domenica 5 dicembre 2021

Cosa non si fa per vivere ...

Sul valore-lavoro e il lavoro come valore
- di Temps critiques -

Il discorso performativo del potere
Il discorso sul valore del lavoro (di fatto, il lavoro come «valore») che Macron ha appena presentato il 9 novembre 2021, è innanzitutto una riproposizione di ciò che Jospin aveva detto nel 1998, a fronte del movimento dei disoccupati, con gli attacchi al welfare e con il suo rifiuto di un reddito garantito, poi completato nel 2001 attraverso la creazione di un incentivo all'occupazione che, a partire dal 2006, verrà progressivamente trasformato in un incentivo all'attività; ed è, in secondo luogo, una copia del discorso di Sarkozy a proposito del «Lavorare di più e guadagnare di più» attraverso gli straordinari defiscalizzati. Tuttavia, le misure che oggi sono state prese, o auspicate (incentivo all'attività, indennizzo contro l'inflazione) sono in contrapposizione rispetto alla prima dichiarazione di Macron, dal momento che si concentrano anche sull'individuo-consumatore in quanto soggetto del bisogno rispetto all'individuo produttore e creativo. Non è pertanto il lavoro e il salario, che a quest'ultimo corrispondono («il potere del lavoro» secondo Aurélien Purière, ex direttore della Sicurezza sociale, in Le Monde, 11 novembre), ciò che il governo cerca di ammaliare, ma piuttosto il potere d'acquisto, e senza che cambi il rapporto capitale/lavoro. Da qui, ogni assenza di pressione sul capitale e nessun aumento del salario minimo, bensì dei calcoli intelligenti che sembrano essere troppo complessi per Bruno Le Maire, il ministro del lavoro, ma che il presidente chiarirà [*1]. A un livello più generale, si tratta del medesimo ragionamento che è stato applicato a fronte del movimento dei Gilet Gialli, che all'incentivo per l'attività aggiungeva un bonus concesso eccezionalmente dal governo Macron. Ma riguardo quest'ultimo, stavolta l'iniziativa non proviene dal Medef, e non si sa se l'indennità verrà concretamente pagata dalle aziende, cui non si chiede di contribuire dacché sarà lo Stato a compensare. Inoltre, l'indennità di inflazione viene estesa anche ai lavoratori non salariati, e segna un ulteriore riconoscimento implicito del fatto che il sistema salariale organizza solo in maniera imperfetta la totalità della forza lavoro, che dovrebbe costituire la «popolazione attiva», e che abbiamo definito «tendenza all'irriproducibilità della forza lavoro». Nell'articolo citato, Purière chiama in causa Friot e Lordon (riferendosi al loro libro: "En travail. Conversations sur le communisme", La Dispute, 2021), e persino il Marx dei Manoscritti del 1844, per ripristinare il potere sul lavoro da parte del «produttore» contro il «comando capitalista», come se tale potere un giorno, non si sa quando, fosse esistito, forse al tempo beato dello Stato sociale. Ma nemmeno una parola per quanto riguarda l'«Inessenzializzazione» della forza lavoro in quello che è il processo di valorizzazione. L'ideologia del produttore ottocentesco, e quella dell'operaio specializzato dei Gloriosi Trenta vengono evocati quasi in maniera analoga, mentre essenzialmente il processo di valorizzazione non viene più considerato come un processo lavorativo, e questo nella misura in cui il lavoro morto domina il lavoro vivo e il capitale si totalizza nell'unificazione dei suoi processi di produzione e di circolazione (la famosa «catena del valore»).
Il caso della Francia non è affatto isolato, dal momento che è soprattutto negli Stati Uniti che il fenomeno è apparso, e su più vasta scala. Infatti, quello che si sta registrando è un numero record di dimissioni, di auto-licenziamenti dal lavoro. Nell'agosto del 2021, secondo gli ultimi dati del Dipartimento del Lavoro, sono stati 4,3 milioni i dipendenti che hanno lasciato il loro lavoro. Alcuni se ne vanno per trovare un lavoro meglio retribuito, altri vogliono cambiare vita. Ci sono degli economisti che hanno cominciato a parlare della «grande rassegnazione». Ciò che qui emerge, è che il mercato del lavoro non è affatto un mercato, o almeno non è un mercato come lo sono tutti gli altri. Per alcune analisi di sinistra meno fattuali, come quelle di Romaric Godin in Mediapart [*2], a volte troviamo messa in discussione l'idea di mercato del lavoro, e l'idea che ci sarebbe una resistenza al lavoro, ma senza però andare al fondo della questione, che poi sarebbe il riconoscere che la forza lavoro non è una merce reale; cosa che è il minimo di coerenza quando si dice che non esiste un «mercato del lavoro» o, per lo meno, che il mercato del lavoro non è un mercato come gli altri. A tale riguardo, Karl Polanyi è più utile di Karl Marx. Secondo il medesimo ordine di idee, il riferimento fatto da Godin, alla contrapposizione tra lavoro concreto e astratto, non sembra più valido, sebbene forse lo era ancora all'epoca della critica del lavoro che veniva fatta dai proletari negli anni 1965/1975. Oggi ad essere criticato, non è tanto il lavoro astratto  - e del resto non si è mai nemmeno trattato di questo, visto che negli anni '60 e '70 a essere criticato era il lavoro «in generale» - quanto piuttosto il lavoro concreto non qualificato e sottopagato. Quindi, allorché i lavoratori degli alberghi e dei ristoranti quando oggi rifiutano quello che si chiama «il taglio», in questo non c'è alcuna critica al lavoro «astratto», ma solamente una critica al lavoro «concreto», alla sua organizzazione e ai suoi vincoli... senza alcun reale risarcimento. La stessa cosa, ma al contrario, vale anche per la battaglia dei sindaci contro le direttive di Macron circa il passaggio alle 35 ore per tutti i comuni: la resistenza non è contro il lavoro, ma sul lavoro e sui privilegi acquisiti.

A essere sotto attacco non è il capitale
Ciò che sfugge alla comprensione di Godin e compagnia, è la percezione che negli odierni processi produttivi lo sfruttamento della forza lavoro non è più essenziale alla valorizzazione. Questo vuol dire confondere l'estensione del valore a tutte le attività umane con la capitalizzazione di queste stesse attività, nel momento in cui il capitale è arrivato a dominare il valore quasi interamente. Il valore non è certo scomparso, ma è stato piuttosto cancellato dalle reti e dalle relazioni; in un certo senso funziona solo per difetto. Il capitale può pertanto emanciparsi dalla «logica del valore» e continuare così il suo corso caotico... senza crollare.
Avendo appena scritto un libro sull'operaismo italiano [*3], non possiamo fare a meno di essere scettici sull'interpretazione secondo cui le poche reazioni attuali alla ripresa del lavoro dopo periodi di confino [*4], fanno parte della stessa rivolta, e a fortiori avrebbero addirittura lo stesso significato delle azioni del periodo operistico in Italia, dove il contesto era assai diverso; un movimento offensivo e abbastanza generalizzato di critica del lavoro a partire dalla condizione operaia, insieme a un profondo movimento di rivolta giovanile, assai lontano dall'essere trovato oggi, e con un rapporto di forza, tra capitale e lavoro, molto diverso .
Inoltre, l'informazione fornita dai media, o anche sulla rete, a proposito delle azioni in corso, mescola allegramente le azioni di «dimissioni» dal lavoro negli Stati Uniti, proprio mentre i motivi sono disparati. Di conseguenza, alcune interpretazioni tendono a equiparare, più meno, queste reazioni alle pratiche critiche di turnover e di assenteismo della fine degli anni '60 e dell'inizio degli anni '70, come se oggi gli impiegati rispondessero principalmente alla flessibilità capitalista attraverso la flessibilità operaia teorizzata da Negri negli anni '70, con il suo concetto di imprenditorialità politica.
Questo è soprattutto il caso di quelle interpretazioni che si concentrano sulla situazione americana, senza sottolinearne la sua specificità, vale a dire un rapporto capitale/lavoro in un «mercato» molto poco e regolato e inquadrato dal diritto generale (statale o federale), ma tuttavia fortemente contrattualizzato secondo quelli che sono i precetti del liberalismo. Di conseguenza, ecco che la direzione ti può licenziare in qualsiasi momento e anche il dipendente può andarsene in qualsiasi momento (in teoria). Tuttavia, in tempi di crisi sanitaria, tale aspetto ha portato ad un allentamento ancora maggiore di questo legame, il quale viene visto come occasionale, soprattutto perché i servizi sociali riguardanti il lavoro ad orario ridotto non viene mai utilizzato, a differenza di come accade nell'Europa occidentale.
Queste reazioni non sembrano pertanto paragonabili al «rifiuto del lavoro» industriale e alle condizioni di disciplinamento della forza lavoro nella grande città, espresse soprattutto dai lavoratori italiani del sud della penisola durante l'ultimo assalto proletario conosciuto su larga scala (1967-77).
La «rivoluzione del capitale» ha trasformato il lavoro, il tempo di lavoro, il contenuto del lavoro e la sua natura. Nei paesi/potenze dominanti, il valore non ha quasi più (oppure non ce l'ha più: non è qui che dobbiamo decidere!) la sua fonte nel «tasso di sfruttamento» della forza-lavoro, calcolato secondo una formula matematica discutibile, e in quello che era un rapporto di produzione basato e incentrato sul processo di lavoro. È caratterizzato dalla capitalizzazione di tutte le attività umane, di giorno e di notte... Ciò non significa, naturalmente, che non ci sia più «sfruttamento»... nel senso proprio del termine. La capitalizzazione, in questo ambito, significa l'incorporazione immediata di qualsiasi attività nel capitale, che avviene dal momento in cui a questa attività viene dato un prezzo, senza dover passare necessariamente per la forma salariale (si vedano: i lavoratori intermittenti dell'industria dello spettacolo, i lavoratori autonomi, i lavoratori del clic, ecc.).

L'esperienza negativa
In quelle che sono le attuali reazioni al lavoro, ci sono grida di sofferenza, di frustrazione e di rivolta mescolate insieme, e questa loro espressione non è principalmente collettiva; è particolare, individuale e soggettiva. Vedere in essa una coscienza collettiva sarebbe una finzione, poiché, tendenzialmente, adesso sono solamente l'idea e l'esperienza di una coscienza collettiva che vengono alterate, dissolte, decomposte, poiché dal lavoro provengono soltanto «esperienze negative»; e negative proprio nel senso primario del termine, e non nel senso di quel «negativo al lavoro», hegeliano e marxiano. Così come il proletariato non può più affermare una sua identità operaia [*5], non ci si può più riferire a un'«esperienza proletaria» come quella di cui parlavano la rivista "Socialisme ou barbarie" degli anni '50 (nel suo numero 11) e gli operai italiani degli anni '60 e '70. Il lavoratore "uberizzato", o il micro-imprenditore, non è il lavoratore-massa, né forma una massa. Nel migliore dei casi si raggruppa con gli altri senza tuttavia fare alcuna «moltitudine».
Il nostro abbandono di qualsiasi riferimento alla «coscienza» o alla «coscienza di classe», potrebbe essere rivisitato alla luce (oscura!) di questo fenomeno di «perdita di coscienza» oppure - cosa che le è vicino - della ricerca di «stati alterati di coscienza». Innanzitutto, coloro che si occupano di complottismo in tutte le sue forme, attraverso le reti sociali, ma non solo, poiché la perdita di punti di riferimento teorici, o di principi politici è grande.
Senza sacrificare totalmente il movimento dei Gilet Gialli, quest'ultimo era riuscito a non diventare il suo proprio stesso marchio di fabbrica e a superare grazie alle sue azioni nella strada, la virtualità potenziale delle reti; la cosa è diventata più discutibile per quel che concerne le attuali manifestazioni fatte a partire dal rifiuto del passaporto sanitario [*6]. Poi, ancora più ai margini, l'azione relativamente recente ma ricorrente di un fenomeno come quella dei Black Bloc, che esprime il rifiuto di definirsi politicamente e di affermare un'identità in quanto gruppo d'intervento; oppure lo sviluppo dei rave party che sono diventati delle vere e proprie feste libere [*7], nelle quali il partecipante dissolve la sua coscienza della realtà e abbandona la propria individualità per immergersi in un mondo immaginario che suppone debba essere di festa e al di fuori dal sistema. Malgrado le differenze tra queste pratiche molto diverse, tutte loro hanno due punti in comune:

-  il primo è che non sembrano avere un substrato oggettivo poiché esistono solo nelle loro azioni immediate, essendo stato il loro fondamento come messo tra parentesi. Questo era già il caso dei Gilet Gialli, per esempio, che tacevano, o non si soffermavano, su quella che era la loro attività professionale (di partenza, non si sono mai posti la domanda: «cosa fai per vivere?»; cosa che il più delle volte si riferisce al rapporto con il lavoro), per poi poter parlare delle condizioni di vita in generale, considerate più dal punto di vista del «sentire» che di quello della «coscienza» nel senso abituale di coscienza riflessa. Questo «sentimento» sarebbe stato espresso, ad esempio, negli Stati Uniti, nello «You only live once» o YOLO.

-  il secondo è che tutti partono da un comportamento individuale che poi si esprime collettivamente, invertendo così quello che è stato il senso del rapporto collettivo/individuale nei movimenti di classe proletari (il «proletario-individuale» è prima un proletario, e poi è un individuo, a partire dal fatto che è sussunto dalla sua classe), poiché, a causa del livello raggiunto dal processo di individualizzazione nella società capitalizzata, i proletari sono per prima cosa individui... in assenza di qualsiasi possibilità di riforma della classe nel senso marxista del termine, ossia richiedendo condizioni oggettive e condizioni soggettive della loro formazione.

È questa difficoltà a oggettivare le lotte e, più in generale, le pratiche e i comportamenti a far sì che, nel migliore dei casi - come per i Gilet Gialli, ad esempio - la tendenza a formare una comunità sia passata principalmente attraverso la comunità di lotta, la quale poi ha finito per costituire l'oggettivazione di tale lotta; ma si è trattato di un'oggettivazione fragile e instabile, perché basata unicamente sulla lotta. La cosa può quindi perdere la sua finalità, confondendo mezzi e fini cercando poi di durare al di fuori e dopo la fine del movimento, come quando oggi stanno facendo i resti dei Gilet Gialli che tentano di occupare il campo della lotta contro il pass sanitario. Una volta sparita questa oggettività, quella che si esprime, è solo una soggettività simile a qualsiasi altra, senza alcun riferimento a una determinazione sociale a priori.

- Temps critiques, Lunedì 15 novembre 2021 -

NOTE:

[*1] - Bruno Le Maire: «Quando vieni pagato al livello dello SMIC [salario minimo], arrivi vicino ai 1500 euro netti/mese». Libération, il 4 novembre, ci ricorda che lo SMIC netto è di 1260 euro/mese. Non importa, ci dice Macron: lo SMIC più i bonus e l'esenzione fiscale, fanno altri 170 euro (discorso del 9 novembre 2021). Se aggiungiamo questa somma allo SMIC reale, arriviamo a 1430 euro. Il conto è quasi buono e il ministro del lavoro si salva da uno schiaffo in faccia.

[*2] - Romaric Godin, "La penuria di manodopera, sintomo di un sistema economico in crisi", Mediapart, 29 settembre 2021 e Romaric Godin e Dan Israel, "Il valore lavoro, specchio per le allodole di Emmanuel Macron", Mediapart, mercoledì 10 novembre 2021.

[*3] - Jacques Wajnsztejn, L'opéraïsme italien au crible du temps, 2021.

[*4] - Negli Stati Uniti, gli scioperi si moltiplicano, come quelli delle troupe cinematografiche e televisive di Hollywood, dei lavoratori della John Deere (metallurgia), dei minatori dell'Alabama, dei dipendenti della Nabisco (un'azienda agro-alimentare specializzata in biscotti), degli infermieri della California e delle badanti di Buffalo, ma si tratta di scioperi ufficiali e non di scioperi "selvaggi". Va notato, tuttavia, che alla Kellogs, la coscienza di classe,  tra i lavoratori più anziani, fa della "resilienza", e questo perché la lotta prende la forma di richieste egualitarie a partire dei salari dei vecchi lavoratori, i cui salari sono in media al di sopra del minimo più avanzato (15 dollari/ora) mentre i nuovi lavoratori assunti si trovano ben al di sotto di esso.

[*5] - Che il potere del capitale rifiuta, e ciò perché oggi è quasi l'unica identità che non viene riconosciuta come minoranza oppressa o dominata.

[*6] - cfr. "Les manifestations contre le passe sanitaire, un non-mouvement?" pubblicato su Lundi matin, #302, 30 agosto 2021.

[*7] - cfr. Jacques Guigou "Comment l'État-réseau accompagne sa rave party cévenole", agosto 2020, disponibile su http://tempscritiques.free.fr/spip.php?article474

fonte: mondialisme.org

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