuni attivisti radicali a cadere in una certa finzione gruppuscolare favorita dai nuovi usi di internet. Questa finzione consisteva nel lasciar circolare la voce, senza mai smentirla, che dietro un blog o un sito web ci fosse un gruppo organizzato, quando in realtà c'era solo un individuo isolato, oppure lui e il suo compagno del momento.
Questa stessa debolezza nei confronti delle apparenze, fece sì che nel campo sovversivo si vedessero dei «movimenti» i cui membri non assommavano a più delle dita di una mano, rinnovando così la vecchia assurdità trotskista di fondare «partiti» con tre o quattro militanti, portando così allo scoperto, e sotto gli occhi di tutti , il fatto che la rottura con le logiche politiche da parte dell'estrema sinistra fosse stata più apparente che reale. Tuttavia, queste debolezze non impedirono che alcune attività proto-teoriche persistessero sotterraneamente sotto forma di traduzioni, di archeologia rivoluzionaria e di periodici irregolari. Fu, infatti, all'epoca della ribellione studentesca del 2006 che alcuni compagni iniziarono a ricostruire la memoria della critica radicale in Cile, recuperando, tra gli altri, dall'oblio figure come Laín Diez e i suoi numerosi contributi internazionali, Helios Prieto e il gruppo Correo Proletario, Rodrigo Vicuña e le Ediciones del Naufragio, Rafael Kries, Luis Cruz e la sinistra operaia del socialismo cileno degli anni '70. Sempre in quegli anni, a partire da quell'ambiente cominciarono a circolare media di agitazione come "Correo Proletario segunda época" (2006 e 2008), "Comunismo Difuso" (2009 e 2012), il sito comunizacion.org (dal 2008 al 2015), "Revolución Hasta el Fin" (2014), "Anarquía & Comunismo" (dal 2014 al 2018), 2&3Dorm (dal 2016 al 2018); mentre progetti editoriali antagonisti come Quimera, Pukayana, Praxis o Papel Calco si unirono al boom di editori e fiere indipendenti del recente decennio. Tutte queste iniziative, sebbene fossero il risultato degli sforzi sinceri di alcuni compagni, e sebbene stimolassero l'impegno critico di una nuova generazione di anticapitalisti, in nessun caso potevano essere considerate espressioni dell'attività teorica in quanto tale. Piuttosto, hanno incarnato quella Vecchia Talpa che si annida nel sottosuolo sociale, in attesa di condizioni meno avverse, senza mai costituire un'attività di ricerca teorica organizzata e continua. Erano, in ogni caso, solo la zattera con cui alcuni irriducibili, a modo loro, riuscirono ad evitare il naufragio.

Un buon tentativo è solo un tentativo
Se il periodo che va dal vertice APEC del 2004 alla ribellione dell'ottobre 2019 ci mostra qualcosa, è che la teoria rivoluzionaria non nasce spontaneamente, per quanto si esprima il desiderio che ciò avvenga. Qualora le condizioni storiche non impongono la ferrea necessità di un'indagine teorica rigorosa e organizzata, o se, pur avendola imposta, i rivoluzionari non la riconoscono come un'esigenza oggettiva e indipendente dai loro desideri, ecco che allora tale pratica semplicemente non avviene, e al suo posto si svilupperà qualsiasi sostituto ideologico che il momento può portare, e niente di più. Affinché il semplice rifiuto della società diventi una teoria critica, e che questa teoria fondi una prassi sovversiva coerente, devono essere soddisfatte alcune condizioni minime. Primo: la riflessione critica deve riferirsi a un ampio spettro di pratiche proletarie, e non solo ai loro momenti più conflittuali; gli scioperi, le iniziative di autonomia territoriale e tante altre forme di resistenza quotidiana, spesso discrete e poco evidenti, sono altrettanto importanti di quei momenti. Secondo: nessuna teoria critica può assumere come punto di partenza dei riferimenti informativi di seconda mano, senza avere un certo grado di conoscenza e di dialogo diretto con queste lotte; capire cosa motiva gli scioperanti e cosa è in gioco nella riappropriazione di un territorio, interrogare le relazioni sociali che compongono la quotidianità della vita proletarizzata, anche nei suoi angoli più nascosti, conta tanto quanto essere lì dove gli scontri sono più visibili. E infine: non ha senso analizzare la lotta di classe se si tiene conto solo della versione che ne danno i gruppi rivoluzionari, senza considerare le narrazioni mistificanti che agiscono come forze operative nella dinamica stessa della lotta; conoscere in dettaglio la teoria e la pratica del riformismo e della reazione, conta quanto, o più che, avere le proprie convinzioni confermate dalla lettura delle pubblicazioni anticapitaliste. Sebbene nel periodo che stiamo analizzando alcune di queste condizioni siano state occasionalmente presenti - cosa evidente in alcuni brillanti passaggi che si possono leggere nei media citati nella parte precedente - esse non hanno nemmeno lontanamente dato luogo a una pratica teorica strutturata e organizzata. Piuttosto, abbiamo visto l'occasionale flash teorico in mezzo a una routine propagandistica basata sulla ripetizione più o meno elaborata di alcune formule e slogan.
Questo non può assolutamente essere visto come se fosse un difetto che distinguerebbe solo i comunisti anarchici della regione cilena: è probabile che ovunque la prospettiva comunista e la critica del valore abbiano esercitato una certa influenza e che i loro aderenti abbiano finito per sperimentare un certo grado di ripugnanza ad entrare in contatto diretto con il mondo effettivamente sussunto dal capitale; vale a dire, il mondo costituito dalla gente comune e dalle loro lotte quotidiane. Per i comunisti anarchici, pertanto, il problema diventa così quello di come continuare a giocare il ruolo di critici radicali senza però fare riferimento a quella realtà che non vogliono toccare, e così hanno trovato un modo abbastanza semplice per affrontarlo: da un lato, scrivono solo di quelle forme di lotta che li eccitano di più. Mentre dall'altro, per quel che riguarda tutte le altre lotte, quelle di coloro che non possono scegliere così liberamente il loro terreno e i loro metodi, perché stanno fondamentalmente lottando per essere in grado di sussistere e di riprodursi: o le ignorano, o le liquidano come "riformismo", oppure le descrivono astrattamente come «lotte contro lo Stato e la merce», senza però che con questa formula siano effettivamente in grado di dire nulla di utile su di esse.
Questo atteggiamento, del resto, significa che i critici radicali tendono a sostituire lo studio delle dinamiche sociali con il consumo di testi che offrono loro una spiegazione familiare, e quindi rassicurante, del mondo. È possibile che, vivendo così immersi in quella che è la «socializzazione per mezzo di bolle» del nostro tempo, essi non si rendano nemmeno conto di quanta differenza ci sia tra le due cose. Per riassumere, si può dire che studiare le dinamiche sociali significa esaminarle dall'interno, immergersi in diverse esperienze di lotta e conflitto, conversare con persone di tutte le età e di tutti i ceti sociali, studiare testi di vario tipo, immergersi nella contemplazione riflessiva, e così via. Tutto ciò significa che si è esposti a incontrare delle cose che non ci si aspettava, o che non si voleva incontrare, e quindi si rischia di far vacillare le proprie idee.
Chi coltiva in sé una solida e profonda convinzione comunista, non ha motivo di temere di immergersi in questo modo nel caos della realtà. Coloro che, al contrario, provano solo un debole attaccamento a un comunismo visto come un mero ideale, allora hanno bisogno di evitare il pericolo di simili esplorazioni, leggendo abitualmente quei testi familiari che confermano che hanno ragione, e forniscono loro sicurezza e un senso di identità. Questa ricerca di un rifugio gregario, è la base per la formazione di ghetti politici, la cui funzione non è quella di creare poli di critica comunista che influenzino la lotta di classe, ma piuttosto di fornire un rifugio a coloro che hanno più bisogno di compagnia e consolazione. Come chiarisce Regis Debray in un testo intitolato "Il socialismo e la stampa", le prime associazioni operaie e artigiane anticapitaliste erano guidate da uomini che erano allo stesso tempo sia dei plebei che degli uomini appassionati di conoscenza, interessati alla filosofia, alle scienze e alle arti, e impegnati nell'elevazione spirituale della propria classe. Strettamente legato a un simile impulso iniziale, è stato un fatto anche che dagli inizi del movimento comunista moderno, la produzione di teoria rivoluzionaria sia sempre stata un risultato dei legami di corrispondenza tra i rivoluzionari e le sezioni più attive della classe operaia, e non tanto tra gruppi di rivoluzionari convinti. Questo ci dice molto di quello che dobbiamo sapere oggi su noi stessi e su quello che stiamo facendo. In un senso diametralmente opposto, in Cile i comunisti radicali dell'ultimo decennio, riluttanti a interagire con le lotte reali, indifferenti a quasi tutte le attività che non fossero gli scontri con la polizia, e apatici sul terreno sociale sul quale avrebbero potuto superare questa autolimitazione, hanno finito per improvvisare una sorta di zattera agit-prop fatta con il proselitismo verniciato di moderata passione settaria. Più preoccupati di formare una specie di tribù che li rendesse capaci di riconoscersi l'un l'altro attraverso la loro retorica, che di promuovere una genuina ricerca teorica - sottovalutata e considerata solo come materia per gli accademici - hanno finito per promuovere un retorico attivismo ghettizzato. Quantomeno per occhi attenti e sospettosi, questa tendenza settaria aveva già cominciato ad apparire evidente fin all'inizio del decennio che sta per finire. Già allora era ovvio che l'impoverimento teorico non poteva non avere un effetto negativo sulle relazioni immediate tra i rivoluzionari. È per questo che, dopo aver superato un'iniziale esplosione di entusiasmo un po' ingenuo per le formulazioni situazioniste sulla teoria e l'attività collettiva, negli anni di declino che hanno seguito la «rivoluzione dei pinguini» e il processo definito «Caso Bomba», abbiamo tradotto e fatto circolare alcuni testi che problematizzavano la questione specifica dell'organizzazione rivoluzionaria. È il caso della lettera "On Organisation" di Jacques Camatte e Gianni Collu, degli articoli "Organisation as a consequence of practice" del gruppo Imprimerie 34, delle "Notes on the 'problem' of organisation" di Joe Jacobs, del testo "Who we are" del gruppo Proletarian Mail, e "Apocalypse and Survival" di Francesco Kuki Santini, solo per citare alcuni esempi. Lo scopo di queste pubblicazioni non era quello di aumentare l'offerta di merce stampata per soddisfare la domanda dei drogati di ideologia, attraverso un radicalismo distaccato senza passione e senza via d'uscita. Né cercavamo di fornire scuse per l'affinitarismo degli iconoclasti inclini a formare bande di tipo endogamiche. Piuttosto, abbiamo voluto stimolare una riflessione sulla sana distanza che la critica radicale deve mantenere rispetto agli ambienti rivoluzionari, ma anche sulle illusioni immobilizzanti che un tale atteggiamento può comportare.
Forse in questi testi si annidava già un germe settario, pronto a crescere non appena fosse caduto su un terreno favorevole, e in questo caso il fatto di averli pubblicati potrebbe essere visto come un contributo inconscio all'effetto che si voleva evitare; ma in ogni caso, queste critiche avrebbero potuto contribuire a una pratica non settaria solo se fossero state discusse in un ambiente che non avesse l'abitudine di risolvere tutte le questioni per mezzo di formule proverbiali. Se ci fosse bisogno di illustrare questa tendenza a sostituire la discussione teorica con decreti volontaristici, ci sarebbe da dire che è successo che, a forza di ripetere più e più volte la parola d'ordine del MIL che «l'organizzazione è l'organizzazione dei compiti» - come se questa frase fosse una ricetta magica capace di risolvere in anticipo tutti i problemi - si era arrivati a considerare inutile occuparsi di qualsiasi cosa che non fossero dei compiti pratici immediati, consistenti poi quasi esclusivamente nel diffondere alcune verità rivelate che non avevano bisogno di essere discusse. Niente di tutto ciò ha potuto, però, scongiurare la deriva ideologica e settaria già in corso, dal momento che questa deriva non è un errore mentale causato dalla mancanza di una corretta lettura; ma è una pratica nata da uno stato d'animo conformista, che può essere combattuta solo dalla pratica rivoluzionaria di dubitare di tutto e criticare tutto, senza alcuna paura di ferire le suscettibilità o scoraggiare l'adesione di potenziali seguaci.
Queste due tendenze erano già in conflitto latente dal momento stesso in cui nacque il giornale di agitazione "Anarchia & Comunismo", e non cessarono mai di manifestarsi durante i successivi quattro anni in cui il giornale fu pubblicato, e intorno a esso vennero svolte varie attività di agitazione e propaganda.
In generale, in "Anarchia & Comunismo" si manifestò una certa unanimità di approccio e di propositi, che ha permesso di far circolare contenuti chiarificatori e precisi su una scala che non si vedeva da tempo in questa regione. Tuttavia, era solo una questione di tempo prima che la formula attivistica del MIL cominciasse a rivelarsi insufficiente per sostenere o estendere un'associazione di comunisti sulla base che si era già formata. Le evidenti carenze pratiche che limitavano la portata e la profondità dell'agitazione che era stata messa in moto, sembravano essere al di là di ogni critica e al di là di ogni compromesso. La necessaria critica della stessa dinamica organizzativa si è scontrata, com'era prevedibile, con la paura di ferire le suscettibilità, con il bisogno di un rifugio gregario, e forse con il desiderio prioritario di conquistare seguaci.
Non essendo "Anarchia & Comunismo" un mezzo teorico propriamente detto, che non aveva cercato di articolare direttamente la sua attività con le lotte in corso degli sfruttati, e non avendo criticato la sua stessa tendenza a formare un ghetto precario costituito da seguaci passivi, era ovvio che appena si fosse aperta una finestra di opportunità, i seguaci di questa dinamica si sarebbero raggruppati per agitare l'unico contenuto che avevano a disposizione, e che in quel momento sembrava essere capace di suscitare interesse nel campo dell'attivismo universitario e negli ambienti contro-culturali: la falsa dicotomia marxismo-anarchismo. Questo tema, che alcuni di noi avevano cominciato a studiare dieci anni prima - per poi abbandonarlo, considerandolo in quel momento come una bassa priorità - aveva certamente un carattere accademico, nella misura in cui non si riferiva a nessuna lotta immediata del proletariato, e non puntava esplicitamente allo sviluppo di una teoria rivoluzionaria in quanto tale (con l'eccezione forse dello "Schema della sintesi rivoluzionaria del futuro", un testo che in quei giorni circolava senza suscitare molto interesse). Ciononostante, si dimostrò un attraente soggetto di agitazione, in quanto offriva tutti i vantaggi di un attivismo veemente nell'atmosfera residua di attesa lasciata dalla lotta studentesca in ritirata, senza dover affrontare il rischio di una critica tagliente in un ambiente sociale di sconcertante miseria intellettuale. Sebbene la campagna «contro la falsa dicotomia» abbia talvolta attirato una notevole attenzione, in realtà non ha portato molto di più della semplice constatazione che questa dualità ideologica era da tempo caduta in disuso. D'altra parte, ha fatto nascere inavvertitamente una nuova adesione dottrinale, che d'ora in poi tenderà a stringersi sempre di più intorno a sé: quella di coloro che credevano di avere un ruolo di primo piano nel superamento di queste antichità ideologiche, e credevano di averlo anche nella fondazione di qualcosa di nuovo, solo perché avevano avuto l'audacia di dirlo. Non sorprende che nelle loro pubblicazioni abbiano insistito nell'identificarsi con formule come «comunisti per l'anarchia», «anarchici per il comunismo» e altre locuzioni simili; quelle espressioni che inevitabilmente ricordano la vecchia epigrafe per mezzo della quale ogni raggruppamento terzinternazionalista si equipara a tutti i suoi rivali, insistendo nello spiegare «cosa lo distingue» dagli altri. In tal modo la rottura solo superficiale, mai pienamente realizzata, con l'ideologia dell'estrema sinistra apparve ancora una volta. Ma la questione non finisce qui. Questa inconfessata affinità con l'ideologia e il settarismo che l'accompagna, avrebbe avuto molto più da fare negli anni a venire.

Fine di un ciclo: entrano tutti nel rogo
Quando il ciclo delle lotte studentesche era già in pieno esaurimento, e si stava aprendo un nuovo ciclo, segnato da conflitti socio-ambientali e dall'accumulo di agitazioni che avrebbero portato al 18 ottobre, nell'ambiente radicale la dinamica proselitista e settaria aveva già iniziato a consolidarsi. È inutile cercare le ragioni di questa deriva nella soggettività, da parte di coloro che hanno popolato questo ambiente, anche se vi si possono trovare elementi rivelatori. Potremmo soffermarci, per esempio, sul fatto che molti di loro, dalla loro iniziale adesione alle scene punk hardcore locali si sono spostati verso posizioni comuniste, che hanno dato alla corrente comunista radicale la distinzione estetica, la vocazione marginale e le modalità di funzionamento di quelle scene, con tutto quello che hanno di ermetico, esclusivo e distante dall'esperienza dei proletari che passano le vacanze giocando a pallone con i compagni di lavoro. Potremmo anche citare lo sradicamento esistenziale di una generazione di giovani scontenti che, incapaci di costruirsi un'identità basata sul lavoro e la famiglia, non potevano lasciarsi sfuggire l'opportunità offerta dalla critica radicale di riconoscersi in essa come membri di un club più o meno selezionato. Ma non avrebbe molto senso andare oltre in questa direzione, senza considerare quella che è la teoria stessa, e che in quanto fattore decisivo li ha chiamati insieme nella loro deriva verso dinamiche ideologiche e settarie. Nell'ultimo numero del bollettino "Anarchia e Comunismo", una serie di brevi articoli dedicati al concetto di comunizzazione si è conclusa nel modo seguente: « ... assai probabilmente, la comunizzazione non apparirà come possibilità concreta, se non quando le crisi successive avranno reso impraticabili tutte le richieste economiche e democratiche fatte dai proletari per assicurare la loro riproduzione in quanto classe del capitale. I limiti con cui essi stessi si scontrano in queste rivendicazioni sono l'unica cosa in grado di dimostrare il carattere illusorio, e alla fine suicida, della loro adesione al mondo del capitale. Questo non vuol dire che, dopo aver scartato tutte le altre opzioni, la soluzione comunizzante sarà per gli sfruttati il risultato inevitabile. La comunizzazione non sarà il prodotto di un qualche automatismo sociale, ma sarà l'attuazione di una volontà cosciente, assunta da una parte importante della popolazione... per la quale non esiste nessuna garanzia fissata in anticipo.» (“Affilando le parole: la comunizazione”, in "Anarchia & Comunismo" N° 11).
Simili affermazioni dovevano suscitare una domanda scomoda sul ruolo delle minoranze rivoluzionarie. Se l'unica cosa che può dissuadere i proletari dal continuare a riprodurre il loro reciproco coinvolgimento con il capitale è la loro stessa esperienza, allora la propaganda comunista non ha alcuna rilevanza, se non come testimonianza della tenacia di una frazione intrisa di alta morale militante. Ma se, d'altra parte, la rottura di questa relazione reciproca tra proletari e capitale può derivare solo da una decisione deliberata, rispetto alla quale non c'è alcuna garanzia, ecco che allora ci deve essere qualcosa che i rivoluzionari possono e devono fare per promuovere una volontà pro-comunista nel maggior numero possibile di persone. La stessa nota suggeriva una possibile via d'uscita da questo dilemma: se c'è un ruolo per le minoranze comuniste, non è esattamente quello di fare propaganda per «svegliare» i proletari per spingerli a optare per il comunismo, sebbene la loro esperienza non li ha portati lì. Il suo ruolo sarebbe piuttosto quello di anticipare delle misure «che finora la teoria comunista ha solo abbozzato (in testi come "Il programma rivoluzionario immediato" del 1952, e come "Un mondo senza denaro" del 1976, per esempio)», cercando così «di rispondere alla domanda riguardante come, in concreto, debba essere abolita la legge del valore».
Questo compito è, tra l'altro, di tale portata - e comporta un cambiamento di approccio talmente drastico - che difficilmente avrebbe potuto essere affrontato con uno stile organizzativo, con le abitudini mentali e le tonalità affettive abituali nell'ambito comunista anarchico. Soprattutto perché non avrebbe avuto alcun senso intraprenderlo senza assicurarsi, allo stesso tempo, che i suoi risultati avrebbero avuto una visibilità sociale tale da renderli rilevanti per le lotte in corso della classe: che senso avrebbe, per esempio, indagare le possibilità sovversive contenute nell'organizzazione logistica portuale, se non ci sono né i mezzi né i collegamenti per fare di quell'indagine un contributo alle lotte di quel settore? Che possibilità hanno i rivoluzionari di rendere evidente il contenuto potenzialmente comunista delle pratiche di diserzione (reti di approvvigionamento di quartiere, permacultura, cooperative, ecc.), se tutto quello che si pensa di loro è che fanno parte del capitalismo, e quindi non hanno alcuni interesse a collegarsi o ad entrare in dialogo con loro? Che strano vizio è quello di parlare incessantemente di comunismo senza poterlo vedere già all'opera nel presente? Queste e altre domande erano implicite nella parte finale di quella serie di note sulla comunizzazione pubblicata in "Anarchia & Comunismo", e sarebbero state poste esplicitamente se la serie fosse continuata. Tuttavia, tutto indica che questo potenziale, a prescindere, è passato inosservato anche dagli stessi redattori, che sembravano piuttosto essere interessati solo a portare la serie alla fine il più presto possibile. Ciò che stavano cercando di evitare in quel momento, ponendo fine alla discussione, non era semplicemente una sfida alle proprie abitudini di gruppuscolo; cosa che  in ogni caso sarebbe stata di minore importanza. C'era qualcosa di più grande e più complicato che si agitava. Vale a dire: la crisi della relazione di sfruttamento e di riproduzione sociale aveva raggiunto anche le minoranze rivoluzionarie, le quali di certo non hanno possibilità di sfuggire alla decomposizione generalizzata. Così, trovandosi i comunisti anarchici in una posizione sempre più incerta riguardo alla propria funzione sociale, avendo acquisito l'abitudine di isolarsi sprezzantemente dalle arene in cui i proletari cercano di affermare positivamente il loro rifiuto dell'implicazione capitale/lavoro, ed essendo sempre più tentati di compensare la propria assenza con esibizioni di verbosità rivoluzionaria che non impressionano più nessuno.... ci sarebbe voluta una notevole dose di umiltà e di apertura per poter affrontare la propria crisi in tutta la sua ampiezza, prendendola in carico con tutte le sue conseguenze, piuttosto che spazzarla sotto un tappeto di attivismo virtuale, di estetica urbana tribale, di retorica tanto magniloquente quanto sterile. A quei tempi i contorni del problema erano già chiari e non ci sarebbe voluto molto sforzo per distinguerli, forse con l'aiuto di qualche conversazione franca e qualche lettura ausiliaria. Ciò che non si poteva più evitare era il fatto che nessuna minoranza del proletariato può dare una risposta alla totalità del suo movimento, senza che la sua attività pratica sia già in qualche modo una prefigurazione di questa risposta. Ciò significa che la semplice enunciazione di verità teoriche che non si riferiscono concretamente e immediatamente alle lotte proletarie reali, o in ogni caso non fanno parte di uno sforzo collettivo di potenziamento pratico di queste lotte, non è più sostenibile. La prova di ciò è che i gruppi che insistono nel trincerarsi in una tale posizione tendono molto fortemente a diventare - come in questo caso - club illuminati che si accontentano di sentire l'eco delle loro stesse voci come gli viene restituita dalle pareti.
«La pratica rivoluzionaria è, immediatamente, la creazione di nuove relazioni tra gli individui, i cui contenuti sono tanto diversi quanto lo sono le situazioni in cui si trovano. Il fatto stesso che sembra naturale e legittimo cercare di rispondere come se "noi" (ma chi è questo "noi"?) fossimo responsabili del movimento che verrà e del suo buon funzionamento, come se dovessimo dare garanzie al proletariato prima che esso metta in atto l'azione decisiva, non è in realtà evidente. Questo stesso modo di porre le questioni è tipico di un momento storico in cui il comunismo si considerava l'erede legittimo del modo di produzione precedente, in virtù della sacrosanta successione dei modi di produzione. Doveva presentarsi come la versione completa del movimento storico iniziato dal capitale: il capitalismo al suo meglio, dove tutti i problemi sarebbero stati risolti. Ma se mettiamo da parte ogni teleologia, se ci atteniamo alle contraddizioni immanenti del presente e alle dinamiche che queste implicano, se spingiamo fino in fondo la preoccupazione di un pensiero non normativo, non possiamo difendere tali rappresentazioni. In realtà, il comunismo non serve a risolvere alcun problema. Non si tratta di correggere gli errori del passato o di assicurare le condizioni per il futuro: il movimento rivoluzionario si sviluppa interamente nel presente. Da questo punto di vista, parlare di ciò che il comunismo farà o non farà in futuro, senza mostrare il legame necessario tra il movimento rivoluzionario e il comunismo, senza produrre teoricamente il comunismo, è parlare di niente; così come è parlare di niente riferirsi al movimento rivoluzionario senza collegarlo alle condizioni attuali, quali sono. E dal momento che il "nulla" non è in alcun modo vincolante, non sorprende che questo genere di teoria non incontri alcun problema che non sia già immediatamente risolto». ( "Blog Carbure", "Il verde è il colore del dollaro (a proposito di Greta e della transizione tecnologica"). Questi commenti, fatti da qualcuno che può essere considerato un teorico influente all'interno della corrente comunista, hanno una forte affinità con alcune delle opinioni di John Holloway, che in questi ambienti viene spesso descritto come un socialdemocratico radicale, un esponente dell'ala più «gialla» del pensiero comunista. Ma di fatto, nel suo libro "Cracking Capitalism", Holloway sostiene che la lotta quotidiana dei proletari contro il dominio del lavoro morto sulle loro vite è un movimento de-totalizzante, proprio perché negando il capitale, tali lotte negano implicitamente anche la totalità sociale, la quale non è una categoria neutrale, bensì un prodotto del rapporto capitalista. La rottura con il dominio del capitale implica quindi una rottura con ogni teleologia e con ogni direzione predeterminata delle lotte. Nella loro attività quotidiana i proletari non cercano di stabilire una nuova totalità, ma di distruggere la totalità stabilita dalla valorizzazione, produzione e appropriazione del lavoro astratto, così come qualsiasi altra totalità che potrebbe essere stabilita al suo posto. Se in termini cognitivi la totalità è una categoria che permette di cogliere le forme in cui il capitale si esprime e gli antagonismi che suscita, ciò non significa che l'auto-emancipazione dei proletari sia la realizzazione di una totalità positiva finalmente liberata dalla sua forma capitalista. Sia che questa totalità positiva si identifichi con una nuova forma sociale impiantata globalmente, o come la restaurazione universale di una comunità umana perduta, in entrambi i casi il soggetto-capitale è sostituito dalla totalità-soggetto condensata in una classe rivoluzionaria. L'attività concreta come potere autodeterminato non è più l'alfa e l'omega del comunismo, diventando un mero mezzo per la realizzazione di una totalità precedentemente concepita da una minoranza separata; e che per essere realizzata richiede adesione ideologica, spirito normativo e disciplina gregaria sotto la sua guida. In questo modo, il racket non è quindi semplicemente un difetto soggettivo condiviso, ma una modalità di autoperpetuazione del vecchio mondo alienato attraverso coloro che sono inclini ad agire come suoi agenti.
Tutte queste questioni erano già latenti - come ostacoli all'attività dei comunisti anarchici - nel momento in cui il loro principale organo di espressione, il bollettino Anarchia e Comunismo, esalava i suoi ultimi respiri, un anno prima del 18 ottobre. La questione che veniva posta era chiara: come può la critica comunista fatta da una minoranza essere legata alla classe, quando questa critica non serve alle necessità pratiche delle sue lotte? Questo problema è centrale per qualsiasi raggruppamento comunista, ed è per questo che nei tempi passati era un tema ricorrente per chi cercava di ricomporre la critica sociale in condizioni di crisi. È il caso dell'abbondante corrispondenza nella quale Marx ed Engels discutevano le loro relazioni con i gruppi operai organizzati e con il movimento socialdemocratico; è il caso di Sam Moss quando scriveva dell'«impotenza del gruppo rivoluzionario» nel bel mezzo del declino seguito alla sconfitta del proletariato negli anni venti; ed è anche il caso della «doppia riflessione» in cui Ken Knabb voleva fare una fenomenologia dell'autoalienazione dei rivoluzionari, nel riflusso della fine degli anni settanta. Nell'ambiente comunista cileno, questa discussione fu evitata a tutti i costi, e si scelse invece di perseverare in un attivismo che, non potendo risolvere l'unico problema che in quel momento era importante risolvere, si rivelò senza prospettiva, senza entusiasmo e, infine, senza ragion d'essere. Ancora una volta, questo risultato, sul piano mentale e pratico, risulta essere inseparabile dalla teoria che si voleva affermare, o da come essa è stata interpretata. Si dice spesso nell'ambiente comunista che il comunismo è un movimento antipolitico, un'affermazione che non è molto chiara nel modo in cui è stata letta dai suoi sostenitori. Mentre il collettivo Barbaria ha offerto una semplice spiegazione astensionista («siamo antipolitici perché ci asteniamo dal partecipare alla politica borghese»), nei media comunisti francofoni e anglofoni si possono trovare molti commenti brevi e circostanziati, che in realtà confondono piuttosto che chiarire la questione. Per esempio, Gilles Dauvé insiste sul fatto che il comunismo è antipolitico a partire dal fatto che non lotta per il potere o per interessi particolari, mentre allo stesso tempo nelle sue critiche alla democrazia disconosce la regola della maggioranza in nome dei rapporti di forza tra iniziative concorrenti. Sul piano pratico, questa confusione teorica può avere un solo risultato: perplessità, indecisione e paralisi. La ragione è che da questo punto in poi, il comunismo non può più essere pensato in termini di rapporti di potere, ma non può nemmeno essere pensato al di fuori di questi rapporti, e così finisce per essere interpretato come un ideale che parla della realtà, mentre invece si libra in alto sopra di essa, senza che nessun evento reale possa così privarlo della sua purezza. Per opporsi al volontarismo politico, che viene invariabilmente visto come una strada sicura verso il tradimento, il comunismo anarchico si sforza di dimostrare l'errore di ogni affermazione politica senza però essere minimamente interessato al gioco di forze in cui alcuni si rafforzano a spese di altri, e la situazione cambia per tutti. Questa «applicazione pratica» della dialettica negativa lo costringe ad assumere una posizione pessimista, in cui ogni risultato delle lotte immediate viene interpretato come la prova che non si può fare nulla, se non denunciare l'inutilità di qualsiasi sforzo per cambiare l'attuale correlazione di forze. Tuttavia, questo pessimismo non avrebbe ragione di esistere, se non si offrisse come via d'uscita rivoluzionaria, attraverso la quale si deve sostituire la riflessione sui rapporti concreti di forza con l'affermazione di verità concettuali che non vengono mai messe alla prova in nessun combattimento reale. Questa posizione sembra essere ratificata nella produzione di un linguaggio intransigente e di un'estetica combattiva che invoca una totalità sull'altra, senza riferirsi effettivamente a nulla. Lungi dal detenere una posizione antipolitica nel senso di aver superato la politica borghese, questo comunismo è ancora prepolitico, perché non è nemmeno arrivato a capire a cosa si riferisce la politica borghese. Sebbene nell'anno precedente la ribellione d'ottobre, i tentativi di perseverare nell'agitazione critica radicale diedero qualche prezioso frutto, l'acuirsi delle tensioni sociali e gli inequivocabili sintomi di un'imminente crisi esplosiva non riuscirono a dissuadere la tendenza ideologica tra i comunisti radicali, né fino all'ultimo momento stimolarono una autocritica vincente, quando ormai era già troppo tardi. Al contrario, il clima di disordine sociale generalizzato servì solo a rendere ancora più evidente la deriva della corrente, in un attivismo settario che sembrava sempre più fuori luogo, e che apparentemente serviva solo a scongiurare la paralisi in cui essa era caduta senza sapere perché. I gruppi che nell'ultimo decennio avevano fatto rivivere il fallito impulso radicale, e che lo avevano reinterpretato come fosse stato un'invocazione proselitistica del «comunismo anarchico», erano ora dispersi, numericamente indeboliti, e sostenevano in qualche misura, per pura inerzia, uno slancio frammentario e caotico. Quando finalmente vollero riunirsi per fare un bilancio di tutto il periodo precedente, per chiudere un ciclo e aprirne uno nuovo senza perdere la continuità con il loro passato, questa riunione dovette essere interrotta proprio a causa del brusco scoppio insurrezionale del 18 ottobre. Questa battuta d'arresto, lungi dallo smentire la nostra critica, la conferma: l'attivismo retorico basato sulla predicazione comunicativa non è stato risparmiato da un'esplosione di rabbia generalizzata, che si è proprio diretta anche contro le pretese di ultrasinistra di tutti coloro che credono di poter spiegare, incoraggiare o condurre la lotta da una posizione esterna ad essa.

Noi e loro, ovvero le disgrazie del settarismo
Sebbene che nei cinque mesi in cui durò la rivolta in Cile i rapporti di produzione non vennero seriamente alterati, ci fu comunque una violenta rottura tra l'esperienza sociale immediata dei proletari e le rappresentazioni politiche e ideologiche in cui essi si riconoscevano, o che erano loro indifferenti. In questo preciso senso, in un quadro spazio-temporale ristretto, e senza pretendere di aver raggiunto le altezze conosciute dal proletariato sovietico di un secolo fa, il movimento di rivolta fu davvero un'eruzione rivoluzionaria. Non tanto per quello che diceva di volere - le sue richieste non andavano oltre le razionalizzazioni proposte allo stato cileno dall'OCSE - ma per come doveva dirlo, per quello che ha fatto in pratica nonostante la sua retorica.
In breve: per diverse settimane, un proletario cileno su quattro ha partecipato attivamente a una delle forme di lotta diretta in atto, dal momento che per potersi guardare allo specchio la mattina, doveva scrollarsi di dosso tutto il peso inerziale di trent'anni di passività. Questo ha fatto loro scoprire, tra le altre cose, che potevano fare causa comune con coloro che fino a ieri erano loro estranei, e che insieme, invece, erano in grado di affrontare il terrore repressivo con cui la borghesia cercava disperatamente di disinnescare la crisi. Questo movimento convulso si era diffuso con una tale velocità e intensità, e mostrò una tale autocoscienza nella sua escalation, diversificando i suoi obiettivi e metodi, che dovette necessariamente aver colto di sorpresa tutti i gruppi che per decenni, armati di un arsenale ideologico o di un altro, erano stati abituati a dare lezioni al proletariato, mentre esso sembrava dormire profondamente. Per inciso, questa insignificanza finalmente rivelata non ha molta importanza quando si combatte nelle strade con tutti gli altri, perché allora non c'è spazio per la volubilità che aiutava ad ammazzare il tempo nei periodi di pace sociale. Né deve essere motivo di dolore non avere nulla di utile da dire al proletariato nel mezzo della lotta, quando prima non si era nemmeno pensato a preparare ciò che evidentemente sarebbe successo. Perché la verità è che, se non è compito dei rivoluzionari profetizzare la rivoluzione, non ha nemmeno il minimo senso passare la vita a ripetere che la rivoluzione è necessaria, senza allo stesso tempo preparare mezzi pratici e teorici all'altezza di questa ambizione smodata. Questa incongruenza e l'assenza di riflessione su di essa, più di ogni altra cosa, è ciò che distingue l'ultrasinistra di cui il comunismo anarchico fa parte, suo malgrado.
Ma lasciando da parte questa caratteristica, che è tipica di tutte le espressioni del programmatismo in decadenza, la particolare sventura cui la critica comunista è andata incontro nella nostra regione, non è dovuta al fatto che non ha previsto la rivolta, ma che piuttosto, una volta scoppiata, non ha saputo cosa dire su di essa, se non che non era successo nulla. Questo disprezzo emerge in quasi tutti i suoi scritti, ma è particolarmente chiaro nelle "Note sull'inizio della rivoluzione", pubblicate nel febbraio 2020 dal gruppo Vamos Hacia La Vida, che offre una sorta di bilancio dei quattro mesi trascorsi dall'inizio del movimento. Il testo - scritto dall'unico gruppo che ha continuato a fare agit-prop «ultra-comunista» dopo lo scioglimento e prima dello scoppio della rivolta - comincia chiarendo che «la rivolta è la prova del rifiuto della miseria capitalista», che «è stata spontanea perché nessun leader o gruppo l'ha provocata», e che «è una rivolta proletaria, anche se per molti questa parola suona stantia o dottrinaria». Ora, dal momento che tutte queste frasi non è che dicono molto, viene spiegato che in realtà «ciò che è in gioco è capire gli elementi fondamentali ed essenziali che spiegano questo momento storico»: che la società è divisa in due classi, che la lotta tra esse vede alti e bassi, e che questa volta «l'esplosione esprime un contenuto chiaramente proletario, e un esplicito rifiuto del Capitale». A questo punto, per escludere ogni tentativo di «promuovere una lettura schematica e riduzionista», ci viene mostrato come «ci sono rapporti sociali di dominio che riverberano e generano altre forme di sfruttamento, e il confronto radicale e integrale con il Capitale richiede un attacco simultaneo ed efficace su tutti questi rapporti».
Quali sono queste relazioni sociali e quali altre forme di sfruttamento generano? In quali condizioni potrebbe aver luogo un simile «attacco simultaneo ed efficace» e in che cosa consisterebbe? Su tutto questo, non si dice nulla. Né è chiaro, allorché gli autori ammettono che «questo movimento incontra ostacoli e limiti», in cosa consisterebbero, se non che essi «si riferiscono alla mancanza di chiarezza del contenuto di classe» del movimento. In altre parole: i vari problemi posti dalla rottura di ottobre, problemi che una teoria rivoluzionaria dovrebbe analizzare in dettaglio e con cautela, vengono qui ridotti semplicemente a una «mancanza di chiarezza». Su cosa? Su «siamo tutti proletari». I rapporti di forza tra le classi, la loro composizione sociale differenziata, le linee di tensione e di rottura nel rapporto di sfruttamento, la complessa articolazione della risposta sociale alla crisi con le sue espressioni politiche, le determinazioni che trascendono il quadro nazionale, tutto questo sembra essere irrilevante in confronto alla sfida titanica di «avere chiaro» che il soggetto che si è ribellato è un soggetto proletario. Dato che questa categoria è data per scontata, e che la questione delle sue implicazioni per lo svolgimento della lotta reale non è nemmeno lontanamente sollevata, dato che tutto si riduce al fatto che «non c'è chiarezza», a partire da questo assioma fondamentale, tutto indica che il problema sarebbe una questione di percezione e di identità, né più né meno.
In sintesi: non appena il proletariato si rende chiaramente conto di essere il soggetto che rivoluziona la storia, allora possiamo senza dubbio «intravvedere l'avvento di un processo rivoluzionario vero e proprio». Prima e dopo la rivolta, la questione è essenzialmente la stessa: che il proletariato sappia chi è, conosca la propria missione, si identifichi in essa, e agisca in accordo con questa conoscenza e identità. Non c'è molto altro da dire, perché in realtà non è successo nulla: la crisi capitalista, la lotta di classe, la storia, si spiegano semplicemente a partire dal fatto che il proletariato non sa cosa sia. Che tutto ciò non significhi assolutamente nulla sembra importare poco, perché semplifica abbastanza da riuscire a giustificare il ruolo di chi enuncia questo discorso: l'auto-ignoranza che affligge il soggetto rivoluzionario può essere rimediata dall'intervento di quelli che sanno chi sono e possono insegnarlo.
In questa predicazione, la cui ragion d'essere è insegnare, e per mezzo di questo insegnamento suscitare l'adesione a un'identità, è impossibile vedere altro che una pseudo-pratica, un attivismo verbale che non fa che confermare l'incongruenza di fondo tra ciò che si desidera e ciò che si è disposti a fare per trasformarlo in realtà. Qui non si tratta più di rivoluzionari che irradiano tutto ciò che hanno imparato rivoluzionando se stessi (Tesi su Feuerbach), ma di far imparare agli altri qualcosa che si suppone non sappiano, senza che, a coronamento di tutto, questa vocazione pastorale sappia dotarsi dei mezzi per poterlo insegnare loro. Per quanto in questa posizione sia facile riconoscere la vecchia idea leninista secondo cui la crisi dell'umanità è una crisi di leadership da risolvere con mezzi politico-pedagogici, in questo caso particolare il paragone risulta eccessivo, perché i leninisti auto-confessi cercano quanto meno di darsi dei mezzi organizzativi e delle strategie all'altezza delle loro pretese di leadership. La predicazione «ultracomunista», in questo senso, ha in comune con il programmatismo leninista solo la passione pedagogica del pastore impegnato a radunare le sue pecore, la presunzione autocompiaciuta che mantiene coesi tutti i membri di qualsiasi gruppo illustre, dietro la barriera che li separa da tutti quegli altri che non sanno che cosa sono.
È significativo che dopo un paio d'anni di vacillazioni e di decadenza, e dopo un terremoto sociale di una tale magnitudo, queste "Note sull'inizio della rivoluzione" sono state il primo tentativo di bilancio fatto da quel che rimaneva della corrente comunista radicale. Ciò che questo testo mostra è che la rivolta, facendo cadere una pesante pietra su un lungo periodo della storia sociale e politica di questo paese, ha messo anche fine alla traiettoria di una corrente comunista che non ha saputo essere all'altezza delle proprie ambizioni, e che nonostante i suoi successi ha lasciato seminati solo i semi di una dinamica strettamente settaria.
«Ogni setta cerca la sua ragion d'essere e il suo punto d'onore non in ciò che ha in comune con il movimento di classe, ma nelle stravaganze particolari che la separano dal movimento.» (Lettera di Marx a Johann Baptist von Schweitzer, 13 ottobre 1868)
In effetti, dove altro potrebbero cercare il loro valore coloro che si credono in possesso della chiave che dà accesso a«gli elementi fondamentali ed essenziali che spiegano questo momento storico», quando invece questa chiave consiste in due o tre formule che basta ripetere come un mantra in tutte le circostanze? La cosa sorprendente sarebbe se, arrivato a questo punto, il rivoluzionario non si identificasse più con il suo attivismo, non ne facesse una parte essenziale della sua immagine di sé, come se fosse un lavoro o un tatuaggio. Con questo, in ogni caso, non vogliamo dire che i nemici della società capitalista si trovano in una posizione comoda. «Per perseverare in una visione lucida del mondo, bisogna essere posseduti da una tensione che non è facile mantenere, dal momento che essa comporta un rifiuto, una tendenza alla marginalità e un'apparente inefficacia, cose che aiutano ad alimentare la passione, ma che tendono anche a degenerare in amara misantropia o in delirio intellettuale.» (Gilles Dauvé, "Per un mondo senza ordine morale"). Questo monito, con tutta la lucidità che implica, può essere letto come una chiamata a perseverare nella tensione senza mai risolverla, oppure come un invito a superarla teorizzando proprio marginalità e inefficacia, in modo da andare oltre i suoi limiti anziché identificarsi con essi. Detto questo, non si capisce come la ripetizione incessante di due o tre "elementi fondamentali ed essenziali che spiegano questo momento storico", applicandoli indistintamente ad ogni singolo problema sociale che c'è, possa contribuire a questo superamento. Questa predicazione indottrinante, lascia incompiuta la condizione minima di qualsiasi vera prassi rivoluzionaria: quella che, nel conoscere le lotte proletarie, nel riconoscimento delle loro determinazioni storiche, non impedisca a tali lotte di verificare empiricamente il loro contenuto singolare, distinguendovi ciò che è in gioco come lotta singolare. Questo non ha niente a che vedere né con uno spirito evangelizzatore né con un interesse etnografico: basta avere una passione sovversiva, un amore per l'avventura, una curiosità intellettuale e un gusto per la diversità delle relazioni umane; basta essere amichevoli o semplicemente affini ai diversi ambiti in cui si svolge la vita proletarizzata, volendo condividere e imparare piuttosto che dare lezioni, e soprattutto impegnarsi con uno spirito critico, che è qualcosa di assai diverso dall'essere un maniaco della riprovazione. Qualsiasi affinità tra rivoluzionari animati da questo spirito si distingue facilmente dalla semplice aggregazione di refrattari i quali hanno in comune solo l'ossessione di differenziarsi dagli altri.
Se, come sostiene Dauvé, il rifiuto, la marginalità e l'inefficacia alimentano la passione, resta anche da vedere di che tipo di passione si tratta, e quanto abbia o non abbia a che fare con la spinta verso il comunismo. Credo di aver già detto che coloro che riducono la critica sociale all'attivismo retorico e identitario, leggono solo al fine di vedere confermato ciò che già sanno. Pertanto, qualsiasi associazione basata su una simile pratica è destinata ad essere un esercizio parrocchiale per riaffermare continuamente la fedeltà ad un canone, e dipenderà necessariamente da ogni membro che ribadisce la sua approvazione a delle idee e a delle passioni abbastanza semplici per fornire un minimo comune denominatore a tutto il gruppo. L'unica passione abbastanza semplice che può servire a questo scopo, è quella che distingue tra amici e nemici, ed è per questo che le sette rivoluzionarie hanno di solito tra le loro fila qualcuno incaricato di una violenza verbale più o meno sfrenata, per mezzo della quale mettono costantemente alla prova i loro seguaci. Questa propensione impone strane abitudini di lettura, come isolare un frammento del canone al fine di ratificare un segno identitario, o attaccare una teoria senza averla letta, solo perché il canone stabilisce che non è buona. Abitudini che, naturalmente, si accentuano fino alla nausea quando l'attività del proletariato si riduce a poco più che alla sopravvivenza estrema, e quella degli anticapitalisti consiste solo nell'esprimersi su Internet. In tali circostanze, un passaggio come il seguente: « Non c'è lotta per il comunismo senza un minimo di passione e l'identificazione di quello che consideriamo un nemico (...) Anche se il nostro bersaglio è il capitale, la sua forza strutturante e inerziale, e non il capitalista, le relazioni sociali assumono tuttavia un volto umano.» (Troploin, "Sortie d'usine") ... assai probabilmente verrà interpretato nel senso che qualsiasi lotta appassionata per il comunismo - anche la lotta verbale attraverso le reti sociali - richiederebbe l'identificazione di un nemico. Ma restituito al suo contesto, questo passaggio mostra qualcosa di molto diverso. Abbiamo preso questo frammento come caso esemplare.
In "Sortir d'usine", Nesik e Dauvé svolgono un'analisi dettagliata delle lotte operaie a partire dalle ristrutturazioni degli anni 70-80; non parlano di una lotta astratta e disincarnata, ma della lotta sul posto di lavoro, dove attaccare lo sfruttamento significa quasi sempre andare contro un nemico incarnato in un datore di lavoro, un direttore d'azienda o delle strutture fisiche. "Sortir d'usine" non analizza le interpretazioni teoriche della lotta di classe, ma la lotta di classe stessa come è avvenuta in un periodo storico. Se il paragrafo citato viene separato da questo contesto, si perde l'essenziale. Gli autori, lungi dal limitarsi a difendere la «necessità di identificare un nemico», mostrano quanto sia sterile per gli sfruttati limitarsi a questo: «La violenza proletaria di solito non porta alla soddisfazione delle richieste. Al giorno d'oggi ci vuole molta energia per ottenere anche solo qualche briciola. (...) Saccheggiando la sottoprefettura di Compiègne, gli scioperanti continentali identificarono un nemico, lo Stato, da cui si aspettavano che intervenisse in loro favore, un nemico che i lavoratori avrebbero potuto costringere a comportarsi come un alleato. (...) Il grado di violenza in una società non dice nulla di per sé circa capacità che gli sfruttati o i dominati hanno di rivoluzionarla.» (Troploin, "Sortie d'usine")
Non tenere conto di questo può facilmente portare a credere che la lotta per il comunismo sia una ricerca appassionata di nemici, una convinzione che trasforma la causa della lotta - cioè l'inimicizia inerente al rapporto di sfruttamento - nella sua conseguenza ideale, implicando così che lo scopo dei comunisti non sarebbe quello di porre fine alla lotta di classe, ma di perpetuarla con qualsiasi mezzo necessario. Questa inversione è profondamente idealista, perché vede l'inimicizia non come un aspetto parziale di una relazione sociale che deve essere abolita, ma come un aspetto centrale di una relazione che deve essere ricreata denominandola. La teoria rivoluzionaria cessa di essere un modo di sovvertire il reale, e degenera in un semplice mezzo per suscitare passioni che riaffermano il reale così com'è. E ciò che è vero, per un raggruppamento rivoluzionario - per un racket - è la sua necessità di trovare ad ogni costo una coesione, poiché questo è diventato un fine in sé, indipendentemente dalla lotta proletaria. Si sa che tale delirio ha spinto più di un gruppo all'assurdità di pubblicare un testo senza nemmeno averlo letto o discusso, semplicemente perché era stato scritto o tradotto da uno dei suoi membri; oppure cancellare una parte di un testo, non a causa di disaccordi teorici ma perché è stato scritto da qualcuno che la banda ritiene debba essere bandito per antipatia personale.
La ricerca dei nemici non è uno dei motivi centrali della lotta comunista, bensì, piuttosto, dello spirito settario. E se non lo è, non è perché il comunismo sia pacifista, ma perché, essendo la forza che sopprime le condizioni date, ha una natura molteplice, diversa, e si dispiega simultaneamente su molti livelli diversi, senza poter essere ridotto a uno dei suoi momenti, per quanto intenso, conveniente o eccitante esso possa essere. Le lotte, le cui contraddizioni e i cui limiti sono descritti in "Sortie d'usine", pur avendo un ruolo decisivo nella lotta di classe, non sono affatto l'unica manifestazione e non avrebbero nemmeno un ruolo decisivo se non fosse che la loro stessa esistenza è un limite alla riproduzione sociale agli altri livelli. Il carattere "suicida" delle lotte operaie, che non sperano più di recuperare il potere contrattuale dell'epoca fordista, indica precisamente il fatto che il rapporto di sfruttamento rimane centrale solo perché costituisce un impedimento all'appropriazione collettiva della riproduzione sociale nel suo insieme. Identificare il capitale personificato come il nemico nel capo, andargli incontro, sconfiggerlo, è qualcosa che di per sé non assicura nulla se un simile confronto non si inscrive in quel movimento ampio e sfaccettato che è l'appropriazione sociale del processo vitale nel suo insieme. Impedire l'installazione di una fabbrica nociva o la distruzione di un ecosistema, protestare contro un provvedimento o per forzare una legge, organizzare una mensa comunitaria o aiutare i compagni in prigione e le loro famiglie, creare un gruppo autonomo di studio e di agitazione, sono tutti momenti di lotta comunista che inevitabilmente incontrano, prima o poi, il capitale come ostacolo incarnato in un nemico con un nome e cognome, o segnato da un numero di serie. Chiunque conduca queste lotte sa in anticipo che un tale scontro avverrà, e che se non rinuncia ai propri obiettivi dovrà affrontarlo. Ma sapere questo è una cosa, e credere che questo scontro sia lo scopo primario della lotta è tutt'altra. Anche le lotte dei salariati non trovano il loro senso ultimo nell'attacco a un direttore d'azienda o a una catena di montaggio; basta partecipare a un picchetto o all'occupazione di un'azienda per sapere che l'odio per il capo è spesso soltanto un condimento che accompagna un'altra passione assai più vitale e creativa: la gioia di recuperare insieme il tempo della vita e il senso di comunità che si era perso sul lavoro. La passione messa nella lotta per questo recupero della vita, è una forza che viene portata avanti deliberatamente, una forza autodeterminata, un impegno scelto in comune. L'antagonismo di classe, invece, essendo la base strutturale che definisce a priori la nostra esistenza sociale e tutti i suoi momenti particolari, ha bisogno di essere esaltata tanto quanto può esserlo il fatto di essere nati entro i confini di un determinato paese. È a tal punto una fatalità imposta a tutti senza diritto di replica, che non è necessario esaltarla per lottare per una vita migliore, e ancor meno è possibile trovarvi un qualche merito.
Uccidere non è sinonimo di comunizzazione: una rivoluzione comunista sovverte più di quanto elimini. Un segno della degenerazione della dinamica che si scatenò nell'ottobre 1917 fu la trasformazione della rivoluzione in una guerra condotta da un potere statale, deciso a distruggere un nemico dopo l'altro, trattando come tali sia gli anarchici che i reazionari. Di certo, il nostro «obiettivo» è un sistema sociale, e non i capi, i dirigenti, gli esperti e i poliziotti che esso mette al suo servizio. Uno dei punti forti della socialdemocrazia, e poi dello stalinismo, è stato quello di assimilare il capitalismo alla borghesia, ai ricchi, ai «pezzi grossi»: come avviene con il feticismo delle merci, anche il rapporto sociale viene così presentato come se esso fosse una sola cosa, in questo caso una sola persona, il borghese. (Troploin, "Sortie d'usine") È questo, ciò che rende facile dimenticare la deriva settaria. Tra le altre ragioni, a partire dal fatto che - nell'ansia di provare la propria esclusività e assicurarsi la fedeltà dei suoi seguaci - la setta rivoluzionaria deve continuamente competere con nemici reali o immaginari, trattando come tale tutto ciò che sembra minacciare la sua egemonia, è proprio    questo a rendere la setta insensibile e impermeabile a qualsiasi sviluppo teorico reale. Il modo più ovvio in cui la setta realizza un tale slancio egemonico, è quello di far passare per il filtro della propria ortodossia canonica, tutte le teorie sociali che incontra; trovando così la scusa per trattarle come rivali e quindi «cestinarle». Una volta fatta questa pulizia, i suoi seguaci dimostrano la loro lealtà ripetendo il medesimo attacco a quelle teorie, senza nemmeno prendersi la briga di esaminarle da soli. All'interno dell'ambiente settario, è difficile andare contro questo modus operandi, perché qualsiasi tentativo si scontra con l'estorsione del «o sei con loro o sei con noi». Chiunque non accetti la critica ottusa o superficiale di una teoria che è stata individuata come rivale diventa un sospetto e un candidato al bando. Ma la vera critica è incondizionata: può esistere solo al di fuori di questo ambiente.
L'opuscolo "La forma-merce e l'auto-emancipazione dell'umanità proletarizzata", sempre del gruppo "Vamos Hacia La Vida", nel quale viene rifiutata la «nuova teoria della forma-valore», è un caso che serve a illustrare il tipo di pseudocritica appena descritto. Nell'introduzione, i suoi autori elencano tutte quelle che loro considerano essere le inadeguatezze e gli errori della Wertkritik, così come i tutti i pregi, che la renderebbero accettabile per i comunizzatori. E tuttavia, laddove ci era stata promessa una critica imparziale, troviamo invece solo una lista di rimproveri: ci viene detto che «la wertkritik sottovaluta l'umanità proletarizzata come agente storico dell'emancipazione umana», e che «invece di riconoscere i limiti del precedente movimento proletario, sviluppano una teoria della crisi»; dove tutto questo è semplicemente un altro modo per dire che il loro errore è quello di non essere teorici della comunizzazione. In realtà, con tutte queste riserve, "Vamos Hacia La Vida" non fa altro che limitarsi a segnalare che la teoria della forma-valore:
a) non offre un'analisi dettagliata delle lotte salariali, perché le inserisce nel muto contesto esistente tra capitale e lavoro senza esaminarle in dettaglio;
b) vede le lotte proletarie del passato alla luce del loro esito storico complessivo, evidenziando il loro coinvolgimento con il capitale in quelli che sono stati dei momenti eccezionali che lo hanno portato alla crisi;
e c) non costruisce una teoria del proletariato, ma piuttosto una teoria della tendenza del capitalismo alla crisi.
In altre parole: "Vamos Hacia La Vida" (VHLV) si è limitato a prendere nota di tre truismi, per poi gettarli sul ring avvolti in un'aura di vaga recriminazione. Orbene, una teoria rivoluzionaria deve spiegare tanto l'attività dei produttori quanto il movimento del valore in processo e la tendenza alla crisi, visto in quello che è il loro reciproco intreccio. Marx continua ancora a essere quello che è andato più avanti nella direzione di una tale teoria unificata, mostrando il movimento storico del valore come auto-alienazione della specie, e la dinamica in cui questo movimento mina le sue stesse proprie fondamenta fino alla dissoluzione. Le successive teorie del capitalismo hanno in genere enfatizzato, o l'aspetto oggettivo e automatico del processo, o il suo aspetto soggettivo e deliberato, e all'interno di ciascuna teoria troviamo frequenti tensioni tra coloro che enfatizzano un lato o l'altro. Né la critica del valore, con la sua enfasi sulla crisi capitalista e la sua minimizzazione della lotta di classe, né la teoria della comunizzazione con la sua enfasi sulla lotta proletaria e il suo disinteresse per la dinamica automatica della crisi, sfuggono a una tale unilateralità: entrambe sono delle teorie incomplete dell'emancipazione sociale. Accusando la critica del valore di non riuscire a fare ciò che essi stessi non riescono a fare - cioè comprendere il processo in modo completo e unilaterale; ecco che i comunizzatori si impediscono di apprezzare ciò che i wertkritiker fanno, e il perché ciò che fanno conti; così come i wertkritiker probabilmente troverebbero difficile riconoscere il merito di una teoria che anche tra i suoi stessi divulgatori è stata descritta come normativa e volontaristica.
L'attuale teoria della forma-valore può essere certamente criticata, e in alcune occasioni ha ricevuto delle critiche che sono valide, nella misura in cui queste indicano dei problemi reali della teoria; ma non si capisce che senso abbia criticarli per non essere ciò che non pretendono di essere, cioè i teorici del proletariato rivoluzionario. Nel migliore dei casi, l'unica cosa che si può concludere, a partire da questo rimprovero, è che i wertkritiker commettono un errore non esattamente teorico, quanto piuttosto pragmatico e morale: non hanno voluto riconoscere un soggetto che deve essere riconosciuto, per poter essere messo in discussione. La colpa che si rimprovera loro, è dunque di ordine utilitaristico: la critica del valore non servirebbe a mobilitare la volontà degli sfruttati in direzione della propria auto-emancipazione; non adempirebbe a quella funzione politica che deve essere svolta da una teoria rivoluzionaria. E per sottolineare questa mancanza, si è addirittura arrivati a dire che «secondo i critici del valore, il capitalismo cadrà da solo», una semplificazione che sconfessa sé stessa, poiché mentre i critici del valore non hanno mai detto nulla del genere, rispetto a questo c'è anche da dire che né loro né Marx hanno mai detto che il capitalismo durerà per sempre se nessuno decide di rovesciarlo. Piuttosto, hanno detto il contrario: che il capitalismo, come tutti i precedenti modi di sfruttamento, ha una data di scadenza, non importa quanto sforzo si faccia per evitarla. Ciò che i loro detrattori dovrebbero chiarire è come mai una tale dichiarazione costituirebbe motivo di rimprovero, e dovrebbero anche dire perché hanno sentito il bisogno di censurarla. In ogni caso, la parodia secondo cui l'analisi di Marx e dei Wertkritiker sulla scadenza del capitalismo equivarrebbe a una posizione contemplativa e politicamente moderata non è difficile da vendere, perché mentre non c'è nulla nei loro scritti per affermare che essi «sottovalutano l'umanità proletarizzata», oppure che «pensano che il capitalismo cadrà di propria iniziativa», non hanno mai nemmeno detto espressamente il contrario. Concentrarsi su questo non porta da nessuna parte: non ha senso criticare una teoria non per quello che dice, ma per quello che si pensa volesse dire. Questa non è esattamente una critica; è solo un rimprovero che permette di liberarsi di una teoria che non si è saputo criticare. Per capire dove questa cosiddetta critica fallisca, bisogna considerare alcune questioni fondamentali che stanno alla base della discussione. Marx ha analizzato la società, non sulla base degli individui empirici, ma sulla base dell'insieme delle loro relazioni reciproche, le quali, indipendentemente dalla volontà individuale, determinano la posizione sociale di ogni individuo e le sue possibilità di azione. Nella "Introduzione alla Critica dell'economia politica", ha spiegato che, poiché queste relazioni non sono oggetti empirici immediati, esse possono essere trattate solo come concetti astratti, cosa che solleva il problema se questi concetti corrispondano o meno al processo sociale reale. Nei Grundrisse sostenne che, sebbene le categorie astratte non esistano nel mondo oggettivo in quella forma autosufficiente che il pensiero attribuisce loro, esse non emergerebbero mai nella mente, se non esistessero in quanto relazioni sociali reali. Senza l'azione oggettiva delle merci, concetti come quelli di valore o di capitale non sarebbero nemmeno pensabili: l'astrazione mentale risulta da un'astrazione reale, ed è quella che viene fatta della prassi degli individui nelle loro relazioni reciproche nel contesto del modo di produzione. Per questo Marx ha scritto nel Capitale che «coloro che considerano il fatto che valore si renda autonomo, come se questa fosse una semplice astrazione, dimenticano che il movimento del capitale industriale è in pratica proprio questa astrazione». E lo stesso vale per il carattere astratto del lavoro produttore di merci: non è solo un'astrazione mentale, ma si tratta di un'astrazione che si realizza effettivamente nel contesto delle relazioni che costituiscono la società capitalistica, indipendentemente dalla coscienza o dalla volontà degli individui che in questo sono coinvolti. Tutte queste spiegazioni corrispondono a un momento di sintesi in cui Marx ha rivelato le condizioni metodologiche della critica dell'economia politica. Non appena si trascura tale momento, cioè non appena si dimentica che le categorie della critica si riferiscono necessariamente a dei fenomeni reali, e si cerca invece di confutarle come se non fossero altro che i capricci di una conoscenza sbagliata, ecco che si incorre in un'obiezione di natura puramente ideologica.
Questo genere di confutazione ideologica, è proprio quello che ritroviamo nel suddetto opuscolo della VHLV. Incriminare il wertkritiker di turno, per aver ignorato la presunta essenza rivoluzionaria del proletariato, ha senso solo se si è prima d'accordo con questa affermazione metafisica, e in questo caso ciò che al wertkritiker si rimprovera, è di svolgere una teoria critica del capitalismo senza prendere posizione nel gioco delle polarizzazioni che contrappongono le sette marxiste, e che fondamentalmente hanno a che fare solo con i loro disaccordi sull'identificazione del soggetto rivoluzionario («questa o quella rivolta è davvero proletaria?»). In contrasto con l'inanità di simili discussioni, la critica del valore assume invece la nozione marxiana di astrazione reale, come perno di una spiegazione che consenta la definizione del soggetto antagonista al capitale secondo un punto di riferimento negativo che viene offerto a partire dal lavoro astratto e dalla valorizzazione. Se questo punto di vista può essere criticato per il fatto che non offrirebbe elementi precisi per analizzare la composizione di classe delle lotte di resistenza, e quindi ciò che esse rendono possibile in termini di appropriazione sociale del prodotto, tutto ciò è ben diverso dal rimproverargli di non definire a priori - e senza riferimento al modo di produzione nelle sue dinamiche concrete - quale sarebbe il soggetto portatore di un'essenza rivoluzionaria. Nel primo caso, basta accettare la base analitica proposta da Marx - e che il wertkritiker si limita a ribadire - e su tale base precisare le condizioni secondo cui i vari gruppi si confrontano con il processo di valorizzazione, o si integrano in esso, traendone le corrispondenti conclusioni; nel secondo caso, è inevitabile che la critica perda tutta la sua forza corrosiva degenerando in una mera ammonizione normativa. I critici del valore sostengono che il concetto di classe è inutile per comprendere le varie forme di resistenza al processo distruttivo del capitale, poiché tale concetto presuppone un meta-interesse positivo che viene incarnato in un soggetto preesistente al processo stesso, e alla resistenza che genera. Essi sostengono che l'unica cosa che queste resistenze hanno in comune, consiste nel fatto che esse si oppongono allo stesso processo distruttivo che le provoca: il processo di produzione capitalistica. Ora, perché possano essere riconosciuti in questa negatività comune, il processo a cui stanno resistendo deve essere visibile, e perché ciò accada, è necessario un concetto critico che lo definisca. Un tale concetto è quello che i critici del valore vogliono offrire, né più né meno. Se c'è una critica da fare a questa affermazione, essa deve riguardare le condizioni sociali reali che le corrispondono, in cosa consiste questa corrispondenza e che cosa significa. Ebbene, questo è ciò che ha fatto "Théorie Communiste", per esempio, seguendo il proprio percorso teorico e senza riferirsi al wertkritiker di turno, riconoscendo che:
«Le lotte per le rivendicazioni hanno assunto delle caratteristiche che erano impensabili trent'anni fa. Negli scioperi del dicembre 1995 in Francia, nelle lotte dei sans papiers, dei disoccupati, dei portuali di Liverpool, della Cellatex, dell'Alstom, della Lu, di Marks and Spencer, nella rivolta sociale argentina, nell'insurrezione algerina, etc., una o l'altra rivendicazione si rivela, nel corso stesso della lotta, come un limite, dato che questa rivendicazione specifica (...) si risolve sempre nel fatto di provenire da una classe che continua a esserlo. (...) Nelle lotte suicide della Cellatex, nello sciopero di Vilvoorde, come in tante altre, diventa chiaro che il proletariato senza il capitale non è niente, e che non può più rimanere quel niente. Perché ciò che rende inevitabile il suo coinvolgimento con il capitale non cancella l'abisso che lotta porta alla luce, vale a dire, il fatto che il proletariato scopre di essere tale abisso e rifiuti sé stessi in quanto tale. La de-sostanzializzazione del lavoro diventa l'attività stessa del proletariato, sia tragicamente in quelle che sono le sue lotte prive di prospettive immediate (lotte suicide) e nelle sue attività autodistruttive, sia nella rivendicazione di tale de-sostanzializzazione, come nelle lotte dei precari nell'inverno del 1998. (...) Il proletariato affronta la sua propria definizione rendendosi autonomo da essa, estraniandosene.» (Théorie Communiste, "L'autorganizzazione è il primo atto della rivoluzione, quelli che seguiranno andranno contro di essa").
Esiste uno stridente contrasto, tra questo interrogativo sul processo di costituzione di una delle classi del capitale e il tipo di risposta che troviamo nell'articolo "Il fornaio e il teorico" (sulla teoria della forma-valore), contenuto nell'opuscolo della "VHLV". Il suo autore, Gilles Dauvé, insiste sul fatto che i wertkritiker, sottolineando l'astrazione del valore, partono da una premessa giusta per poi trarne conclusioni terribilmente sbagliate. Per esempio, «che il sistema funziona da solo», che essi «vedono il salariato come un dettaglio secondario» e lo sfruttamento come «un fenomeno derivato»; che «la funzione del lavoro non sarebbe più la produzione, ma il dominio», che «la lotta di classe è un'inutilità che non farebbe che sostenere il sistema», che «con l'autonomizzazione del valore, il lavoro e la produzione diventano irrilevanti», che «il lavoro e lo sfruttamento sono secondari rispetto a un'alienazione generalizzata» e che «il lavoro marxiano sarebbe obsoleto ai nostri giorni». Purtroppo, Dauvé non riferisce nessuna di queste accuse generiche a un qualche testo con cui possano essere verificate, il che rende assai difficile una verifica precisa. Questa che vediamo qui in atto, non è tanto una critica teorica quanto tutta una serie di rimproveri basati su dei giudizi non argomentati che riguardano l'importanza del lavoro, della produzione e della lotta di classe. Ma una teoria rivoluzionaria non esalta tutti questi elementi perché essi sono di gusto del suo autore, ma dovrebbe piuttosto spiegare in che modo si relazionano tra di loro nella dinamica sociale concreta. Dauvé, non solo non lo spiega, ma si limita solo ad affermare implicitamente che la sua critica è giusta semplicemente perché è così: dobbiamo crederci perché lo dice lui! E tutto indica che sotto il peso della medesima autorità dobbiamo accettare che le intenzioni politiche che Dauvé attribuisce ai Wertkritiker siano davvero le loro, per quanto non offra un solo riferimento con cui contrastare le sue accuse, dopo averle verificate. Dauvé, infatti, scaglia contro i wertkritiker tutta una serie di rimproveri che si riassumono nella frase con cui conclude la sua lunga serie di incriminazioni: la teoria della forma-valore sarebbe «compatibile con la panoplia riformista». Se la nostra intenzione fosse quella di difendere i Wertkritiker, esamineremmo i loro testi alla ricerca di prove per confutare tali accuse. In realtà, è molto più interessante chiedersi se in una controversia teorica, i critici abbiano o meno la responsabilità di sostenere le loro critiche con prove, o se dobbiamo considerare l'autorità dei loro detti come una prova sufficiente. A giudicare dall'opuscolo del "VHLV", non abbiamo a che fare con una teoria rivoluzionaria che sta mettendo un'altra teoria sotto il microscopio critico, ma piuttosto con un attacco la cui validità dipende dalla nostra accettazione dell'autorità dell'attaccante. Qui il nostro ruolo di lettori è assai meno quello di aspiranti teorici della rivoluzione che quello di spettatori di una rissa o di un torneo. Ci è stata offerta la possibilità di abbeverarci a una "ideologia vittoriosa".
I testi raccolti nell'opuscolo della VHLV si possono riassumere in questa idea centrale: perché il capitalismo finisca, il proletariato deve voler porre fine ad esso. Tale volontarismo normativo ignora uno dei presupposti fondamentali della critica dell'economia politica: che la contraddizione sociale non può che svilupparsi fino al suo punto di rottura, non importa quanto si faccia per impedirla, e che il compito della teoria è quello di spiegare questo sviluppo e non di prescrivere normativamente la condotta dei suoi esecutori. Invertendo completamente i termini dell'equazione, i comunizzatori anarchici sostengono che la contraddizione non può svilupparsi e raggiungere il suo limite se i soggetti in essa contenuti non decidono di portarla a quel punto. L'oggetto determinante della teoria non sarebbe il processo storico nel suo insieme, ma una delle sue componenti, la volontà percepita come una forza autonoma che porterebbe il movimento storico all'esistenza spingendolo alla sua conclusione. Non appena i teorici cadono così nell'idealismo, essi cessano di vedere la coscienza come un fattore tra gli altri, nello sviluppo del modo di produzione, e perdono interesse a cogliere in che misura essa rimane preda di quell'oggettività che pretende di rifiutare, e di conseguenza non cercano di discernere il processo oggettivo che la determina, né di scoprire in quali condizioni questo discernimento diventa addirittura possibile. Non hanno più bisogno di analizzare il processo sociale reale, perché basta commentare le loro interpretazioni, le idee in voga e il loro reciproco confronto: percepiscono la realtà come uno scontro di idee e di volontà, in cui il proprio ruolo è quello di raggiungere una posizione da cui pungolare la coscienza degli altri per far loro capire chi sono veramente, in modo che diventino ciò che già sono in sostanza. Questo sforzo li acceca al punto di arrivare ad affermare che il proletariato ha un'essenza rivoluzionaria, e perciò dedicano tutte le loro energie a persuaderlo ad agire di conseguenza; una contraddizione che deve necessariamente passare davanti ai loro occhi, poiché il loro desiderio di essere la causa del risveglio degli altri è allo stesso tempo anche il loro leitmotiv più potente e il principale punto cieco della loro visione del mondo. Nel pamphlet di VHLV contro i critici della forma-valore, troviamo una forte prova di questa inversione idealista. In quelle pagine si avverte che mentre «la produzione capitalista va essa stessa verso la sua dissoluzione», questo non lo fa «unicamente come prodotto dell'esaurimento del valore, ma perché produce allo stesso tempo un'umanità proletarizzata», cioè «una miseria cosciente della propria miseria» che, grazie a questa autocoscienza, «cerca di sopprimere sé stessa». Tralasciando il fatto abbastanza ovvio che prendere coscienza della propria miseria non porta necessariamente a volerla sopprimere (spesso instilla solo un cinico desiderio di trarne profitto), il fatto è che per far sì che questa miseria diventi autocosciente e sopprima se stessa, bisogna prima che sia in grado di parlare a sé stessa, di esortarsi a compiere il proprio compito, e questo non può accadere a meno che non si trovi davanti a sé stessa dei portavoce di questa coscienza, responsabili di farsi ascoltare e di ascoltare. Ebbene, non appena abbandoniamo questa metafisica della coscienza ed entriamo sul terreno delle relazioni sociali concrete, tutto questo casino non significa altro che il proletariato deve ascoltare e dare ascolto a certe persone in carne ed ossa, i quali pretendono di essere i portavoce chiaroveggenti della sua missione storica. Questo, naturalmente, è solo un altro modo di descrivere l'origine del loro bisogno di fare della teoria uno strumento di esortazione pubblica, e di inventare nemici per screditarli, in quanto sarebbero voci impostori della coscienza che loro pretendono di rappresentare fedelmente. Questa coscienza ideologica trae la sua energia esortativa dall'accumulo di contraddizioni non accettate che la costituiscono. Perciò nel corso di poche pagine "VHLV" rimprovera ai wertkritiker di «dimenticare che il crollo della civiltà del capitale è il risultato della contrapposizione degli interessi immediati del proletariato rispetto all'accumulazione capitalistica», e subito dopo li accusa di «dimenticare tutti quei momenti storici in cui la lotta dell'umanità proletarizzata è andata oltre la difesa feticistica dei propri interessi di classe». La fine del capitalismo risulterebbe allora dalla difesa dell'interesse immediato degli sfruttati, e allo stesso tempo dal superamento della difesa feticista di questo interesse. Se tale contraddizione pone un limite evidente all'affermazione del proletariato come soggetto rivoluzionario, questo a "VHLV" non interessa. In ogni caso, non crede che una tale contraddizione abbia bisogno di essere analizzata; è sufficiente dissolverla in un attivismo retorico sufficientemente tenace. Ancora: per loro non si tratta di cogliere il movimento reale, ma di suscitarlo esortando gli altri. Orbene, per riuscire a confutare la teoria di Marx e dei wertkritiker sulla scadenza del modo di produzione capitalista, bisogna cominciare a scartare tutta la loro analisi della forma del valore e delle sue conseguenze. La "VHLV" affronta la questione senza indugio: dopo aver ammesso che le attuali catastrofi capitalistiche potrebbero dare origine a nuovi rapporti sociali, proprio come fece la peste nera, ci avvertono che anche se il capitale «si scontra oggi con i suoi limiti interni», ciò non significa «che non possa essere ristrutturato sfruttando nuove vene di valorizzazione», come «la quarta rivoluzione industriale, la valorizzazione del mondo microscopico e dello spazio esterno». Secondo la "VHLV", queste attività potrebbero prolungare la vita della «produzione capitalista basata sul valore e quindi sulla produzione di plusvalore»; però non spiegano come tali attività, possibili solo in un regime di produzione iper-tecnologico basato sugli altissimi tassi di produttività, e che in primo luogo hanno causato la crisi di valorizzazione, potrebbero riuscire a incorporare abbastanza lavoro vivo nella produzione di merci da ripristinare i livelli di accumulazione precrisi. Se ci fosse una simile spiegazione, essa si scontrerebbe con la stessa teoria di Marx della forma-valore e con la conseguente teoria dell'accumulazione capitalistica. Infatti, dal momento che non esiste altra fonte di valore se non il lavoro vivente, tutto il valore che apparentemente viene prodotto da un androide, un nano-robot o un microrganismo artificiale, non può in realtà provenire da questi dispositivi, i quali sono incapaci di costituire di per sé «nuove vene di valorizzazione», poiché essendo capitale fisso possono solo trasferire da un mezzo fisico all'altro masse sempre più concentrate di valore, create dal lavoro umano vivente all'inizio dell'intero processo. Ebbene, è a questo livello primario, dove avviene la creazione di valore da parte del lavoro vivo, che si riferiscono tutti i limiti interni del processo di accumulazione, e nessuno sviluppo tecnico, per quanto sofisticato possa essere, può invertirlo nelle fasi successive del processo, per quanto alta sia la produttività ivi raggiunta; o meglio, non può farlo proprio a causa di questa alta produttività. In breve: la crisi derivante dalla diminuzione assoluta della massa di lavoro vivo necessaria alla produzione non potrebbe in alcun modo essere invertita da una ristrutturazione basata sui mezzi tecnici descritti da "VHLV". Ciò non significa che una «quarta rivoluzione industriale» non sia possibile, ma piuttosto che ciò a cui viene dato questo nome non potrebbe replicare il fondamento sociale di quelli che sono stati precedenti salti nella produttività del lavoro, e costituirebbe invece una rottura categorica con ciò che la produttività e il lavoro significano nell'attuale modo di produzione. Prevedere e discutere questa possibilità, o altre, è però possibile solo al di fuori dell'universo ideologico che abbiamo qui criticato.
Se in questa parte della trattazione siamo andati molto più in dettaglio di quanto abbiamo fatto nelle parti precedenti, entrando in densità concettuali forse un po' difficili da seguire, ciò è perché i due testi che citiamo per criticarli rappresentano forse il punto di massima condensazione della tendenza settaria e ideologica che aveva tallonato fin dalle sue origini la corrente comunista radicale. In tal senso, segnalano la fine di un periodo e di un percorso già sbarrato. Esaminandoli in profondità, abbiamo voluto mostrare quanto sterile possa essere una pratica di agitazione che non sa riconoscere i propri limiti. Limiti che non dipendono da delle capacità intrinseche, ma piuttosto da disposizioni affettive verso ciò che si intende per comunismo, associazione di rivoluzionari e teoria dell'emancipazione sociale. Il superamento di questi limiti non ha tanto a che fare con il raggiungimento di una maggiore resa analitica, quanto piuttosto con il collegamento della teoria a delle situazioni concrete in cui le lotte dei proletari richiedono dei chiarimenti che le valorizzino. Non si tratta perciò di arrivare «più lontano, più in alto e più decisi», ma di radicare il pensiero e la pratica in delle situazioni concrete, la cui portata può sembrare troppo modesta a coloro per cui a essere in gioco è soprattutto l'identità. Attiene assai meno alla coltivazione di uno stile distintivo, di quanto riguardi l'aprirsi all'avventura di obbedire a una vera passione rivoluzionaria.

Il puzzle impossibile
Da questo punto in poi verrà ricapitolato quanto è stato detto nelle parti precedenti, per capire il ruolo che i cliché del comunismo anarchico hanno svolto nel nostro contesto. Sarà possibile solo se assumiamo, per cominciare, che l'attivismo ideologico e settario che abbiamo descritto ha a che fare, non tanto con le capacità e le intenzioni degli individui, quanto piuttosto con la lotta di classe che finisce per contenerli e per determinare le loro capacità e le loro intenzioni. Se abbiamo descritto in dettaglio questa deriva, lo abbiamo fatto perché altrimenti non avremmo potuto spiegare cosa essa significa per la lotta di classe, come si è presentata in questa epoca e in questa regione. Il che equivale a dire che il percorso precedente non ha avuto altro scopo se non quello di spiegare come in Cile la corrente comunista radicale, dal suo emergere alla fine degli anni '90 e fino alla sua progressiva deriva e alla sua attuale implosione, si sia evoluta - come, diversamente, non avrebbe potuto - seguendo punto per punto l'evoluzione della lotta di classe nel periodo che va dalla restaurazione della democrazia fino al ciclo di crisi dell'ultimo decennio. In questo periodo di quasi trent'anni - visto nel caso particolare di questa regione - la lotta di classe significa poco più che il consolidamento di un capitalismo ultra-liberale sostenuto da uno stato sussidiario, sullo sfondo della relativa pacificazione sociale che ha seguito la distruzione del movimento operaio e della rappresentanza politica proletaria. Questa pacificazione, inoltre, trovò la sua più potente fonte di energia non nella repressione di una classe che voleva fare una rivoluzione sociale, ma nell'anelito, da cui era stata colta, di smettere di essere ciò che era, attraverso l'ascesa socio-economica promessa dal consumo e dall'educazione (un anelito non improbabile se si tiene conto delle condizioni demografiche, dell'urbanizzazione accelerata, dell'ampia scolarizzazione e dell'aumento dei salari e del credito che nel Cile dell'ultimo terzo del ventesimo secolo furono concomitanti all'«età dell'oro della crescita»). Questa pacificazione non ha impedito alle lotte e agli scioperi di continuare durante quei trent'anni, oscillando secondo i cambiamenti delle condizioni politiche e lo sviluppo di poli di accumulazione con strutture contrattuali variabili. [*3]
Dall'inizio del periodo in questione, l'atteggiamento dominante della sinistra radicale fu quello della negazione, non nel senso dialettico di «essere il polo negativo e di superamento all'interno dell'unità contraddittoria», ma nel senso psicologico stretto di rifiutare di vedere ciò che stava accadendo. Le espressioni più volontaristiche - e tragiche - di questo rifiuto dei rivoluzionari di fare la loro storia «non in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione.»(Il 18° Brumaio di Luigi Bonaparte), sarebbero state le responsabilità dei gruppi politico-militari che avevano agito contro la dittatura, e che alla sua fine avevano deciso contro ogni evidenza che l'avvento della democrazia metteva la rivoluzione socialista in agenda.
«Non c'è nessuna tregua, nessuna attesa. Tutto diventa sempre più offensivo nella realizzazione, effettiva e totale, della speranza popolare che ora travolge milioni di persone. Lo sforzo tattico si concentra nel portare avanti l'offensiva dei desideri e dei bisogni, installando il potere del popolo, con tutto e per prendere tutto. (...) Ci sono 500.000 persone che vogliono combattere senza compromessi. E a livello del movimento rivoluzionario di massa, ci sono tre forze politico-militari, cosa che nella realtà cilena è una situazione senza precedenti.» (MJL, citato in "Un lungo ottobre", del "Circolo dei comunisti esoterici"). Il fatto che questi gruppi siano stati distrutti dall'apparato repressivo dello Stato non implica affatto che se avessero continuato ad operare, avrebbero potuto modificare le condizioni storiche a piacimento, come se la socialdemocrazia ottocentesca avesse avuto ragione e il proletariato non fosse altro che un muscolo in attesa di essere messo in azione dal cervello dell'avanguardia rivoluzionaria cosciente... e armata. L'eroico volontarismo che mostravano, lo era giusto nella misura in cui si trattava dell'effetto residuo dell'epoca in cui i partiti proletari di massa avevano potuto modificare le condizioni attraverso un'azione omogenea, centralizzata e gerarchica; ma era sbagliato non riconoscere che le condizioni che avevano permesso questo legame tra il partito d'avanguardia e la classe, erano finite e non sarebbero tornate. Non perché era stato decretato così dagli accademici post-moderni, dalle loro cattedre universitarie, ma perché il modo in cui il proletariato aveva preso il suo posto nella lotta di classe corrispondeva a una struttura del rapporto di sfruttamento che quella stessa lotta aveva reso obsoleta (è significativo che le idee di questi accademici, piuttosto che le condizioni sociali stesse, erano spesso il centro preferito dell'attenzione dei rivoluzionari, il che mostra la misura in cui sia gli uni che gli altri credono che la storia sia il risultato delle idee in voga). Se l'avanguardia rivoluzionaria era praticamente incapace di percepire la reale portata della ristrutturazione capitalista e le sue profonde conseguenze, questo avveniva perché il suo stesso ruolo nella lotta di classe era sempre consistito nell'offrire al proletariato una direzione ideologica e politica, a partire dalla quale ogni cambiamento della situazione doveva essere percepito come il frutto di un inganno borghese che poteva essere smentito dalla denuncia e dalla propaganda, o come un problema politico congiunturale che doveva essere decifrato da una corretta analisi delle notizie. Per quei gruppi marxisti e anarchici che rifiutarono di abbandonare questo terreno - l'unico che sembrava rendesse possibile un intervento politico efficace - e che quindi rifiutarono di teorizzare la situazione generale e il proprio ruolo in essa, il periodo successivo sarebbe stato assai duro. In breve: sarebbero stati trent'anni passati a battere la testa (e non solo la testa) contro un muro di volontarismo impotente, aggrappandosi al passato per non cadere nel vuoto lasciato dalla fine del programmatismo; sebbene questi gruppi non sapevano nemmeno che esistesse il concetto di programmatismo, e che era stato creato per descrivere un periodo della lotta di classe il cui tempo era finito. All'inizio di questo secolo, quando ancora nella sinistra radicale l'impossibilità della pratica rivoluzionaria non era diventata evidente, uno dei suoi estremi - l'estremo precursore della corrente comunista anarchica che abbiamo esaminato qui - emise il seguente avvertimento sulla necessità di superarla:
«Dato che assai spesso l'atteggiamento predominante è consistito nel "ripensare" la sinistra a partire da delle basi che implicano la rinuncia a prospettive di cambiamento radicale, la reazione degli altri - coloro che insistono sulla necessità di tale cambiamento - consiste spesso nell'aggrapparsi saldamente ai "principi", al "metodo" o alla "ideologia", accettando tutt'al più di cercare un nuovo modo di ratificare l'idea secondo cui questi sarebbero ancora corretti nella sostanza. Così, alla fine si verrebbe a creare un gioco tra due posizioni equivalenti la cui opposizione è falsa: rinuncia alle vecchie convinzioni in nome della celebrazione dell'esistente/riaffermazione ed eterno riadattamento delle stesse convinzioni, celebrandole in modo tale da rinunciare ad adottare una volta per tutte la pratica di sviluppare la teoria critica nelle condizioni sociali attuali.» (Julio Cortés, "Las piezas perdidas en el rompecabezas de la izquierda radical" (nota anche come "ultra-sinistra").
In quei giorni (2002) un'analisi come questa era qualcosa di fuori dal comune, e testimoniava un notevole salto di qualità rispetto a qualsiasi riflessione critica che fosse stata fatta da molto tempo a sinistra. Che poi una tale svolta potesse portare a una teoria che superasse il programmatismo, be' questa era un'altra questione, in gran parte fuori dal controllo di coloro che volevano seguire quella direzione. Per quanto possano essere desiderosi di rompere la zavorra delle ideologie rivoluzionarie, e quindi inclini a cogliere lo scadimento del programmatismo, e forse anche a produrre una teoria dettagliata della ristrutturazione capitalista in questa regione, i comunisti radicali hanno affrontato la difficile sfida di avvicinarsi a questa pratica senza avere alcun quadro di riferimento, se non quello che essi stessi potevano improvvisare mettendo insieme delle letture frammentarie trovate su Internet, e avendo poco o nessun contatto con i poli della lotta proletaria dove il nucleo del rapporto di sfruttamento rimaneva un centro di conflitto continuo. Hanno dovuto praticamente ricominciare da zero, con tutti i rischi che questo comporta in termini di confusione teorica, di disorientamento e di impotenza pratica in un terreno sociale ancora dominato dal gretto politicismo di tutto il periodo precedente. Il risultato fu che, nonostante le loro pretese di rompere con la sinistra postmoderna, i comunisti radicali finirono per comportarsi proprio come questa, nel voltare le spalle alla relazione di sfruttamento nel suo concreto dispiegarsi in quanto quadro di riferimento per spiegare il conflitto sociale (la critica dell'economia politica, se non si ricrea nell'analisi della lotta di classe reale, quale essa è, e si limita invece alla ripetizione delle sue verità teoriche fondamentali enunciate nel XIX secolo, non può sostenere nessuna teoria valida del capitalismo e della lotta di classe).
Una simile negligenza fu decisiva per il fatto che, come indica il titolo di questo paragrafo, l'attività dei comunisti radicali non andò quasi mai oltre la sfera chiusa delle proprie affinità immediate, costituendo la camera di risonanza di un discorso autistico. Questa è una delle ragioni per cui ancora oggi, gli sforzi teorici in direzione del comunismo vengono spesso disdegnati nei circoli anticapitalisti: i motivi per differenziarli dallo sproloquio post-modernista non sono diventati sufficientemente evidenti. Ciò è paradossale, se si considera che alcune delle critiche più acute al postmodernismo sono venute proprio da quegli sforzi teorici che invece, per pigrizia o malafede, la sinistra ignora; e solleva invece la difficile questione per cui una pratica rivoluzionaria possa essere sostenuta semplicemente riaffermando la linea che separa chi ha capito e chi no.
In altri termini: il miglior seme non darà comunque frutti in una terra sterile, a meno che non ci si impegni a trasformare quella terra partendo da quel che abbiamo, visto che il seme prima o poi o diventerà sterile... o darà frutti amari. Quasi vent'anni dopo la pubblicazione di quell'avvertimento sulla necessità di un rinnovamento teorico che avrebbe dovuto rendere la sinistra più radicale, è chiaro che o il terreno sociale a cui si rivolgeva era irrimediabilmente sterile, oppure i suoi critici non hanno mai saputo come fare a influire per far in modo che le loro parole risuonassero oltre la loro ristretta cerchia. Fondamentalmente, l'idea era quella di creare uno spazio di rottura che potesse comunque essere alimentato dall'esperienza accumulata, approfittando di ciò che in essa c'era di utile e sensato; e questo è precisamente ciò che non è successo. Comunque sia, per quanto riguarda i comunisti radicali, la risposta ai loro problemi poteva venire solo dalla loro stessa attività, che però consisteva quasi sempre nel gettare con rassegnazione messaggi in bottiglia nel mare di indifferenza che li circondava.
In un certo senso, si trattava di una situazione impossibile. Sia per il suo contesto sociale che per il contenuto della sua teorizzazione, la corrente comunista radicale non poteva altro che operare ai margini della militanza di sinistra e dei poli di lotta che si sviluppavano al centro della relazione di sfruttamento; del resto, non poteva non tentare un approccio teorico nei confronti dei punti ciechi che davano a questa lotta il carattere automatico del coinvolgimento reciproco delle classi, e quindi, proprio per questo, non poteva in alcun modo essere pensato da dei gruppi di sinistra che avevano sempre sostituito la teoria con una mera attività di propaganda e proselitismo. Ciò che era impossibile era che da tale posizione emergesse qualcosa di diverso da un'attività che non era esattamente teorica, ma che non corrispondeva neppure del tutto alla logica di quel tipo di militanza. Un ibrido, una quasi-teoria che, anche se si riferiva a delle questioni cruciali come l'alienazione, lo sfruttamento, la democrazia, la classe e il partito - in dei termini che non erano né quelli del marxismo convenzionale né quelli dell'anarchismo - non poteva fare altro con tali questioni se non affermarle più e più volte, in dei testi sempre più voluminosi e attraverso slogan sempre più altisonanti, senza poterli mai collegare a nulla di concreto e senza che nessuno vi prestasse molta attenzione, visto che a nessuno interessa una teoria che non può essere usata praticamente nella vita quotidiana. I comunisti radicali sarebbero così finiti imprigionati nell'affermazione della loro stessa differenza, incapaci di uscire da quella posizione finché non fossero cambiate le condizioni che li avevano collocati lì.

Classe, comunità, partito...
Coloro che alla fine degli anni '90 volevano andare oltre il marxismo convenzionale, trovavano le loro fonti di ispirazione nei testi situazionisti, nella teoria critica di Francoforte e in alcuni autori dell'operaismo italiano. Più tardi, Internet ha permesso loro di arricchire tali prospettive con una grande quantità di testi del comunismo consiliare, della sinistra comunista italiana (chiamata anche "bordighista"), e della teoria della comunizzazione, quest'ultima recepita grazie a delle traduzioni fedeli, sebbene non sistematiche.
Come abbiamo visto nel corso di questo testo, tali fonti non hanno stimolato il formarsi di una teoria della ristrutturazione capitalista e della lotta di classe in questa regione. Di fatto, uno sforzo del genere si è scontrato con degli ostacoli così difficili da superare quanto quelli che il resto della sinistra avrebbe incontrato nel proporsi come avanguardia, attraverso le sue interpretazioni congiunturali o la sua ideologia pro-unità. Tutti erano ugualmente impossibilitati ad avere una pratica rivoluzionaria, perché questa pratica esigeva una rottura con il passato programmatico - con i suoi dogmi ufficiali, con le sue organizzazioni, con la sua filosofia - conservando di quel passato la capacità di pensare la realtà a partire da un'attività organizzata all'interno della lotta di classe. Per trent'anni, quali che siano state le ragioni, questa Aufhebung non ha avuto luogo. I marxisti fossilizzati e gli anarchici, non assumendo le implicazioni della ristrutturazione capitalista, si condannarono o ad essere sussunti nella politica borghese o a diventare nichilisti; mentre i comunisti radicali, incapaci di collegare la loro attività alla lotta di classe al di fuori della loro sfera, si condannarono ad una deviazione ideologica e settaria, nel senso della frase di Lenin secondo cui «essere un passo avanti al movimento proletario significa essere la sua avanguardia, ma essere dieci passi avanti significa essersi persi». Chi pretende di poter guidare e organizzare il movimento reale solo perché ha colto le sue indicazioni più generali, e lo ha detto, in realtà non è né dietro né davanti a quel movimento: lo ha solo confuso con le sue proprie ideazioni astratte.
Questa deriva non potrebbe essere spiegata senza fare riferimento al cosiddetto «ambito politico proletario internazionale», il quale attraverso le sue pubblicazioni ha esercitato un'influenza decisiva sui comunisti radicali di questa regione fin dal tempo della prima ondata di proteste studentesche tra il 2001 e il 2006. Questo «milieu politico» consiste in un nugolo di gruppi nati dalla disintegrazione negli anni '70 del Partito Comunista Internazionale (PCInt) fondato nel 1952 dai seguaci di Amadeo Bordiga. Oggi questi gruppi tendono a gravitare intorno a due fazioni principali e rivali: la Corrente Comunista Internazionale da una parte, e il Gruppo Comunista Internazionalista dall'altra. Quest'ultimo, che descrive sé stesso come guida e organizzatore dell'azione comunista a livello mondiale, è stato il più influente nel cono sud dell'America Latina. La sua voluminosa produzione di testi nel corso di quarant'anni si può riassumere così: è necessario organizzare un partito mondiale che offra un unico programma d'azione al proletariato di tutto il pianeta, e che centralizzi la direzione delle sue lotte in vista di una rivoluzione comunista globale. La CCI, da parte sua, non ha obiettivi meno ambiziosi, e infatti è difficile distinguere ciò che differenzia le due fazioni, se non per le sfumature terminologiche con cui ciascuna di esse denigra il suo avversario. Infatti, una parte non trascurabile dell'attività dei gruppi che compongono il «milieu politico proletario» consiste nello screditare gli altri gruppi, rimanendo in tal modo fedeli alla concezione leninista della rivoluzione vista come conquista del potere politico e, quindi, come lotta feroce per egemonizzare il terreno ideologico, e liberarsi così dei concorrenti. Questo ambiente ha tutte le caratteristiche del racket (gruppuscolo settario) descritto da molti critici da quando, nel 1972, Jacques Camatte e Gianni Collu ne hanno fatto l'autopsia nel loro testo "Sull'organizzazione". Non sorprende che oggi il GCI sia impegnato nella propaganda di teorie complottiste, aggiungendo a quelle versioni che danno la colpa dei mali del capitalismo a delle bizzarre bufale globali intessute da forze occulte o entità aliene. Senza tenere conto dell'influenza di questi gruppi, diventa impossibile capire fino a che punto la citazione del Lenin di cui sopra sia ironica, e fino a che punto non lo sia. Sia il GCI che il resto della famiglia bordighista raggruppata nel «milieu politico proletario» sono i continuatori del filone italiano dell'ultrasinistra, una corrente che, nel criticare la degenerazione burocratica in Russia e nella Terza Internazionale, assolveva Lenin, attribuendo la calamità controrivoluzionaria al tradimento dei suoi infedeli sostenitori. Questa posizione contrasta nettamente con quella dell'ultrasinistra tedesco-olandese, la quale ha sempre postulato una continuità tra la politica di Lenin e lo stalinismo. Su tale questione, il GCI si differenzia dal resto del «milieu politico proletario» per essere tra loro il più favorevole al comunismo consiliare tedesco-olandese, e persino all'anarchismo, motivo per cui è stato talvolta descritto come un gruppo «anarco-bordighista», sebbene che, a parte questa caratterizzazione, non ci sono altre differenze significative. Tuttavia, questa singolarità è rilevante per il caso in questione. Se si confrontano i tratti ideologici distintivi del GCI con l'evoluzione della corrente comunista radicale in Cile, così come l'abbiamo raccontata durante questo documento, è facile comprendere quale sia l'influenza esercitata da quel gruppo in un settore che è praticamente definito dal suo desiderio di superare la «falsa dicotomia marxismo/anarchismo», e che, nonostante le sue intenzioni dichiarate, ha fatto poco più che amalgamare queste due ideologie rivali, senza criticare il programmatismo che le contiene e spiega entrambe.
Mentre l'attenzione di questa corrente internazionale si è concentrata sulla costruzione di un'identità politica distintiva, un «ciò che ci distingue» che le permetta di proporsi al proletariato come «guida e come organizzatore», i suoi sforzi teorici hanno mirato soprattutto a costruire una sintesi di quelle che sono state alcune espressioni del movimento proletario nella sua epoca programmatica. Da qui, i loro continui riferimenti al Marx anarchico di Maximilien Rubel, ai momenti più radicali dell'anarchismo e ai primi sviluppi filosofici di Marx, etichettati come se fossero stati la «parte maledetta» di un eroe romantico che avrebbe combattuto «da solo contro tutti». A partire da questi riferimenti, cercano di affermare l'unità essenziale e positiva di un movimento che diversamente sarebbe stato solo esteriormente eterogeneo e contraddittorio, facendo di questa unità la base legittimante del loro ruolo di «guide e organizzatori» del movimento reale. Questa autoaffermazione ideologica - che non è mai servita a granché - non ha impedito però a questa corrente di dare un contributo importante facendo conoscere l'opera di Amadeo Bordiga e del PCInt, le cui analisi del Capitale di Marx, dell'URSS e dello sviluppo della lotta di classe in Occidente superano di gran lunga, in profondità e potenza esplicativa, le fonti abituali del marxismo socialdemocratico. È un errore comune, in ogni caso, identificare l'eredità di Bordiga e il marxismo rivoluzionario da lui incoraggiato esclusivamente con il «milieu politico proletario», ignorando che nonostante il ritiro di Bordiga stesso e del PCInt, la portata del suo lavoro teorico supera di gran lunga le pretese di qualsiasi milieu settario. Infatti, se oggi la corrente radicale comunista esala una forte ventata di «bordighismo», ciò è dovuto più all'influenza di alcuni suoi esegeti, come Jacques Camatte e il GCI, che alla lettura dello stesso Bordiga, la cui opera è difficile da seguire, a causa del suo essere dispersa in numerosi testi pubblicati quasi sempre anonimi. Tutto questo ha favorito in questi circoli rivoluzionari un «atteggiamento ciecamente reverenziale verso la parola del maestro», secondo quelle che sono le parole di Christian Riechers, il quale ha anche avvertito:
«La questione attiene a se l'invarianza marxista, intesa come un insieme di esperienze reali su cui hanno riflesso i principali rappresentanti della dottrina a livello internazionale, non sia stata sostituita in maniera quasi impercettibile - per l'effetto combinato dell'isolamento oggettivo e dell'autoisolamento soggettivo - da una sorta di invarianza autarchica di gruppo.» (Christian Riechers, "Bordiga immaginario") Questo dovrebbe chiarire che qui la nostra intenzione non è nemmeno lontanamente quella di rifiutare in blocco l'eredità teorica della corrente animata da Bordiga, ma al contrario si vuole sottolineare quanto la sua importanza meriti un uso che vada oltre l'autolimitazione settaria a cui lo stesso partito di Bordiga venne costretto dalle circostanze del suo tempo. Oggi, ci sono infatti diverse iniziative che o compilano i testi di Bordiga per renderli direttamente accessibili, oppure producono i propri testi teorici prendendo come riferimento il lavoro di Bordiga e del PCInt senza ridurlo al marchio identificativo di «una sorta di invarianza autarchica di gruppo». [*4] L'atteggiamento dei comunisti radicali nel mondo di lingua spagnola ha teso, al contrario, proprio a imitare questa autolimitazione, replicando quello di coloro che scoprirono l'eredità bordighiana negli anni '70, solo ora in condizioni sociali assai diverse.
« All'inizio degli anni '70, la nostra corrente sembrava corrispondere al modello del partito bordighista: quella piccola setta che negli anni '50 - mentre era perseguitata dallo stalinismo - aveva mantenuto posizioni dissidenti. (...) Il «partito storico» di Marx non aveva nulla a che fare con quella struttura burocratica e terroristica dei bolscevichi. Per questo aveva assunto per noi un fascino esoterico che contrastava con la nostra situazione reale. Era un partito che poteva ridursi a uno scaffale della biblioteca, a una casella postale, a una corrispondenza e a degli incontri tra due o tre amici. Ma allo stesso tempo era un'entità che, essendo disincarnata, trascendeva i limiti del tempo e dello spazio, unificando generazioni e continenti nell'immutabilità del programma comunista. Quest'ultimo, tra l'altro, era già stato così stabilito una volta per tutte sulla base di un'illuminazione storica - simile a quella dei grandi profeti delle religioni rivelate - e che, tra il 1844 (Manoscritti economico-filosofici) e il 1848 (rivoluzione), aveva forgiato una prospettiva valida per tutti i successivi periodi di lotta. È un fatto che il contatto con Invariance aveva stimolato il nostro approccio alla ricchissima produzione bordighiana e allo studio dell'opera di Marx; cosicché l'isolamento non venne più considerato un problema, e cominciò ad essere valorizzato, considerando ogni forma di attivismo come se fosse un impedimento all'attività teorica. I nostri interessi venivano in tal modo egemonizzati dagli opuscoli, dalle riviste, dai ciclostili.» (Francesco Santini, "Apocalisse e sopravvivenza")
Ciò che abbiamo criticato finora, non è stato altro che questa perdita di contatto con il movimento reale e la sua sostituzione con una rappresentazione ideale di esso. Nella misura in cui si accentua il rifiuto di spiegare questo movimento come una contraddizione in processo, tanto maggiormente lo si biasima per non andare oltre il quadro democratico, e di non essere più la realizzazione della sua essenza ignorata, e tanto più si intensifica il fissarsi su Bordiga, visto come presunta via d'accesso al comunismo filosofico del 1845... e viceversa. A partire da questo, l'analisi del dominio sociale in termini di economia politica viene sostituita da un insieme di esortazioni filosofiche volte a risvegliare i lettori, secondo uno schema in cui la rivoluzione non appare come un processo reale le cui contraddizioni dovrebbero essere oggetto di analisi precise (nel senso in cui Lukacs poneva quest'ovvietà nel suo schizzo di Lenin), ma appare piuttosto come una sorta di realizzazione mitica dell'essenza umana, compiuta dal proletariato, che viene vista non come un momento della contraddizione in processo che è il capitale, ma piuttosto come una virtualità universale astratta. Questa posizione contemplativa è, alla fine, il prezzo che il comunismo radicale ha dovuto pagare per riassorbire al proprio interno l'idealismo filosofico degli anarchici,
« ...quella "sensibilità anarchica" che separa il cambiamento di sé stesso dal cambiamento delle circostanze, oscillando tra l'uno e l'altro termine (tra attivismo e educazionismo) senza riuscire a unirli, se non nella difesa di alcuni "principi" che devono essere "realizzati" attraverso un'alternativa che si situa "al di fuori" rispetto all'esistente.» (Théorie Communiste, "Karl Marx e la fine della filosofia classica tedesca"). Vale a dire: proprio quando si sarebbe dovuto superare il programmatismo, superando la polarità complementare che lo esprime in termini ideologici, ecco che questa polarità è stata reintrodotta sotto forma di un idealismo filosofico che è allo stesso tempo marxista e anarchico, senza superare nessuno dei due termini, conservando così la forma di un discorso rivoluzionario mentre perde invece il suo sfondo teorico processuale.
Hegel ha scritto: «Il contenuto che forma lo sfondo della Ragione, è l'idea divina, ed essenzialmente il piano di Dio». (Hegel, "Lezioni sulla filosofia della storia universale"). Basterebbe sostituire lo Spirito, o la Ragione di Hegel, con l'Umanità e si potrebbe scrivere: «Il comunismo è l'espressione tangibile dell'umanità finalmente realizzata. La storia è un lungo e lento processo di maturazione. Si potrebbe sostenere che tutta la storia è la storia del comunismo o che l'abolizione del capitale, e quindi delle classi, è l'attualizzazione dell'umanità, che si manifesta sotterraneamente in ogni azione del proletariato. (...) Ogni approccio teleologico coerente santifica il reale. L'abbandono dell'antropologia e la sua critica, costituiscono l'ultima tappa da superare per poter fondare una teoria del comunismo che sia una teoria della lotta di classe e della sua abolizione. (...) La teleologia finisce qui con la ricerca di un soggetto, la cui sostanza sia adeguata ai fini ultimi dell'umanità o della storia: il proletariato o lo Stato libero. Ma in tal caso la rivoluzione, il superamento dell'ordine esistente, realizza la natura di uno dei suoi elementi, di uno dei termini di questo ordine.» (Théorie Communiste, "Karl Marx e la fine della filosofia classica tedesca")
Allo stesso modo in cui lo spiega Théorie Communiste nel testo citato, la necessità vissuta dal proletariato post-fordista, di mettere in discussione la propria esistenza in quanto classe del capitale, porta i suoi teorici a tornare alla teoria comunista degli anni 1840, facendo oggi riemergere con forza il suo umanesimo astratto sul suo stesso terreno. In questo umanesimo, che poi è quello di Marx mentre egli è ancora un hegeliano di sinistra, il proletariato appare sotto forma di uno strumento passivo della realizzazione del pensiero, e questo non a causa della sua stessa esistenza come classe, ma perché il pensiero lo ha creato ex professo come il soggetto di cui esso, in quanto pensiero, ha bisogno per potersi realizzare. Ciò che interessa a questo comunismo astratto, non è né il proletariato reale né le sue lotte reali, ma piuttosto l'idea che ha di questo proletariato, non come classe concreta ma come manifestazione di un'essenza umana non ancora realizzata. Quando questo comunismo parla di alienazione, non parla dell'alienazione di individui limitati dalla loro comunità limitata, non descrive la manifestazione concreta di questi individui di fronte alla comunità di cui sono parte - che poi è l'unità della classe dominante - ma parla dell'alienazione dell'«essere umano». Non c'è bisogno di spiegare la realtà come una contraddizione in processo; basta opporle una comunità veramente umana, il partito-comunità che si separa dalla comunità materiale nel pensiero, e che da questa posizione fustiga e condanna la realtà sociale senza lasciarsi coinvolgere teoricamente nel suo movimento contraddittorio. Questa concezione del proletariato riunisce tutte le caratteristiche di un ideale politico secondo quella che è la tradizione moralista del pensiero sociale borghese: in essa il proletariato appare non come un rapporto sociale da analizzare, né come uno strumento concettuale con cui lavorare teoricamente e politicamente, bensì come un articolo di fede. Una tale astrazione non può tuttavia essere elevata al rango di «chiave esplicativa universale», a meno che non si ometta che: « Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono.» (Karl Marx, "L'ideologia tedesca").
Ora, nel definire il proletariato, non c'è alcun modo di omettere tutto questo senza incorrere in flagranti contraddizioni. Vale a dire: se il proletariato consiste - secondo quella che è la definizione tipica dell'ambiente pro-situ e comunista - nell'insieme di coloro che non hanno controllo sulla propria vita, allora esso consiste anche in «tutti coloro che oggi sono sottomessi al valore, cioè l'insieme delle vittime del capitalismo», quel «famoso 99%» che Dauvé deplora come fosse una volubilità wertkritker riformista. (!) Ma, d'altra parte, se esso è costituito - secondo la definizione convenzionale marxista - dai lavoratori che producono direttamente plusvalore, in questo caso ecco che tutte le esortazioni fatte ad un proletariato sociologicamente indeterminato e impreciso, finiscono per rivelarsi come  frasi vuote e senza senso. L'unica cosa teoricamente fruttuosa, diviene riconoscere tale astrazione come la sintesi di un'infinità di pratiche che si inscrivono tutte, in modo complesso e contraddittorio, nel processo di valorizzazione, il che rende concettualmente utile affrontare un insieme di problemi teorici, ma non ridurli però a un denominatore comune politicamente mobilitante. Adottare un simile punto di vista significherebbe, in primo luogo, cominciare a indagare e a spiegare nel suo reale svolgimento il processo di produzione che fa esistere e agire le classi nelle loro segmentazioni interne e nelle loro relazioni reciproche, le rappresentazioni che esse hanno di sé stesse e del mondo, l'ambito concreto della loro attività, e così via. In una tale indagine, i teorici rivoluzionari dovrebbero considerare le varie teorie esistenti sulla conformazione e decomposizione delle classi nel modo di produzione capitalista, senza disdegnare a priori queste teorie vedendole come non conformi al loro canone; e dovrebbero occasionalmente immergersi nelle risorse scientifiche disponibili, quanto meno con la medesima prontezza che Marx mise nello studiare il lavoro di Charles Babbage, il teorico del calcolo matematico più avanzato del suo tempo. Il proletariato in quanto categoria astratta rimanda a una negatività pura, semplice e omogenea, che non si riferisce a nessun agire concreto, a nessuna vita reale vista nella sua variegata e contraddittoria manifestazione. Per il comunista filosofico e per l'idealista-anarchico, tutto ciò che non può essere ridotto a questa astrazione va negato; e questa negazione, che non offre molte possibilità di pratica, porta quasi inevitabilmente alla formazione di sette che si definiscono rifiutando tutto ciò che non le conferma nella loro autoreferenzialità identitaria. Difficilmente ci si può aspettare che una simile pratica non finisca per impoverire i legami personali e le prospettive teoriche, e non rinnovi continuamente un senso di minaccia e di rivalità, sia all'interno che all'esterno del gruppo. La conseguente frattura, tra la rappresentazione ideale della «nostra classe», della «comunità umana», o della «comunità di lotta», da un lato, e la realtà della vita impoverita condivisa con tutti gli altri, dall'altro, non fa che confermare la misura in cui la loro pratica si inscrive nel regno della politica come sfera dell'ideologia, dove azione e discorso esistono solo per mistificarsi; e dove, in effetti, le alternative rivali tendono a offrire diverse varianti della stessa cosa. Orbene, se in termini concettuali, teorici e politici, cancellare tutte le distinzioni sociali, sussumendole sotto la categoria del «proletariato», non aggiunge molto; in termini di coscienza individuale mortificata dall'atomizzazione, e disposta a rifugiarsi in una terribile comunità, [*5] questa riduzione è tutto, e conferma fino a che punto la mentalità della sinistra illuminata non sia stata veramente scardinata. In qualsiasi testo dell'ambito politico proletario si possono localizzare tutte le occorrenze della parola proletariato, e in ognuna di esse sostituirla con la parola popolo, senza che il significato del testo cambi significativamente. Ciò rivela che anche questa mentalità, comprese le sue varianti più eterodosse, viene trascinata nel vortice della crisi generalizzata del sistema di produzione; una crisi dalla quale nessun modello di convinzioni morali e politiche può uscire intatto. Come dichiarato in un recente documentario: «Nel corso degli ultimi quarant'anni, anziché affrontare le reali complessità del mondo, [i suoi dirigenti] si sono ritirati. Al contrario, hanno costruito una versione più semplice del mondo, e nella misura in cui nel mentre questo mondo falso cresceva, noi tutti lo abbiamo seguito, poiché la semplicità era confortante. Perfino coloro che pensavano di stare attaccando il sistema sono diventati parte dell'inganno.» (Adam Curtis, "Ipernormalizzazione")
Di certo, né la crisi né la lotta di classe verranno rese più intelligibili a partire da una categoria semplice e totale, alla quale però mancherebbe solo l'adesione delle masse. Nella società capitalista c'è, ovviamente, un malessere generalizzato che si manifesta attraverso un diffuso anticonformismo, più o meno uniformemente distribuito tra le classi diseredate. Ma se questo malessere non trova più alcun sollievo in quella che è un'assegnazione di classe dei soggetti, non è perché essi si illudono, ma proprio perché hanno sempre meno motivo di aspettarsi che riconoscersi come membri di una classe sfruttata, porti loro qualche emancipazione o un qualche miglioramento. Se le due classi fondamentali del capitale possono esistere, rispettivamente solo in quanto negazione della classe opposta, in una reciproca identità negativa che forma la base della comunità materiale, nessuna emancipazione può risultare dall'appartenenza attiva ed entusiasta ad una di queste classi, né dall'accettazione rassegnata della fatalità di appartenervi. Ciò che ci emancipa, non è riconoscerci come soggetti definiti dall'essere esclusi o integrati nella proprietà, ma risiede nel contestare il rapporto di proprietà in quanto tale. Se ci emancipiamo, non è solo rispetto al dominio esercitato dai nostri sfruttatori, ma anche rispetto a ciò che viene costituito in noi da quella relazione. Ciò implica che dobbiamo anche emanciparci da quelle forme di lotta che ci riportano all'assegnazione di classe, a quell'identità che non fa altro che corroborare la nostra inferiorità e la nostra assoluta dipendenza dal capitale.
Questo non significa affatto negare l'esistenza delle classi e delle loro lotte. Esistono, e non in uno ma in molti modi: come soggetti collettivi definiti dalla loro relazione con la proprietà e con il processo di produzione; come la relazione attraverso la quale i soggetti passano allorché entrano in contatto con le mediazioni sociali della produzione, senza esserne definiti in modo permanente; come somma di interessi collettivi reciprocamente antagonisti e reciprocamente dipendenti; e così via. Qualunque sia la prospettiva adottata, una cosa è usare un concetto sapendo che si tratta di una rappresentazione mentale della realtà, un'altra è credere che tale rappresentazione costituisca la realtà stessa. La differenza tra un atteggiamento e l'altro, corrisponde alla differenza tra teorizzare e predicare un'ideologia. La teoria si fa carico delle complessità poste dalla realtà concreta, forzando i suoi concetti affinché abbiano un certo potere esplicativo; l'ideologia afferma l'immutabilità dei concetti, semplificando la realtà per farla rientrare in essi. Dall'epoca del "Manifesto del Partito Comunista", questa riduzione ideologica è stata un fattore cruciale nella mobilitazione politica, pedagogica e persino militare delle masse, giocando un ruolo importante nello sviluppo della lotta di classe e costituendo forse il patrimonio ideologico più significativo della sinistra in tutte le sue varianti. Avendo la sinistra impiegato per decenni un concetto analitico di classe e un concetto di identità, dopo il crollo del socialismo reale ha praticamente abbandonato l'analisi di classe per concentrarsi sulla politica dell'identità. Ma poiché negli ultimi anni è diventato inevitabile dover recuperare il concetto di classe, ecco che la sinistra ha riportato la sua attenzione su di esso, spogliandolo ora di gran parte del suo peso analitico e riducendolo al suo aspetto identitario, che comunque era sempre stato cruciale nel suo discorso. In effetti, dai tempi della rivoluzione francese, ogni volta che si è parlato di popolo, di classe operaia o di proletariato, il senso e lo scopo di queste categorizzazioni è stato sempre lo stesso: suscitare identità e appartenenza a una comunità politica ideale, che naturalmente non potrebbe esistere senza portavoce ufficiali della sua volontà generale. Questo è un altro modo di descrivere la funzione di integrazione nella società borghese svolta dal marxismo e dal movimento operaio nell'epoca del programma, e che continua a pesare come un macigno nella definizione della pratica rivoluzionaria nel periodo attuale. Al contrario, la teoria comunista non cerca di suscitare l'adesione a qualcosa, ma piuttosto di mettere tutto in crisi: è il momento autoriflessivo del movimento che dissolve l'esistente. Parla di classi e di lotta di classe, ma non per offrire una categoria con cui identificarsi senza doverci pensare troppo; bensì per dare conto del movimento in cui tutto - comprese le classi e le loro relazioni - è in crisi, si trasforma e scompare. Il comunismo non è l'affermazione di una delle classi del capitale, ma l'abolizione di tutte queste classi: forse non è superfluo ricordarlo, e trarne la conclusione che, insieme alla definizione della pratica rivoluzionaria di questo periodo, è necessario definire la nozione stessa di comunità. Se è necessario insistere su questo, ciò è forse perché la scoperta della critica del valore nell'ambiente politico proletario sembra aver causato una certa confusione. Di fronte alla difficoltà di supporre che Marx abbia elaborato due concezioni diverse delle classi del capitale, si è cercato di cancellare questa differenza ripetendo un'idea del proletariato che si contraddice fino all'annullamento. Sembrano dimenticare che questo è un problema concettuale che può essere affrontato solo concettualmente, e non facendo proseliti. Se nei suoi primi scritti Marx descriveva la classe operaia come antagonista della classe capitalista, esortandola ad approfondire questo antagonismo per diventare il soggetto dell'emancipazione umana, nella sua critica dell'economia politica entrambe le classi vengono invece presentate come logicamente subordinate alle categorie che spiegano il processo di riproduzione capitalista: esse sono semplicemente «personificazioni dei rapporti economici». Questa dualità concettuale - da un lato la classe operaia come forza antagonista al processo di valorizzazione, e dall'altro come agente attivo di questo stesso processo - corrisponde a una dualità reale: gli esseri umani sussunti nel processo capitalista hanno effettivamente una doppia esistenza; sono entrambi condensazioni individuali dell'attività vivente concreta della specie, e forza-lavoro che produce valore. Nel primo caso, ha senso chiamarli proletari solo in considerazione del fatto che sono esclusi dal controllo cosciente del proprio metabolismo socio-naturale; nel secondo caso, possono essere chiamati così solo nella misura in cui sono coinvolti nel mercato in quanto lavoro salariato. Se c'è una contraddizione tra i due usi del termine «proletariato», questa riguarda il fatto che nella vita reale esiste una contraddizione tra essere un organismo umano vivo ed essere una merce impegnata nella produzione di valore. La teoria, per quanto spieghi questa contraddizione, non può risolverla, perché essa può essere risolta solo nella pratica generata dalla crisi del metabolismo capitalista. Nemmeno la propaganda può risolvere questo problema, poiché non basta identificarsi con questa categoria per far sì che la contraddizione svanisca. E a questi fini, non fa differenza se ci chiamiamo proletari, classe operaia, popolo o altro. Questi termini hanno diversi gradi di utilità concettuale nei diversi contesti teorici, e un'attività critica deve saperli usare secondo la loro specifica rilevanza. Sceglierne uno da ripetere come un mantra può servire allo scopo identitario di posizionarsi all'estrema sinistra dello spettro politico, ma non ha niente a che vedere con una critica comunista della realtà. Per chiarire questo, vale la pena di citare a lungo il gruppo Krisis:
«Chiunque voglia avvicinarsi alla realtà sociale di oggi per mezzo di un concetto identitario di classe, deve affrontare una serie di problemi. Quando si considera la relazione tra i diversi tipi di venditori di lavoro, diventa chiaro che ora le forze centrifughe che frammentano la classe operaia sono molto più forti delle forze centripete che la unificano. I lavoratori ben integrati sono del tutto indifferenti al destino dei precari; gli interessi dei disoccupati cronici sono diversi da quelli dei garantiti. Per quanto riguarda i confini nazionali, il bilancio è ancora più devastante: l'internazionalismo era già un tema nei discorsi socialisti dominanti nel periodo d'oro del movimento operaio, ma la solidarietà di classe pratica si è sempre limitata, nel migliore dei casi, alla cornice dello Stato-nazione. Sebbene il processo di globalizzazione sia andato al di là di un tale quadro, e il capitale agisce ora come se fosse un datore di lavoro globale, tutto questo non sta portando alla nascita di una solidarietà transnazionale dei venditori di forza lavoro: l'operaio qualificato tedesco non vede il lavoratore migrante cinese come un potenziale compagno d'armi, ma piuttosto come uno sporco concorrente. Chi pretendo di armonizzare l'emancipazione sociale per mezzo dell'interesse di classe, si vede costretto a dichiarare che queste contrapposizioni sono solo secondarie. Per questo le sinistre non hanno altra scelta che fare della nebulosa coscienza di classe il problema fondamentale: presuppongono che, con un'astuta strategia, il capitale sia riuscito a nascondere alla classe operaia quali sono i suoi reali interessi, e che pertanto volta le spalle alla guerra di classe che sta ribollendo da decenni. Noi non crediamo che la classe operaia sia così stupida. Già l'idea per cui un «interesse comune» dovrebbe necessariamente nascere da simili interessi particolari non è convincente. Pensate ai partecipanti a una gara automobilistica: tutti vogliono essere i primi a tagliare il traguardo, il fallimento degli altri è un prerequisito per il successo di ciascuno. Se, al contrario, partiamo dal concetto analitico di classe, l'assunto secondo cui la classe operaia «ha dimenticato i suoi veri interessi comuni» diventa irrilevante, visto che il predominio delle forze centrifughe al suo interno corrisponde a cause strutturali. In ultima analisi, corrisponde al fatto che lo sviluppo delle forze produttive, avvenuto negli ultimi decenni, ha cambiato in maniera fondamentale la posizione della merce-lavoro nel sistema capitalista. Fino agli anni '70, il lavoro era la forza produttiva più importante: al centro dell'accumulazione capitalista c'era l'estorsione del plusvalore industriale, in economie nazionali relativamente chiuse, rendendo così il capitale dipendente da eserciti di lavoro relativamente omogenei. Questa posizione centrale del lavoro di massa, ha costituito la base materiale dei successi del movimento operaio. Tuttavia, la scientificizzazione della produzione, avvenuta a apartire dalla terza rivoluzione industriale, ha irrimediabilmente distrutto tale costellazione, collocando sezioni sempre più ampie della classe operaia in una posizione precaria rispetto al capitale. Il motore dell'economia mondiale non è più l'estorsione del plusvalore industriale, bensì la crescita del capitale fittizio sui mercati finanziari. Naturalmente, ci sono ancora segmenti salariati dai quali il capitale rimane inesorabilmente dipendente, e che quindi mantengono una forte posizione contrattuale. Ma ci sono sezioni sempre più crescenti della classe operaia, che vivono sotto la spada di Damocle della sostituibilità. Fino a quando la vendita della forza lavoro rimarrà la base ineludibile ed evidente della nostra esistenza sociale, gli interessi all'interno della classe operaia continueranno a divergere. Invocare un interesse di classe comune a tutti i salariati, come punto di partenza per un processo di risolidarizzazione sociale, non è appropriato. Per fare in modo che questo processo si avvii, al centro della critica del capitalismo ciò che deve essere posto è proprio l'obbligo di guadagnare. Certo, il lavoro salariato non può essere messo in discussione isolatamente, né si può pensare di liberarsi da esso senza liberare la ricchezza sociale dalla sua forma di merce. Un anticapitalismo che problematizzi e attacchi il dominio della merce non è forse qualcosa di completamente estraneo a questo mondo? Chiunque metta in discussione ciò che sembra essere evidente, viene messo ai margini. Tuttavia, questo punto di vista offre anche un grande vantaggio: la distinzione sistematica tra ricchezza merceologica astratta e ricchezza sensuale-materiale consente l'accesso a tutta una serie di conflitti sociali che altrimenti potrebbero sembrare discordanti e contrapposti.» (E. Lohoff e L. Galow-Bergemann, "Die Wiederentdeckung des revolutionären Subjekts Arbeiterklasse als Ausdruck linksidentitärer Sehnsucht Zur Kritik der neuen Klassenpolitik"). ["La riscoperta del soggetto rivoluzionario La classe operaia come espressione dell'anelito della sinistra indentitaria Sulla critica della nuova politica di classe"].
Nella sussunzione reale, riconoscersi come proletario implica, nel migliore dei casi, riconoscersi anche come escluso dalla proprietà dei mezzi di produzione e come proprietario defraudato di una porzione di forza lavoro. Non è chiaro in che misura i proletari non lo sappiano già, senza bisogno di identificarsi come tali, e tanto meno se una tale identificazione li porti, o meno, necessariamente a contestare il rapporto di proprietà in quanto tale. Né c'è alcuna ragione convincente che porti a credere credere che se vogliamo emanciparci dobbiamo prima trovare un qualche tipo di merito, di promessa o sollievo nel riconoscerci in quanto schiavi moderni: nessuno ha mai fatto una rivoluzione vittoriosa in nome della propria inferiorità. Proprio perché i proletari non sono né schiavi nel senso antico, né servi della gleba nel senso feudale, essi tendono piuttosto a riconoscersi nella libertà offerta dall'ideale borghese, e a fare del loro meglio per realizzare quell'ideale nella loro vita, anche se possono tentare di farlo solo attraverso delle mediazioni sociali che ad ogni passo lo smentiscono. Tuttavia, sembra non sia facile convincerli a scambiare quell'ideale sempre deluso per un'identità che al massimo li legherebbe a una «comunità di lotta» che parla di un mondo nuovo, senza però rompere essere in grado essa stessa di rompere con la logica escludente e competitiva che governa l'esistenza mercificata... come se non avessero già abbastanza la disgrazia di essere soggetti liberi del capitale e di vivere lacerati da una tale contraddizione. È assai significativo che in questa preferenza per la libertà astratta, e in questo disprezzo per l'appartenenza di classe, gli ultra-sinistri non vedono altro che una servitù mentale della quale potrebbero liberarsi per mezzo della loro propaganda, e tramite l'azione esemplare. Ma in questa reticenza dei proletari, si cela un lato sovversivo che esprime, se non altro per omissione, il fatto che essi esistono come una «classe universale che è una non classe di questa società». Nessuno è solamente proletario: inoltre, ognuno è anche tutto un insieme di determinazioni che negano quella condizione insieme a tutto ciò che la riafferma, ivi compreso il suo riconoscimento soggettivo. Per questo lo stimolo che cerca di provocare un simile riconoscimento, può essere solo una politica identitaria, e anche in questo campo può avere solo un successo molto limitato, poiché il tardo capitalismo offre innumerevoli identità assai più attraenti di quella dello schiavo portatore di un'essenza umana messianica.
È innegabile, di certo, che nella riluttanza all'assegnazione di classe, c'è una parte di autoinganno attribuibile alle tipiche illusioni individualiste e liberali, ma non è meno vero che ciò ha anche l'effetto di essere un sano rifiuto a venire re-inscritto in una comunità personale oppressiva. Di fronte a questa opzione, la comunità materiale del capitale appare come un male minore, e spesso lo è, poiché dissolve le forme precedenti di comunità, compresi i loro elementi opprimenti, come è evidente nei commenti di Marx a proposito dell'abolizione del patriarcato da parte dei rapporti sociali borghesi. Non dobbiamo escludere, inoltre, che questa riluttanza abbia a che fare con il fatto che per le ideologie e organizzazioni che fanno appello alla coscienza di classe vista come fattore rivoluzionario, gli sfruttati hanno incontrato più spesso nuove forme di miseria e la resurrezione di vecchie oppressioni, piuttosto che una comunità umana emancipatrice.
Al livello del senso comune del cittadino anticonformista che si oppone al sistema, questo limite dell'assegnazione di classe oggi si manifesta come la domanda ossessiva circa la complicità dell'individuo isolato riguardo la riproduzione di un ordine sociale condannabile. Questa domanda, che esprime in forma rudimentale il problema dell'alienazione di tutti che passa attraverso la loro ascrizione di classe, trova una risposta altrettanto rudimentale nell'idea che «il cambiamento è in ciascuno»; vale a dire che l'atomizzazione delle persone-molecole - queste monadi asociali - potrebbe essere superata grazie all'aggiunta di cambiamenti da operare separatamente in ciascuno di essi. Ora, che nel senso comune questa questione si ponga in forma alienata, ciò non significa che non costituisca un problema reale che riguarda i rivoluzionari, né che si risolva semplicemente ribadendo l'appartenenza di classe come una formula magica capace di riunire, con un atto di buona volontà, ciò che è atomizzato e che costituisce la struttura stessa della socializzazione feticista. Per prevenire un possibile malinteso: la nozione di Gemeinwesen, di grande rilevanza per alcuni gruppi comunizzanti, non designa la sussunzione dell'individualità astratta all'interno di una totalità categoriale altrettanto astratta («il proletariato», «l'umanità») precedente alla vita concreta degli individui. Si riferisce piuttosto a un Aufhebung, a un superamento che integra come elemento positivo gli elementi sussistenti dell'individualità concreta che non sono stati ridotti alla forma astratta del soggetto. Ciò che il comunismo cancella, non è l'individualità in quanto tale, ma piuttosto il carattere astratto e formale assegnatole dalla socializzazione feticista, la sua irrealtà sociale; e lo fa non sopprimendo l'autonomia relativa e oscillante che è stata raggiunta dagli individui reali, ma integrandola come elemento vivo e dinamico nel terreno naturale e sociale che forma la loro sostanza comune (si veda a questo proposito "La passione per il comunismo", in Endontes n°5).
«L'individualità non esiste mai da sé sola, ma sempre in relazione a una forma sociale. Si può essere individuali solo essendo sociali. Gli è che si può essere individuo solo in quanto si è essere sociale. Pertanto, l'individualità non significa nient'altro che la tensione tra gli esseri umani particolari reali e sensibili e la forma sociale che viene plasmata col fuoco all'interno degli stessi (...) Quello che c'è di tormentoso, di doloroso, di imbarazzante, in questa contraddizione, torna a trasparire (...) La possibile "associazione di esseri umani liberi" - così definita da un Marx pieno di presentimenti - potrebbe pertanto essere definita con maggior precisione come una "associazione di individui liberi", cioè, una società di individui che mediano coscientemente sé stessi nella loro relazione sociale e naturale e che si sono sbarazzati della pelle obbligatoria della seconda natura.Tuttavia, è proprio questa liberazione che non può, in alcun modo, essere costruita sull'individualità astratta dell'Uomo produttore di merci, il quale è per l'appunto la forma schiavizzante del soggetto dei moderni individui; forma nella quale essi torturano tanto loro stessi quanto si torturano gli uni con gli altri.» (Robert Kurz, "Ontologia negativa. Gli oscurantisti dell'Illuminismo e la metafisica storica della Modernità").
Riconoscimento reciproco: è questa la chiave che evidenzia ancora una volta la miseria della militanza e della teoria concepita come propaganda, pratiche che sono entrambe ancorate, non alla mera amministrazione delle cose ma al governo degli altri, vale a dire, al non riconoscere gli altri, alla loro negazione. Perché, infatti,
«Chiaramente, l'autonomia - tanto quella individuale quanto quella collettiva - non è la chiave di tutto, ma è piuttosto una precondizione perché si possa dare luogo a una lotta coerente per ottenere l'emancipazione umana. Di conseguenza, nessuna attività di propaganda è veramente "utile". L'auto-potenziamento è incompatibile con il controllo delle emozioni, con gli eroi positivi, con i modelli da seguire e con le conclusioni indotte. Non c'è niente che sia ovvio. L'alienazione non può essere combattuta con mezzi alienati.» (Gilles Dauvé, "Le dubbie virtù della propaganda").
Questo è un altro modo per dire che l'emancipazione è una relazione sociale, e che essa consiste necessariamente nell'autonomia che hanno gli individui di selezionare, tra tutti i contenuti socialmente disponibili, quelli che più si adattano al loro temperamento peculiare, combinandoli in modo da produrre i propri contenuti mentali e le proprie risposte affettive, riconoscendo attivamente questa autonomia in tutti gli altri. La propaganda, nella misura in cui non cerca di provocare una riflessione critica, quanto piuttosto di mobilitare e plasmare l'emotività degli altri - e nella misura in cui invoca ossessivamente il cambiamento soggettivo come forma di liberazione - non fa altro che perpetuare la tortura che il soggetto feticizzato infligge a se stesso e agli altri. Perché è proprio attraverso la soggettività che gli individui si incatenano alla dialettica soggetto-oggetto, in cui si alienano costituendo un'oggettività apparentemente esterna a loro che li domina e li schiaccia. Al contrario, quando i proletari mettono in crisi il rapporto sociale che li costituisce, contestando la proprietà in qualsiasi sua forma, questo può essere fatto solo collettivamente, costituendo così una forza materiale, che nel suo lavoro cancella la separazione tra soggettività e oggettività: si sa che la lotta conta ed è reale, proprio perché questa separazione non è più determinante. Appellarsi alla soggettività per agire secondo le condizioni oggettive che la determinano («siamo proletari, comportiamoci da proletari»), significa rimanere molto indietro rispetto a questa rottura, senza poterla mai suscitare. In realtà, non c'è niente che possa suscitarla, se non il processo molto materiale in cui ciascuno viene spinto a superare questo limite. Coloro che credono di poter provocare questo salto attraverso la predicazione proselitistica, non hanno superato quel Marx che, ancora prigioniero della «coreografia hegeliana», aveva elaborato una teoria del proletariato in quanto soggetto-oggetto che rimane immanente alla dialettica alienata.
«Dapprima, le condizioni economiche avevano trasformato la massa del paese in lavoratori. Il dominio del capitale aveva creato in questa massa una situazione comune, degli interessi comuni. Così, questa massa era già diventata una classe contro il capitale, ma non ancora per sé stessa. Nella lotta, di cui abbiamo indicato alcune fasi, questa massa si riunisce, costituendosi come classe per sé stessa. Gli interessi che difendono, diventano interessi di classe.» (Karl Marx, "Miseria della filosofia") In questa concezione, il proletariato appare come se fosse una forma oggettiva, ancor prima di qualsiasi riflessione, e allo stesso tempo appare come un soggetto che agisce coscientemente all'interno di questa forma data a priori. Così, da un lato, essendo esso stesso l'essere scisso del valore, il proletariato esisterebbe come essere sociale «in sé», come «classe in sé» oggettiva; e dall'altro, riconoscendosi negli interessi già dati da quella forma oggettiva, cioè percependo il mondo, pensando e agendo secondo gli interessi dati da quella forma, diventerebbe «classe per sé», diverrebbe «cosciente» di ciò che è già oggettivamente. Questo movimento in realtà è quello del valore che «ritorna a sé stesso», per valorizzarsi come la divinità secolarizzata e reificata che è. La teoria di un proletariato «in sé», che attraverso la coscienza di un comune interesse di classe diventa «per sé», rompe con la teleologia del valore solo in maniera superficiale, e per questo che nella sua versione di sinistra si adegua e si assoggetta al tema del lavoro, della competizione e della sofferenza. Questa prospettiva non solo non rompe con la dinamica rivoluzionaria propriamente borghese - l'autocorrezione periodica del capitalismo in crisi - ma viene inconsciamente in suo aiuto, anche quando sembra attaccarla.
Quando l'ultrasinistra si appella al soggetto proletario, facendolo attraverso la sua definizione oggettiva (salariati, minoranze oppresse, giovani, donne) o attraverso la sua definizione soggettiva (tutti coloro che non hanno il controllo della loro vita), nega la sua stessa pretesa liberatrice, perché sebbene queste definizioni non siano false in senso sociologico o psicologico, esse descrivono soltanto il rapporto feticista, senza criticarlo. La stessa definizione del soggetto di classe dotato di un'essenza che deve attualizzarsi, è più un'operazione pubblicitaria che teorica, la quale cerca di costruire questo soggetto come un pubblico, vale a dire, come un branco. Questa idea di liberazione (impossibile) del soggetto attraverso la sua stessa oggettività/soggettività che lo plasma come tale, fa parte della rappresentazione spiritualista, che fin dagli albori della modernità ha concepito la riproduzione sociale come il compito di reprimere gli individui per liberarli. In effetti, il soggetto rivoluzionario concepito dalla mentalità di sinistra è colui che, per far nascere il suo vero io (liberar in latino significa far nascere, dare alla luce), deve riconoscersi in una oggettività che lo precede e lo costituisce. Nella formazione monastica come nell'educazione scolastica, nell'addestramento militare e nella disciplina per il lavoro, questa liberazione di un soggetto oggettivamente esistente si ottiene facendogli scegliere, sempre di nuovo liberamente, ciò che era già prescritto come buono per lui e per il mondo.
«Pubblicità e propaganda hanno molte cose in comune. Sebbene la propaganda appaia spesso povera e rozza rispetto alle capacità immaginative dei pubblicitari, i propagandisti usano tecniche similari. Uno spot televisivo collega il prodotto che promuove con l'immagine di qualcosa che il potenziale acquirente sa già in anticipo che gli piace: un'automobile verrà mostrata accanto a una famiglia felice, il cibo per animali accanto a un gatto felice e giocherellone, una lozione per il corpo accanto a una modella da passerella, e così via. Funziona sul principio della manipolazione emotiva. Allo stesso modo, la propaganda ci offre un segno di accettazione e consenso per ciò che vuole farci credere, e un segno negativo verso ciò che dovremmo rifiutare.» (Gilles Dauvé, "Le dubbie virtù della propaganda)" Il discorso che invoca la necessità di «riconoscersi in quanto proletario» (segno di approvazione) e di «identificare un nemico» (segno negativo), è molto più affine a questa psicotecnica della pubblicità che a una teoria rivoluzionaria. Non vuole avvicinarsi a una meta-comprensione, a un punto di vista esterno alla socializzazione feticista che gli permetterebbe di fare la sua critica globale; cerca invece di gestire le passioni del soggetto attraverso la manipolazione dei suoi affetti, riproducendo inconsciamente la socializzazione feticista che pretende di combattere. La propaganda, per quanto possa invocare la terminologia rivoluzionaria, non sfugge alle procedure che nel campo dell'educazione, della pubblicità, delle terapie e del consumo culturale sussumono l'attività viva nell'oggettività alienata del valore. Come queste procedure, cerca, come abbiamo visto, di produrre un soggetto facendolo riconoscere e riconoscersi in un'oggettività di cui per essere libero avrebbe solo bisogno di essere consapevole. Questo discorso è anche indispensabile alla conservazione della gerarchia informale che modella la vita di ogni setta politica: la ragion d'essere di questa gerarchia è, paradossalmente, che in essa gli individui si perdono in nome della loro passione rivoluzionaria.
«L'universalismo astratto della socializzazione del valore e del rispettivo pensiero illuminista, in quanto "uguaglianza" negativa ed assassina, non costituisce in alcun modo una base su cui si possa edificare un progetto di emancipazione. Anche rispetto a questo, non c'è niente che si possa "completare" o sviluppare: rimane solo l'opzione di rovesciare una simile relazione. La capacità di esistenza degli individui reali, sensibili e sociali, proprio in tutta la loro differenza qualitativa, in quanto evidenza sociale che, quindi, non abbisogna di alcun stato giuridico di "riconoscimento", può essere ottenuta solamente a partire da un'opposizione fondamentale all'universalismo occidentale dell'esclusione.» (Robert Kurz, "Ontologia negativa. Gli oscurantisti dell'Illuminismo e la metafisica storica della Modernità"). La teoria che cerca di produrre il soggetto proletario facendolo riconoscere nella sua supposta essenza rivoluzionaria non si oppone a questo universalismo; lo riafferma invece, invocando una totalità astratta - la classe universale, la comunità umana, il partito - cui mancherebbe per la sua realizzazione solo l'adesione di coloro che non sanno ancora di appartenervi. Questa concezione ruota intorno all'idea del soggetto rivoluzionario come totalità e come sintesi, un'idea che a sua volta è solo un modo di esistenza della personificazione delle categorie economiche. Il rapporto sociale capitalista è, come sappiamo, l'astrazione dell'attività concreta: un processo in cui le categorie capitale e lavoro si incarnano in persone in carne ed ossa incaricate di realizzare queste categorie nella loro implicazione reciproca. Essendo i capitalisti personificazioni del capitale e i salariati personificazioni del lavoro, entrambi esistono come parte del capitale come reciprocità negativa. La classe operaia è rivoluzionaria solo quando agisce contro la sua funzione in questo processo, cioè contro se stessa, contro il lavoro. È rivoluzionaria non perché è la classe che produce valore, ma perché lotta contro la produzione di valore, contro la sua stessa produttività. Ciò che la rende rivoluzionaria, dunque, non è la sua posizione strutturale nella totalità determinata dalla produzione, ma l'attività immediata e concreta che dispiega contro questa totalità, attività in cui si scompone come classe. Tale attività è multipla e irriducibile a qualsiasi fattore comune che non sia la sua stessa negatività: non esiste un soggetto rivoluzionario che possa essere descritto positivamente in termini di totalità e sintesi.

- Carlos Lagos - Pubblicato il 4 maggio 2021 su freno de emergencia -

NOTE:

[*1] - In quegli anni il gruppo in questione fece circolare un testo il cui titolo è molto rivelatore di questa intenzione: "Costruire la propria teoria rivoluzionaria: un manuale per principianti".

[*2] - Antiforma è un termine coniato dal gruppo comunista italiano N+1, per designare il movimento reale che cerca di abolire le condizioni sociali date, senza pretendere nulla, senza pretendere di ri-formare o trans-formare le strutture esistenti, ma solo negando ogni forma sociale data a priori, aprendo così la possibilità del comunismo come avvento dell'inedito. Un movimento di protesta è dunque antiformista finché impiega questo impulso a smantellare le forme sociali e istituzionali date; ma perde questo carattere non appena si propone di realizzare delle conquiste positive adattando le forme date a degli obiettivi raggiungibili all'interno dell'ordine capitalista.

[*3] - Cfr. "Radiografía de las huelgas laborales en el Chile del neoliberalismo democrático (1990-2015): masividad del conflicto por fuera de la ley en un sindicalismo desbalanceado", di D. Pérez, R. Medel e D. Velásquez, pubblicato nel 2017; e "l'Informe Huelgas Laborales en Chile" 2019, della Universidad Alberto Hurtado.

[*4] - Con sfumature singolari in ogni caso, tra gli altri, ne sono esempi la rivista "Insurgent Notes" animata da Loren Goldner, la rivista N+1, il blog "The Charnel House", la rivista "Endnotes", alcuni scritti di Jasper Bernes e, eccezionalmente in America Latina, la rivista "Cuadernos de Negación".

[*5] - Cfr. Tiqqun, Tesi sulla comunità terribile.


fonte:  freno de emergencia

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