Leggendo lo spassoso (ma a suo modo anche struggente) libro di Thomas de Quincey "Gli ultimi giorni di Immanuel Kant" (Adelphi), si apprende, tra le altre cose, che il filosofo di Königsberg amava la compagnia degli uccelli.
«Di tutti i mutamenti che la primavera porta con sé, ve ne era soltanto uno che ora interessava Kant: ed egli lo aspettava con una brama così avida e intensa che era quasi doloroso esserne testimone: era il ritorno di un uccellino (un passerotto, o era un pettirosso?) che cantava nel suo giardino, e davanti alla sua finestra. Questo uccellino — fosse sempre il medesimo o uno di una nuova generazione — aveva cantato per anni nello stesso punto: e Kant cominciava a dare segni di inquietudine quando il freddo, persistendo più a lungo del solito, ritardava la sua riapparizione. Come Lord Bacon, infatti, egli aveva un amore infantile per gli uccelli in generale; e in particolare si prendeva cura di incoraggiare i passerotti a fare il nido sopra le finestre del suo studio; e, quando ciò accadeva (e accadeva spesso, dato il silenzio profondo che regnava nella stanza), egli osservava le loro mosse con il piacere e la tenerezza che altri dedicano alle cose umane.»
Ora, la memoria mi tradisce, e così non ricordo più in quale libro abbia mai letto che chi ama gli uccelli non può essere del tutto cattivo... Ad ogni modo, per tornare al padre dell'imperativo categorico, egli, più che accontentarsi di una dolce promiscuità con le specie aviarie, era anche capace di riconoscere il canto degli uccelli. La prova?:
«Kant bevve una tazza di caffè, e tentò di fumare un poco. Dopodiché si sedette a prendere il sole, ascoltando deliziato il cinguettio degli uccelli, che si raccoglievano in gran numero in quel luogo. Riconosceva ogni uccello dal suo canto, e li chiamava con i loro nomi giusti. Dopo essere stati lì circa mezz’ora, ci mettemmo sulla via del ritorno, Kant ancora allegro, ma evidentemente sazio degli svaghi del giorno.»
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