domenica 31 luglio 2022

L'Internazionale Situazionista di A.E. Van Vogt !!

«Critica della Separazione»
«— Non siate sciocco — disse — non cercate di salvare il mondo a tutti i costi. Non potete farci nulla. Questa congiura va al di là della Terra, al di là perfino del sistema solare. Noi siamo solo pedine: la partita viene giocata da uomini delle stelle.» (A.E. Van Vogt , "Il Mondo del Non-A")

Sotto la foto di Caroline Rittener - che era apparsa nel film di Guy Debord del 1961, "Critique de la Séparation" - si legge una frase tratta da una traduzione francese di "The World of Null-A" (1945/1948), dell'autore canadese di fantascienza A.E. Van Vogt (tradotto come "Le monde des A", Gallimard, Le Rayon Fantastique #14, 1953). Le parole di Van Vogt vengono messe in bocca alla Rittener al fine di meglio illustrare la critica situazionista della moderna separazione-alienazione; quel "complotto" di cui noi siamo semplici «pedine in una partita giocata da uomini delle stelle». Anche la classe dirigente capitalista, protetta dalla sua ricchezza, gioca un gioco che comprende a malapena: «Il punto non è riconoscere che alcuni vivono più o meno male di altri, ma che tutti quanti noi viviamo in modi che sfuggono al nostro controllo». (Guy Debord). La foto e la citazione, sono una delle numerose illustrazioni-con-testo che compaiono nell'articolo situazionista "L'avant-garde de la présence" in "Internationale Situationniste" no. 8, del gennaio 1963 (traduzione inglese disponibile qui). Ancora una volta, i situazionisti dimostrano in che modo la qualità degli elementi della cultura poteva cambiare sotto la spinta del détournement

«Le idee migliorano. Il significato delle parole gioca un ruolo in questo miglioramento. Il plagio è necessario. Il progresso dipende da esso. Si avvicina al fraseggio di un autore, sfrutta le sue espressioni, cancella un'idea falsa, la sostituisce con quella giusta» (Isidore Ducasse).

fonte: The Sinister Science

Senza Capitalismo !!

« Chiunque sciopera fa due esperienze in una: quella secondo cui è sempre bene difendersi, e quella a partire dal fatto che, anche se lo sciopero riesce, tutto quanto rimane in qualche modo come prima. Il fatto che si debba lavorare tutta la vita per guadagnare del denaro che ci permetta di vivere, è la suprema legge non scritta della società borghese. Secondo quello che è il consenso generale, il lavoro è come una sorta di natura, e chiunque abbia qualcosa in contrario viene considerato pazzo o pigro. Di solito entrambe le cose.

Non sempre, però, il lavoro è stato esaltato alla stessa stregua di come avviene oggi. Nell'antichità era arrivato persino  ad avere una pessima reputazione. Ma poi, all'inizio dell'epoca moderna, ha ottenuto una consacrazione religiosa. Per il capitalismo, l'etica protestante del lavoro è stata come la culla. La borghesia, il movimento operaio e il nazismo hanno letteralmente glorificato il lavoro. Ma sebbene la cosa sfugga alla coscienza dominante, il lavoro e l'attività utile/sensuale/divertente sono due entità del tutto diverse. Né, ancor meno, il lavoro rappresenta  un'opposizione "antagonista" al capitale. Al contrario, esso costituisce il principio formale dominante della società produttrice di merci, il cui punto di partenza e di arrivo non è la ricchezza materiale, l'unica cosa che ci fa vivere, bensì lo sfruttamento del valore fine a sé stesso. Gli individui che fanno parte di questa società devono contare sul fatto che il mercato attesti il valore del loro lavoro. È dal lavoro che essi traggono la loro identità. Sebbene la paura di diventare "inutili" (senza valore) e precipitare in tale baratro li accompagni per tutta la vita, queste condizioni sembrano a loro naturali e senza alternative. Se, secondo loro, nella società c'è qualcosa che non va, ne attribuiscono la responsabilità principalmente alla "cattiva politica"; senza neppure lanciare uno sguardo a quelli che sono i meccanismi di base dell'economia.

Se le crisi, la miseria, l'angoscia e le guerre si accumulano, per loro tutte queste cose non hanno nulla a che vedere con il dominio del lavoro, della merce, del valore, del mercato e del capitale, ma sono dovute a dei presunti fattori esterni. La loro ristretta visuale può pertanto trasformarsi rapidamente in un'ipotesi cospiratoria: allucinano l'esistenza di forze oscure, mosse da interessi nefasti e da intenzioni maligne, che vogliono colpirli. Il loro identificarsi con il "lavoro onesto" minacciato dalla "avidità" si scarica, nel peggiore dei casi, su un delirio di sterminio antisemita. Non a caso la perversa frase "Arbeit macht frei" (il lavoro rende liberi) è stata incisa sul cancello di Auschwitz. I nazionalsocialisti equiparavano "gli avidi" agli "ebrei". Ma anche chi non lo fa, può trovarsi pericolosamente vicino all'antisemitismo, senza esserne consapevole.

Oggi, diventa più necessaria che mai, una critica riflessiva del capitalismo, che si distingua sostanzialmente da quello che è il ventriloquo anticapitalismo dominante, il quale confonde la critica della società con la collera nei confronti degli "avidi banchieri", del "branco di bugiardi" e della "stampa che mente". Soprattutto perché tale critica parte dalla critica del lavoro, e può quindi assumere uno sguardo completamente diverso sulle cose: il vero scandalo non deriva dal fatto che l'enorme aumento di produttività a cui assistiamo non consenta a tutti di trovare un lavoro, ma consiste nel continuare a lavorare sempre di più e sempre più a lungo. Una vita migliore per tutti, con molto più spazio per lo sviluppo personale, sarebbe possibile già da tempo. Senza capitalismo. »

(da: Lothar Galow-Bergemann, "Labor Fetish and Anti-Semitism" )

fonte: https://www.krisis.org/

sabato 30 luglio 2022

Normale !!

«Nel video si vede Ferlazzo salire sopra Ogorchukwu e stringerlo al collo, mentre diverse persone guardano attonite la scena. Si sentono alcuni dei testimoni urlare frasi come “così lo ammazzi” e “chiamo le guardie”, ma nessuno è intervenuto per fermare la colluttazione. Dopo l’omicidio, il presunto aggressore è fuggito dal luogo del delitto con il cellulare della vittima, lasciata esanime sul marciapiede.»

TUTTO CIO' CHE C'E' DA SAPERE SU FILIPPO CLAUDIO FERLAZZO

OCCHI: .....................................................Medi

CAPELLI: .................................................Medi

PESO: ........................................................Medio

STATURA: ...............................................Media

SEGNI PARTICOLARI: .........................Nessuno

DITA DELLE MANI: ..............................Dieci

DITA DEI PIEDI: ....................................Dieci

INTELLIGENZA: ....................................Media

Che cosa vi aspettavate? Artigli? Incisivi enormi? Saliva verde? Follia?

(- da Leonard Cohen, “TUTTO CIO' CHE C'E' DA SAPERE SU ADOLF EICHMAN” - )

venerdì 29 luglio 2022

Contro la Metafisica del Soggetto !!

« Non esiste alcun altro principio del marxismo che riesca a sembrare più fondamentale della divisione della società in classi sociali. La classe, l'interesse di classe, la lotta di classe, la storia della lotta di classe sembrano costituire l'alfa e l'omega della teoria marxista. Eppure, ciò nonostante, l'opera principale di Marx non si intitola "La classe", e non inizia a partire dall'analisi di questa categoria, bensì con quelle della merce e della forma-valore. E se il Capitale si chiude deducendo il sistema delle classi, questa posizione dimostra che le classi sono in definitiva solo una categoria secondaria e derivata in quello che è il ricco apparato teorico del Marx della maturità: le classi sociali sono di fatto strettamente collegate alla teoria del feticismo della merce. Ora, tuttavia, a prescindere dalle sue varianti, il marxismo tradizionale ha finito per capovolgere, mettendolo a testa in giù, questo rapporto tra le categorie fondamentali del capitalismo e quelli che sono i loro contenitori sociologici. Le classi sono state erroneamente considerate come soggetti privi di apriorità sociale e sono sembrate sussumere tutto l'insieme delle diverse categorie riproduttive del capitale sotto la ragione definitiva e finale di una soggettività sociologica.

In un testo incisivo e determinante al fine del rinnovamento della sinistra anticapitalista, Robert Kurz ed Ernst Lohoff si propongono di ripristinare la scintillante critica marxiana dell'economia politica nel suo rapporto con le classi sociali, facendolo sulla base di un commento puntuale dell'opera matura di Marx; e questo, al di là di quello che è stato il suo travestimento sotto le fattezze di un sociologismo affermativo superficiale, e di una metafisica del soggetto proletario rivoluzionario. »

Robert Kurz & Ernst Lohoff, Le Fétiche de la lutte des classes, Thèses pour une démythologisation du marxisme
- Suivi de Le Manifeste du parti communiste au prisme du double Marx Robert Kurz -
Traduit de l’allemand par Wolfgang Kukulies

giovedì 28 luglio 2022

Contrasti !!

Nella serie a fumetti di The Walking Dead, la giovane e lentigginosa Andrea scopre con sorpresa di avere un talento innato per ogni tipo di arma. Fucili, carabine e revolver diventano estensioni delle sue braccia, senza alterare il suo carattere fondamentalmente allegro e sociale. Nella serie televisiva il personaggio è molto meno interessante e più sfocato, ma conserva la sua abilità soprannaturale con le armi da fuoco...
Questa immagine della donna in quanto eccellente tiratrice è uno stereotipo sorprendentemente frequente, un'immagine che troviamo impressa nell'inconscio collettivo occidentale. Ci sono mille esempi: le foto vagamente noir di Helmut Newton, i ritratti di Lindsay McCrum o i mille film di eroine armate, dal tenente Ripley in Alien a Sarah Connor in Terminator.

Quando, in American Beauty, la grande Annette Bening spara con una Smith & Wesson al poligono di tiro, scopre che colpire un bersaglio è liberatorio e le dà fiducia in se stessa. Il rombo, la sensazione di assorbire e domare l'impatto del rinculo, l'impeto di centrare il bersaglio... Tutto contribuisce al suo empowerment (la conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni), e all'inevitabile traduzione dell'empowerment da parte del femminismo, l'affermazione di sé attraverso l'accesso delle donne ad attività e atteggiamenti tradizionalmente riservati agli uomini. Una donna «armata e pericolosa» mette in pericolo lo status quo, sovverte il suo ruolo tradizionale di donatrice di vita, diventando una «femme fatale» che un maschio spaventato potrebbe vedere come una minaccia.

Nel campo della forza bruta e delle armi da taglio, gli uomini hanno un vantaggio statisticamente significativo. Ma per padroneggiare un'arma da fuoco, sebbene sia necessaria una certa forma fisica, sono i riflessi, l'abilità nel tiro e il polso fermo a fare la differenza. Una donna attraente che impugna un'arma da fuoco può essere sorprendentemente sexy. La psicoanalisi classica parlerebbe del simbolismo fallico della canna di un revolver e della passione femminile per queste armi come modo per superare l'invidia del pene, ma non è un segreto che Freud fosse vittima del suo ossessivo fallocentrismo.

Ad essere attraente in queste fotografie è il gioco di contrasti tra l'arma da fuoco (fredda, metallica, spigolosa) e la bellezza femminile (calda, flessuosa, sinuosa). Senza bisogno di mascolinizzarsi, la donna stabilisce un rapporto proprio e originale con l'arma da fuoco. Il modo migliore per esplorare questo genere di rapporto, è un viaggio attraverso le donne armate della storia, e quale posto migliore per iniziare se non l'epoca più facilmente associabile alle armi da fuoco: il XIX secolo nel selvaggio West americano, quando Calamity Jane andava in avanscoperta con il generale Crook e Annie Oakley sparava con il suo fucile davanti a re e presidenti europei. Ma prima di concludere, e a titolo di necessario disclaimer, va detto: una donna armata sarà femministicamente rivoluzionaria ed esteticamente erotica, qualunque sia la propria opinione politica sui permessi da ottenere per possedere un revolver, o un fucile.

fonte: Jot Down

mercoledì 27 luglio 2022

Le «crisi multiple» surriscaldano l’economia !!

Fed e BCE nel vicolo cieco della politica monetaria
- Breve storia delle aporie della politica di crisi borghese nella transizione dell'economia mondiale dalla crisi pandemica alla crisi bellica -
di Tomasz Konicz

Dalla pandemie alla guerra, l'economia mondiale non ha più pace. Sul suo sito web, "Tagesschau" vede addirittura l'economia mondiale minacciata da «crisi multiple».[*1] Ma è proprio nel momento in cui si parla delle conseguenze economiche di quella che appare come una rapida erosione del sistema mondiale capitalistico, che va ora posta la questione se abbia davvero ancora senso parlare di una crisi economica pandemica o di una crisi economica relativa alla guerra, o se invece non sia più appropriato comprendere gli shock economici susseguenti come le fasi di un unico e stesso processo di crisi sistemica.
In ogni caso, nella sua ultima valutazione dell'economia globale la Banca Mondiale ha dovuto rivedere significativamente al ribasso le sue precedenti previsioni di crescita. [*2] Secondo tali previsioni, quest’anno l'economia globale dovrebbe crescere solo del 2,9%, mentre a gennaio la Banca Mondiale si aspettava ancora il 4,1%. Questo dimezzerebbe o quasi lo slancio economico globale, che nel 2021 grazie alle gigantesche misure di stimolo economico finanziate dal debito di molti Stati, aveva raggiunto un enorme aumento del 5,7%. Per molti Paesi emergenti e in via di sviluppo, i quali possono raggiungere la stabilità sociale solo con alti tassi di crescita, questo rallentamento economico è già di per sé pericoloso, soprattutto in un contesto di impennata dei prezzi dei generi alimentari. Inoltre, la Banca Mondiale ha messo in guardia dal rischio crescente di un periodo prolungato di stagflazione, simile alla fase di crisi degli anni '70, quando la stagnazione economica era accompagnata da un'inflazione a due cifre (per questo si veda anche: "Back to stagflation?" [*3]). Anche l'OCSE ha apportato correzioni simili, secondo le quali la produzione economica mondiale dovrebbe crescere solo del 3% quest'anno. [*4] Alla fine del 2021, la previsione era ancora del 4,5%. Per il 2023, l'associazione dei 38 Paesi industrializzati prevede una crescita economica del 2,8%, anziché il 3,2% ipotizzato in precedenza, ovviamente se non si verificheranno nuovi focolai di crisi. Secondo l'OCSE, il rallentamento economico del prossimo anno verrà accompagnato anche da un rallentamento dell'inflazione, la quale dovrebbe scendere passando dall'8,5% di quest'anno al 6,0% nel 2023. Le massicce revisioni che nel giro di 6 mesi sia l'OCSE che la Banca Mondiale hanno dovuto apportare, non solo illustrano l'inutilità delle previsioni economiche nella manifesta crisi sistemica in cui sta entrando il tardo capitalismo, ma rivelano anche l'esistenza di un legame sempre più chiaro tra inflazione e crescita economica. Ben presto, a partire dallo scoppio della pandemia, alla quale i politici hanno reagito con una massiccia stampa di moneta, soprattutto per finanziare le misure di stimolo governativo negli Stati Uniti e nell'Unione Europea, la crescente dinamica inflazionistica ha messo radici. Ciò non è dovuto solo alla guerra - non si tratta di una semplice «inflazione Putin» - e alle disfunzioni nelle catene di approvvigionamento globali, ma anche alla politica monetaria espansiva delle banche centrali.[*5]

Inondazione di denaro e inflazione
Questo nesso, tra la grande ondata di denaro legata alla pandemia e l'inflazione globale, è stato recentemente discusso, ad esempio, di fronte alla Commissione Finanze del Senato degli Stati Uniti, che il Segretario al Tesoro dell'amministrazione Biden, Janet Yellen, ha dovuto affrontare all'inizio di giugno [*6]. Le accuse dell'opposizione repubblicana - secondo cui la Casa Bianca avrebbe innescato l'inflazione e il "surriscaldamento" dell'economia per mezzo del suo programma di stimolo economico da 1.900 miliardi di dollari - sono disoneste sotto vari aspetti: innanzitutto, Donald Trump aveva già introdotto misure di sostegno altrettanto costose, le quali però comprendevano soprattutto tagli alle tasse per i ricchi e per le aziende, mentre Biden - nonostante tutti i tagli - è riuscito a far passare qualche sgravio per la classe media e per gli strati a basso reddito. Ed è proprio a partire dal fatto che i sussidi sociali per i bambini, ad esempio, vengono identificati come «fattori di inflazione», che la Casa Bianca è stata censurata. Uno sguardo all'anno trascorso aiuta a mettere le cose in prospettiva: l'accelerazione dell'inflazione, che ha superato gli otto punti percentuali, è stata accompagnata da una crescita del PIL del 5,4%, la più alta dagli anni '80.[*7] Tale espansione, in cui la Federal Reserve ha effettivamente utilizzato la nuova moneta stampata per acquistare il debito pubblico degli Stati Uniti e per stimolare l'economia, è avvenuta in risposta al tremendo crollo economico seguito allo scoppio della pandemia, che nel 2020 ha causato una contrazione del PIL statunitense del 3,4%. Ci si potrebbe quindi chiedere, al contrario, come sarebbe oggi l'economia statunitense se Washington avesse rinunciato a questi programmi di stimolo.
Di fatto, la politica economica statunitense ha evitato una depressione, sebbene lo abbia potuto fare solo al prezzo di quello che i salariati in generale devono ora pagare alla cassa del supermercato: il prezzo dell'inflazione. Acquisti di obbligazioni e titoli da parte delle banche centrali, ci sono già stati anche in fasi di crisi passate, ad esempio dopo lo scoppio della bolla immobiliare nel 2007/08, ma c'è da dire che da un lato le dimensioni di questo "quantitative easing" sono molto più grandi di quanto lo siano state allora [*8], e dall'altro sembra che la finanziarizzazione del capitale abbia raggiunto i suoi limiti, se consideriamo che le precedenti fasi di una politica monetaria espansiva avevano portato a un'inflazione in cui i prezzi nei mercati finanziari erano già gonfiati; e in tal modo hanno contribuito all'aumento di nuove bolle speculative. Pertanto, la stampa di moneta da parte delle banche centrali rappresenta - insieme alla globalizzazione al collasso e alla crisi climatica - uno dei tre più importanti fattori che contribuiscono all'attuale ondata di inflazione (si veda in proposito anche "Tre tipi di inflazione" [*9]). Nel frattempo, la Fed ha alzato i tassi di interesse di riferimento, tra lo 0,75 e l'uno per cento, nel tentativo di controllare questa inflazione, nonostante la contrazione dell'1,5 per cento del PIL statunitense nel primo trimestre di quest'anno [*10].  Negli Stati Uniti, l'opposizione di destra imputa l'inflazione all'amministrazione Biden e ai suoi monchi approcci alla politica sociale [*11]; in Europa, a essere al centro delle critiche, soprattutto tedesche, è la BCE. Nell'UE le controversie sull'orientamento della politica monetaria si mescolano agli interessi divergenti della periferia meridionale rispetto a quelli del centro tedesco. [*12] A Berlino cresce sempre più il risentimento nei confronti della politica monetaria ultra-rilassata della BCE, mentre la zona euro meridionale, che dall'introduzione dell'euro ha sofferto le eccedenze commerciali della Germania, si affida ai tassi d'interesse zero e agli acquisti di obbligazioni, da parte della BCE, per finanziare le misure di stimolo e mantenere sostenibile l'elevato onere del debito. In Italia, il debito pubblico supera ormai il 130% del PIL. Di conseguenza, vediamo che esiste un buon indicatore del potenziale di crisi dell'Eurozona: ed è il cosiddetto "spread" - la differenza dei tassi d'interesse tra i titoli di Stato tedeschi e quelli italiani [*13] - che aumenta in caso di crisi imminente nell'UE, dal momento che in tal caso i capitali fuggono verso "porti sicuri" come la RFT o gli USA. Dallo scoppio della pandemia, questo "spread" ha appena raggiunto il suo livello più alto. È per questo motivo che la Banca Centrale Europea è molto più esitante della Fed ad aumentare i tassi di interesse di riferimento - una nuova crisi dell'euro, nella quale dei tassi di interesse più alti potrebbero far crollare le montagne di debito nel sud dell'unione monetaria, va evitata a ogni costo [*14]. Nell'«Europa tedesca» [*15], due decenni dopo la sua fondazione, e un decennio dopo la prima crisi dell'euro, oggi ci si ritrova davanti al vicolo cieco monetario che minaccia di far saltare la zona monetaria: di fatto, per contenere l'inflazione, che oggi supera l'otto per cento [*16], la BCE dovrebbe aumentare i tassi d'interesse in modo rapido e significativo. Ma allo stesso tempo,  per evitare una nuova crisi del debito nel sud, i "guardiani monetari" dovrebbero mantenere bassi i tassi d'interesse. L'Italia, il cui rapporto debito pubblico/PIL è pari al 134%, è la terza economia della zona euro.

La trappola della crisi della politica monetaria
Ancora una volta, da un lato, la Banca Centrale Europea potrebbe combattere l'inflazione per mezzo di rapidi e significativi aumenti dei tassi di interesse, ma così facendo rischierebbe una crisi del debito nell'Europa meridionale e, di fatto, la disintegrazione della sua zona monetaria. Dall'altro lato, la BCE potrebbe continuare a dare priorità alla politica economica e a mantenere bassi i tassi di interesse, per evitare una nuova crisi dell'euro. Questo, tuttavia, darebbe un'ulteriore spinta all'inflazione, tanto da far rischiare all'Eurozona di seguire l'esempio della Turchia [*17], dove il «critico dei tassi d'interesse», Erdogan, ha ripetutamente abbassato i tassi d'interesse di riferimento, e ciò nonostante il rapido aumento dei prezzi nel Paese; portando così, nel frattempo,  l'inflazione in Turchia a un impressionante 73%.

Nell'immanenza del sistema, la classe politica può optare per un ulteriore indebitamento, fino all'iperinflazione, oppure può seguire la strada dei duri programmi di austerità che portano alla recessione, insieme all'inizio di una spirale deflazionistica, come il sadismo dell'austerità di Schäuble ha esemplificato in Grecia durante la crisi dell'euro. Infatti, nella crisi capitalistica permanente, la politica monetaria borghese dovrebbe abbassare e alzare i tassi di interesse allo stesso tempo; il che è solo una delle espressioni dell'aporia della politica capitalistica della crisi: un vicolo cieco in cui, alla fine dell'era neoliberista, si trova l'«amministrazione» capitalistica della crisi sistemica [*18]. Questa specie di trappola della crisi [*19] non vale solo per la zona euro, ma è in atto in tutti i paesi capitalisti centrali, i quali, finora, sono stati in grado di rinviare la loro fine grazie all'espansione della sfera finanziaria, con l'aumento permanente delle montagne di debito e con sempre nuove bolle dei mercati finanziari [*20]. Un'analisi dell'evoluzione a lungo termine di quelli che sono i tassi di interesse di riferimento, mostra una tale autocontraddizione della politica monetaria, che a ogni impulso del processo storico di crisi si è sviluppata sempre più [*21]. A partire dagli anni '80 - con i principali focolai di crisi finanziaria del XXI secolo che fungono da momenti scatenanti per ogni fase di tassi di interesse bassi o nulli - sia la BCE [*22] che la Fed [*23] hanno teso, storicamente, ad abbassare sempre più i loro tassi di interesse di riferimento. I tassi di interesse di riferimento nell'eurozona - entrati talvolta in territorio negativo - al momento dell'introduzione dell'euro erano superiori al 3%. Dopo lo scoppio della bolla delle dot-com (2000), della bolla immobiliare (2007) e dopo lo scoppio della crisi dell'euro, sono stati sempre più bassi. Dal 2014, nell'Eurozona prevale una politica di tassi d'interesse di fatto pari a zero, che si accompagna a una stampa di denaro sempre più massiccia. La situazione è simile a quella della Fed, che dopo lo scoppio della crisi immobiliare nel 2007 ha perseguito una politica monetaria molto espansiva, contribuendo così in modo significativo alla formazione della gigantesca bolla di liquidità, che ha poi dovuto essere faticosamente stabilizzata per mezzo di ulteriori iniezioni di miliardi nel corso della pandemia [*24]. Le distorsioni nei mercati finanziari gonfiati, iniziate già prima dell'inizio della guerra, indicano appunto che questa finanziarizzazione del capitalismo difficilmente può essere sostenuta. Il castello di carte della finanza globale, sempre più ammucchiato e impilato, rischia di crollare. È stata proprio questa dinamica del debito, al centro, che ha fatto salire l'onere del debito sul sistema globale, che con la sua produttività stava soffocando, arrivando al 351% della produzione economica mondiale [*25].

Se l'amministrazione della crisi capitalistica ormai non è più in grado di dare inizio a una nuova formazione di bolle sui mercati finanziari mondiali in reazione alle attuali «crisi multiple» - come i media mainstream tedeschi chiamano ora la crisi sistemica capitalistica - diventa allora inevitabile una gigantesca ondata di svalorizzazione. Il che non solo svaluterebbe molti «asset del mercato finanziario» che circolano nella sfera finanziaria nelle forme più diverse - come azioni o derivati - ma anche la spazzatura del mercato finanziario accumulata nei bilanci delle banche centrali (soprattutto titoli di Stato e cartolarizzazioni di mutui o prestiti). Il crollo dei mercati finanziari, ad esempio sotto forma di una crisi del debito europeo, si ripercuoterebbe sull'economia "reale", la quale dipende fortemente dai prestiti, e dalla domanda finanziata dal credito che si genera nella sfera finanziaria. Questo porterebbe alla svalorizzazione delle capacità produttive, la quale si manifesterebbe sotto forma di fallimenti aziendali, di risorse non più vendibili, e di forza lavoro che diventerebbe improvvisamente superflua. Ed è solo qui che esiste ancora un «margine di manovra» per la politica di crisi borghese: come si è detto sopra, questa politica di crisi può determinare la forma che questo processo di svalorizzazione assumerà. La politica monetaria può seguire l'esempio di Erdogan, e marciare verso l'iperinflazione, oppure può seguire l'esempio di Schäuble, e imboccare la strada della deflazione attraverso il sadismo dell'austerità. Per una sinistra progressista ed emancipatrice, tuttavia, c'è solo una prospettiva se vuole ancora agire sulla crisi secondo il suo modello: la prospettiva della critica categorica. Anziché concentrarsi opportunisticamente su delle pseudo-alternative immanenti, o su banalità borghesi [*26], sarebbe preferibile denunciare come tale il mostruoso fine in sé del capitale. Questo è e rimane il presupposto fondamentale per rendere concepibile un'alternativa al capitalismo e quindi una trasformazione del sistema.

- Tomasz Konicz - Pubblicato in origine su www.konicz.info l'11.06.2022 -

NOTE:

1 https://www.tagesschau.de/wirtschaft/weltwirtschaft/iwf-weltbank-fruehjahrstagung-konjunkturprognose-101.html

2 https://www.tagesschau.de/wirtschaft/konjunktur/weltbank-konjunktur-103.html

3 https://www.konicz.info/?p=4616

4 https://www.spiegel.de/wirtschaft/unternehmen/weltwirtschaft-oecd-senkt-wachstumsprognose-deutlich-sieht-begrenztes-stagflationsrisiko-a-1cc0db29-8efa-451b-86ca-82bf9db06355

5 http://www.konicz.info/?p=4389

6 https://www.nytimes.com/2022/06/07/us/politics/inflation-yellen.html

7 https://tradingeconomics.com/united-states/full-year-gdp-growth

8 https://lowerclassmag.com/2021/04/13/oekonomie-im-zuckerrausch-weltfinanzsystem-in-einer-gigantischen-liquiditaetsblase/

9 http://www.konicz.info/?p=4389

10 https://www.handelsblatt.com/finanzen/geldpolitik/beige-book-fed-us-wirtschaft-moderat-gewachsen-inflation-und-zinsen-machen-sich-aber-bemerkbar/28393622.html

11 http://www.konicz.info/?p=4591

12 https://www.heise.de/tp/features/Der-Aufstieg-des-deutschen-Europa-3370752.html

13 https://www.ft.com/content/2869a8f3-bf59-437f-a795-4a3fbdc35cd4

14 https://www.zeit.de/wirtschaft/2022-06/ezb-leitzins-inflation-notenbank-wende

15 https://www.heise.de/tp/features/Der-Zerfall-des-deutschen-Europa-3370918.html

16 https://www.spiegel.de/wirtschaft/statistisches-bundesamt-inflation-im-mai-erreicht-7-9-prozent-a-1ee957d1-5a15-463e-a58c-a6f423225cc5

17 https://www.tagesschau.de/wirtschaft/weltwirtschaft/tuerkei-leitzins-erdogan-101.html

18 http://www.konicz.info/?p=4892

19 https://www.heise.de/tp/features/Politik-in-der-Krisenfalle-3390890.html

20 https://www.untergrund-blättle.ch/wirtschaft/theorie/stagflation-inflationsrate-6794.html

21 https://lowerclassmag.com/2020/04/27/corona-krisengespenster-kehren-zurueck/

22 https://www.ft.com/content/2869a8f3-bf59-437f-a795-4a3fbdc35cd4

23 https://tradingeconomics.com/united-states/interest-rate

24 https://lowerclassmag.com/2021/04/13/oekonomie-im-zuckerrausch-weltfinanzsystem-in-einer-gigantischen-liquiditaetsblase/

25 https://www.reuters.com/markets/europe/emerging-markets-drive-global-debt-record-303-trillion-iif-2022-02-23/

26 https://exit-online.org/textanz1.php?tabelle=autoren&index=46&posnr=613&backtext1=text1.php


fonte: EXIT!

martedì 26 luglio 2022

Cercando il proprio limite naturale…

Scrittrice di grande successo internazionale, associata a un genere spesso considerato d’evasione come la fantascienza, Ursula Le Guin rappresenta allo stesso tempo una figura di intellettuale anticonformista e radicale, dotata di una sensibilità pacifista, ambientalista e femminista che la colloca saldamente nella nostra epoca. In questa raccolta di saggi e discorsi Le Guin ci prende per mano e ci invita a seguirla nelle sue riflessioni. Si chiede se il modello di società maschile e competitiva in cui viviamo è l’unico che sappiamo concepire. Contesta l’ideologia del progresso tecnico che ossessiona l’Occidente, valorizzando esperienze di vita più attente all’equilibrio con la natura come quelle dei nativi americani. Denuncia il linguaggio del potere, la «lingua degli uomini» a cui contrappone una «lingua delle donne» alternativa, che possa ispirare valori di nonviolenza e solidarietà. Affronta il tabù della menopausa e tesse l’elogio della vecchiaia. Dissente da Tolstoj e riparte da Virginia Woolf. Sono pagine di libertà, dove non ci sono facili risposte ma, attraverso l’intelligenza e la letteratura, l’ironia e il canto, si prova a immaginare il posto più giusto, inclusivo e pieno di bellezza in cui molte e molti di noi vorrebbero già essere.

(dal risvolto di copertina di: Ursula K. Le Guin, «I sogni si spiegano da soli» (a cura di Veronica Raimo) Edizioni Sur pp. 245, € 18)

La femminista Le Guin sognò lo schwa per non escludere le donne dalla fantascienza
Linguaggio e critica degli stereotipi di genere, avventure spaziali senza la figura mitologica dell’eroe: una raccolta di saggi ritrae la scrittrice “fieramente caotica”

- di Veronica Raimo -

Durante i mesi del primo lockdown non ho fatto che leggere articoli scientifici sulla pandemia e i saggi di Ursula K. Le Guin che avrei dovuto selezionare per questa raccolta. In prospettiva - in quel momento la mia consapevolezza era troppo opaca per ricavare inferenze - direi che si trattava di due operazioni opposte e complementari. Da un lato c’era l’ansia di penetrare un sapere scientifico e di comprenderlo, di arrivare al cuore dell’ignoto e renderlo intellegibile, dall’altro c’era una scrittrice e teorica come Le Guin che metteva filosoficamente in dubbio quel tipo di sapere, rivendicando non tanto la seduzione per un pensiero magico, quanto la necessità di ampliare il concetto di realtà, di diventare «realisti di una realtà più grande», per usare una delle sue espressioni più citate. Sì, ma che cos’era questa «realtà più grande?» . In un certo senso, l’operazione stessa di ripensare in prospettiva quel periodo mi può fornire una risposta, se ammettiamo che dare un peso alle coincidenze faccia già parte di questa realtà più grande. Leggere Le Guin durante una pandemia era una coincidenza di per sé significativa? Me lo chiedevo e me lo chiedo ora. Forse non vanno letti solo i dispacci, ma anche i segni.
In uno dei suoi saggi raccolti qui - Una visione non-euclidea della California come luogo freddo - Le Guin cita Chuang-Tzu per postulare che una conoscenza suprema - ovvero la massima ambizione umana - possa essere raggiunta solo da «chi sa fermarsi al punto in cui ogni ulteriore conoscenza è impossibile. Se uno non accetta questo limite naturale, il corso del cielo lo terrà in scacco». (La traduzione non è mia, e se «il corso del cielo» può sembrare un po’ enfatico si tratta pur sempre di mistica taoista). Prima di proseguire il saggio e arrivare dove vorrebbe arrivare, Le Guin si ferma e cerca il suo limite naturale. Più esattamente, non sa come andare avanti e lo ammette. È abbastanza spiazzante ritrovarsi dentro il ragionamento di qualcuno e assistere ai suoi inciampi, quelli che di solito restano fuori dalla pagina, così come di solito vengono estromessi dal discorso gli artifici per dissimularli. Le Guin invece ci rende partecipi del suo stallo, senza però una posa da apologeta del fallimento; semplicemente smette di scrivere e si rivolge all’I Ching. Si affida agli esagrammi che vengono fuori tirando le monete: saranno quelli a indicarle la strada. Mentre traducevo questi saggi mi sono resa conto di aver fatto qualcosa di simile. Non so se si possa parlare di blocco del traduttore così come si parla di blocco dello scrittore, fatto sta a un certo punto mi sono bloccata e non sapevo come andare avanti. Non sono ricorsa all’I Ching, ma ai morti. Mi era già capitato di tradurre autori non più in vita, e avevo sempre accettato l’evidenza per quello che era; di base non mi era proprio sfiorata l’idea di porgli delle domande per fugare i miei dubbi e di sperimentare conseguentemente la frustrazione di un’infattibilità pratica. I morti potevano seguitare a riposare in pace, e pure io me ne stavo piuttosto tranquilla alle prese con il mio momentaneo stato di impasse. Nel caso di scrittori vivi generalmente è tutto molto prosaico, ci sono le mail, ci sono agenti letterari di mezzo, a volte ci sono persone gentili e curiose di fronte alle tue domande, altre volte persone sbrigative che si limitano a risposte monosillabiche o che ti sbolognano all’assistente mentre stanno posando per uno shooting fotografico.

Con Ursula K. Le Guin la faccenda era diversa, sentivo il bisogno di un confronto, sentivo il bisogno di parlare con lei, e quindi l’ho fatto: ho cominciato a parlarci. Con una certa ossessività. Non so se lei fosse esasperata da queste incessanti invocazioni mentali, ad ogni modo una notte ha deciso di apparirmi in sogno. Mi ero bloccata sulla traduzione di Il genere è necessario? Versione aggiornata, dove Le Guin fa qualcosa di ancora più spiazzante: ritorna sulla versione di uno dei suoi saggi più famosi per mettersi sotto accusa. Non solo critica alcune delle sue vecchie convinzioni, ma se la prende anche con la propria spacconaggine, sbeffeggia l’atteggiamento spavaldo con cui le aveva difese. Nella prima versione del saggio, datata 1976, aveva scritto, a proposito del suo romanzo La mano sinistra del buio in cui ipotizza un mondo - Gethen - dove gli abitanti sono androgini per natura: «Uso il pronome “lui” riferito al singolo gethiano perché mi rifiuto categoricamente di massacrare l’inglese inventando un pronome che vada bene per lui/lei». Nella versione aggiornata del 1988 aggiunge una nota appassionata sulla questione: «Questo “rifiuto categorico” del 1968 riaffermato nel 1976 è collassato, completamente, nel giro di un paio d’anni. Continua a non piacermi l’idea dei pronomi inventati, ma adesso mi piace ancor meno il cosiddetto pronome generico declinato in lingua inglese al maschile singolare (he/him/his), che di fatto esclude le donne dal discorso, e che è stato un’invenzione dei grammatici maschi, visto che fino al sedicesimo secolo il pronome generico al singolare era they/them/their che non ha valenza maschile e che ancora viene usato in inglese e in americano nel parlato. Dovrebbe essere reintrodotto anche nel linguaggio scritto, lasciando lì a blaterare pedanti e sapientoni».
Sia la frase della prima versione, che la nota della seconda sono state evidentemente tradotte da me. Non è stato facile. Non sapevo che fare. Capisco possa apparire un motivo incongruo per disturbare i morti, ma quella nota metteva in crisi la traduzione dell’intero libro. Il punto era: se nel 1988 Ursula Le Guin sconfessa se stessa e si apre a quello che oggi chiamiamo linguaggio inclusivo, come potevo rendere quella scelta tenendo conto 1) della distanza temporale 2) della distanza linguistica? Avrei dovuto utilizzare lo schwa in tutti i saggi della raccolta? Ma non sarebbe stato un azzardo inversamente anacronistico? Oppure avrei dovuto adottare il femminile sovraesteso? Avrebbe comunque tradito nel caso specifico la natura «androgina» dei personaggi. E poi come me la sarei cavata col singolare? O forse avrei dovuto lambiccarmi tutto il tempo per evitare di usare aggettivi e participi passati? L’incontro onirico con Ursula K. Le Guin è avvenuto al mercato. Ovviamente - come accade sempre - ricordo solo quello che mi fa comodo ricordare. Non abbiamo parlato né di schwa, né di differenze grammaticali tra l’inglese e l’italiano, ma lei mi ha infilato delle albicocche nel sacchetto dei limoni.

I sogni si spiegano da soli come recita il titolo di questa raccolta, una frase che - in puro stile Le Guin - conserva la giusta ambiguità per ambire a non spiegarci nulla e limitarsi a indicarci la strada. Allora ho deciso di prendere le albicocche ficcate da Ursula nel mio sacchetto di limoni come una sorta di lasciapassare. Quella mescolanza di elementi eterogenei, ritradotta nei termini che mi servivano, significava all’incirca: «Fai un po’ come ti pare». Nell’incipit del Discorso per la consegna dei diplomi al Bryn Mawr, Le Guin scrive: «Ragionando su cosa avrei dovuto dire, mi sono ritrovata a pensare a quello che impariamo al college, e a quello che disimpariamo al college, e a come poi impariamo a disimparare quello che abbiamo imparato al college e a reimparare quello che abbiamo disimparato al college, eccetera».
È la sua premessa per il resto del discorso, dove elabora una distinzione tra una «lingua padre» - scientifica, razionale, ufficiale, la lingua della politica e del discorso pubblico, la lingua del potere -, e una «lingua madre» - considerata banale, casalinga, profana, imperfetta, una lingua intrinsecamente dialettica, che si aspetta una risposta, che crea una conversazione. «La lingua madre» scrive, «è un linguaggio inteso non come mera comunicazione, ma come relazione, rapporto».
Nel tradurre Le Guin ho tentato di scrivere nella lingua madre, di creare un rapporto, non soltanto con lei, ma con chi la leggerà (nonché con chi ha revisionato la traduzione e che è entrato quindi in questa conversazione). Provare a creare un rapporto ha le conseguenze tipiche dell’impresa: possibili incomprensioni, punti di vista diversi, dubbi irrisolti, escamotage, lo scontrarsi con i propri limiti e con i limiti stessi della lingua. C’è chi è convinto che non esista niente che non possa essere tradotto. Non mi è mai parso questo il modo di porre la questione, quanto piuttosto: quante possibilità abbiamo di tradurre qualcosa? E come cambiano nel tempo? Personalmente credo molto nelle soluzioni imperfette, nell’arte di arrangiarsi. Così come ci credeva Ursula K. Le Guin, che in tutta la sua opera ha reso omaggio al trickster, la figura per eccellenza dell’imbroglione, del truffatore, tanto da averci basato un’intera teoria della letteratura: La teoria letteraria del sacchetto della spesa (non è un caso che in sogno mi sia apparsa al mercato).
«Perciò, quando mi sono messa a scrivere romanzi di fantascienza, mi sono portata dietro questo grosso sacco stracolmo e pesante» scrive a proposito della sua poetica, «il mio sacchetto della spesa pieno di fifoni, imbranati, di inizi senza fini, di iniziazioni, di perdite, di trasformazioni e traslazioni, e molti più trucchi che conflitti, molti meno trionfi che trappole e delusioni. Un sacco pieno di navicelle spaziali che restano incagliate, missioni che falliscono e persone che non capiscono».
La fantascienza di Ursula K. Le Guin metteva in discussione gli stereotipi di genere e gli stereotipi del genere. Raccontare avventure spaziali senza la figura mitologica dell’Eroe - così come ci aveva abituato la fantascienza classica - è stato un azzardo sotto diversi aspetti. Non si trattava semplicemente di ampliare in senso democratico la partecipazione a tali avventure, ma anche di scardinare il tipo di narrazione estremamente lineare che l’Eroe si porta dietro.
«E così l’Eroe ha decretato attraverso la bocca dei Legislatori che, punto primo: la forma appropriata della narrazione è quella di una freccia o di una lancia, che parte da qui per andare dritta lì e TATÀ! colpisce il bersaglio (e lo ammazza), punto secondo: l’istanza centrale della narrazione, compresi i romanzi, è il conflitto; e, punto terzo: la storia non vale granché se lui non ne fa parte».
Le Guin, nei suoi romanzi di fantascienza, scardina tutti e tre gli assunti: la narrazione ha un andamento circolare; il conflitto è sempre sfuggente e non si traduce mai in guerre intergalattiche; la storia procede per vie laterali, seguendo personaggi minori. Anzi: non esistono personaggi «minori». Dato che questo scardinamento, ispirato da un allegro principio anarchico, le è molto caro, lo utilizza anche nei suoi saggi. Le Guin è una pensatrice fieramente caotica, per cui qualsiasi purista accademico potrebbe dare in escandescenza. Tradurre il suo pensiero spesso ti mette di fronte a questa sfida: trovare un modo per restituire il caos, sebbene a volte si sia tentati di semplificarlo, di correggerlo o di dargli un ordine.
Con Una visione non-euclidea della California come luogo freddo siamo invitati a un esperimento: «la peculiare forma frammentaria di questo saggio è il mio tentativo di renderlo una “conferenza”» scrive. «Un’opera performativa, un pezzo a più voci». È come se anche nella non-fiction si sentisse in dovere di sottrarsi alla funzione autoriale (e quindi eroica) per aprirsi a una conversazione in cui i contribuiti altrui si compongono in una sorta di arazzo. A volte in questa «conversazione» possono entrare gatti o creature immaginarie. C’è un altro aspetto relativo a questa stramba ortodossia del caos ad accumunare la fiction e la non-fiction di Le Guin, ed è proprio il suo amore per gli esperimenti. «I fisici fanno spesso esperimenti mentali» scrive in Il genere è necessario? Versione aggiornata.
«Einstein spara un raggio di luce dentro un ascensore in movimento, Schrödinger mette un gatto in una scatola. Non esistono né l’ascensore, né il gatto, né la scatola. L’esperimento viene svolto, e la questione posta, solo a livello concettuale. L’ascensore di Einstein, il gatto di Schrödinger, i miei getheniani, non sono che dei ragionamenti».
Il punto però è che Le Guin non è così interessata ai risultati del suo esperimento, o meglio: sa che potranno cambiare. Sa che potrà esserci sempre una «versione aggiornata», un modo per ritornare sui suoi passi, un’incoerenza strutturale nelle cose. Parlando della società getheniana da lei creata, scrive: «Come esperimento era un casino. I risultati erano tutti incerti; la ripetizione dello stesso esperimento fatto da qualcun altro, o anche da me stessa qualche anno dopo, probabilmente avrebbe portato a risultati piuttosto differenti. Da un punto di vista scientifico è una cosa molto poco raccomandabile. D’accordo, non sono una scienziata. Gioco a un gioco dove le regole continuano a cambiare».
Tradurre un gioco dove le regole continuano a cambiare aggiunge un ulteriore livello di indeterminatezza, di compromesso e di dubbio. Credo che questa frase possa sintetizzare in sé il processo del tradurre: «la ripetizione dello stesso esperimento fatto da qualcun altro, o anche da me stessa qualche anno dopo, probabilmente avrebbe portato a risultati piuttosto differenti».
Mi piace pensare che potrò tornare negli anni - anche solo come esperimento mentale - su questa traduzione, pentirmi di alcune scelte, avere nuove idee, sognare Ursula al mercato o su un pianeta sconosciuto.

- Veronica Raimo - Pubblicato su TuttoLibri del 21/5/2022 -

lunedì 25 luglio 2022

Rischio sistemico !!

Il debito estremo sta cominciando a sfuggire di mano, soprattutto in Africa e nel Sud globale, dove le crisi economiche e climatiche in generale si intrecciano, alimentandosi a vicenda e rendendo evidente che i limiti interni ed esterni del capitale sono stati raggiunti, come sostiene Tomasz Konicz nel suo contributo alla serie di testi sulla "Berliner Gazette" (BG), "After Extractivism".

La politica del debito estremo e l'adattamento ai cambiamenti climatici nel Sud globale
- di Tomasz Konicz -

Il tardo capitalismo non può più permettersi politiche climatiche costose. Soprattutto non può proprio laddove è più urgente: nel Sud globale. All'inizio del mese di giugno, la Banca Mondiale ha annunciato una grave crisi del debito nei Paesi a «basso e medio reddito», come conseguenza dell'elevato debito pubblico globale, salito alle stelle durante la risposta alla pandemia e del tutto simile all'ondata di fallimenti sovrani e crolli economici che negli anni Ottanta hanno devastato molti Paesi in via di sviluppo. Nel rapporto viene detto che, rispetto al 2019, ci saranno altri 75 milioni di persone alla periferia del sistema globale che  - a causa del forte indebitamento, dell'inflazione e del rapido aumento dei tassi di interesse che porteranno a una situazione economica «simile a quella degli anni '70» - rischiano di cadere in «estrema povertà». Dei 305mila miliardi di dollari a cui ammonta oggi la montagna di debito globale, le economie emergenti, compresa la Cina, totalizzano circa 100mila miliardi di dollari. Nel 2019, alla vigilia della pandemia, il debito globale totale era pari a circa il 320% della produzione economica mondiale. Oggi si attesta al 350%, dopo aver raggiunto, nel 2020, un picco del 360%. Tuttavia, gran parte della crescita del debito - resa possibile principalmente dalle banche centrali che stampano denaro - è avvenuta proprio nella semiperiferia. Più dell'80% del debito che si è accumulato lo scorso anno, è stato generato di recente nei mercati emergenti.

Blackrock e l'Africa subsahariana
I Paesi emergenti e in via di sviluppo rischiano pertanto di collassare sotto il peso del proprio debito, e questo nel momento in cui sarebbero invece necessari investimenti globali finalizzati alla protezione del clima. L'intrecciarsi della crisi ecologica con quella economica si sta manifestando in maniera drammatica proprio nel continente che meno di tutti ha contribuito alla crisi climatica: l'Africa subsahariana. Il continente africano, nella sua totalità, è responsabile solo del 4% delle emissioni globali di gas serra, la maggior parte delle quali - storicamente parlando - sono state causate dal Nord globale. Eppure gran parte degli aiuti climatici all'Africa - già di per sé eccessivamente scarsi - assumono ora la forma di prestiti che vanno ad aumentare ulteriormente l'onere del debito nella periferia; e questo nel mentre che alcune società di investimento come la Blackrock - la più grande società di investimento del mondo, con investimenti che superano i 10mila miliardi di dollari - continuano a non voler accettare una sostanziale riduzione del debito.
La Blackrock era anche il maggior creditore dello Zambia, che alla fine del 2020 è stato costretto a dichiarare il fallimento del paese, dopo che la società di gestione degli investimenti si è rifiutata di accettare la sospensione del debito. Ma la bancarotta della nazione dell'Africa meridionale, che aveva un debito di 13 miliardi di dollari, è probabilmente solo il preludio alla vera e propria crisi del debito africano. Nel 2015, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale (FMI), c'erano otto Paesi dell'Africa subsahariana che erano sovra-indebitati e rischiavano di finire in bancarotta. A marzo del 2022, il numero era salito a 23 Stati. Il crollo dell'economia e delle entrate avvenuto nel corso della pandemia, l'interruzione di una moratoria sui tassi d'interesse nel dicembre 2021, l'attacco russo all'Ucraina nel febbraio 2022 e l'inversione di rotta della Fed sui tassi d'interesse stanno mettendo in gravi difficoltà sempre più Stati africani. Inoltre, anche la Cina, che negli ultimi anni ha svolto il ruolo di principale creditore e partner economico dell'Africa, sta ora affrontando a sua volta le conseguenze di una gigantesca bolla immobiliare, e del blocco indotto dalla pandemia. Il debito totale della regione è quasi raddoppiato, passando da 380,9 miliardi nel 2012 a circa 702,4 miliardi nell'anno pandemico 2020. Questo onere creditizio soffoca e impedisce qualsiasi approccio atto a mitigare le conseguenze della crisi climatica nella periferia, per mezzo di pacchetti completi di misure; come hanno avvertito le organizzazioni non governative (ONG) nell'autunno del 2021. Secondo lo studio, la somma che i 34 Paesi più poveri del mondo devono spendere per onorare i propri debiti, è cinque volte superiore a quelli che sono i loro investimenti nella protezione del clima: i pagamenti del debito di 29,4 miliardi di dollari vengono contrastati da interventi climatici per 5,4 miliardi di dollari. Per anni, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale hanno incoraggiato i Paesi in via di sviluppo a contrarre prestiti per finanziare progetti di sviluppo, ma a causa del rischio più elevato i loro tassi di interesse sono molto più alti rispetto a quelli dei Paesi sviluppati, ha avvertito l'ONG Jubilee Debt Campaign. Spesso, vediamo che sono comuni tassi di interesse superiori al 10%, e la svolta della Fed sui tassi di interesse potrebbe far aumentare ulteriormente i costi di finanziamento nella periferia.

L'intreccio tra crisi del debito capitalistico e crisi climatica
L'intrecciarsi tra la crisi del debito capitalistico e la crisi climatica, non solo silura la politica climatica nelle regioni particolarmente vulnerabili della periferia del sistema globale, che difficilmente possono permettersi la protezione del clima. In più, le conseguenze della crisi climatica, che si manifestano con l'aumento degli estremi climatici e dei disastri naturali, stanno gravando sui bilanci nazionali di molti Paesi a causa dei costi associati; contribuendo così alla destabilizzazione del gonfiato sistema finanziario mondiale. Solo nel 2021, i costi dovuti ai dieci maggiori disastri naturali ammonterebbero a circa 170 miliardi di dollari, che - almeno in termini di riparazione delle infrastrutture distrutte - dovrebbero essere sostenuti dai bilanci nazionali. La crisi climatica ha pertanto da tempo agito come un ulteriore fattore di costo nel sistema globale tardo-capitalista sovra-indebitato. Il cambiamento climatico, a sua volta accelera ulteriormente la crescita delle montagne di debito globali, e contribuisce alla destabilizzazione del sistema finanziario. Questa combinazione tra montagne di debito e una crisi climatica in aumento, per l'economia globale potrebbe trasformarsi in un «rischio sistemico», hanno avvertito i media statunitensi nel 2021, citando le valutazioni della Banca Mondiale e del FMI. Il debito insostenibile, il cambiamento climatico e il degrado ambientale rafforzerebbero un «ciclo di riduzione delle entrate, un aumento delle spese e un incremento delle vulnerabilità climatiche». Tale meccanismo di crisi diventa evidente nella periferia: mentre nel 2019 i Paesi in via di sviluppo hanno già accumulato prestiti per circa 8.100 miliardi di dollari nei confronti dei creditori stranieri - e il cui servizio ha consumato il 17,4% delle loro entrate statali (una triplicazione dell'onere del debito rispetto al 2011!) - quasi nulla è arrivato degli aiuti climatici che erano stati promessi dal Nord, e che dovrebbero ammontare a 100 miliardi di dollari. Il devastante intreccio tra indebitamento eccessivo e disastri naturali è esemplificato dal Mozambico, un Paese in via di sviluppo dell'Africa sud-occidentale che già soffriva di alti livelli di indebitamento nel 2019, allorché è stato devastato da due cicloni che hanno ucciso più di 1.000 persone e causato danni per 870 milioni di dollari. Il governo di Maputo si è sentito obbligato, a seguito dell'evento meteorologico estremo, a continuare a contrarre prestiti per poter riparare, almeno in parte, i danni. Ora il Mozambico fa parte dell'elenco dei Paesi africani a rischio di bancarotta nazionale di cui sopra. Lo scorso marzo, i ministri delle Finanze di diversi Paesi africani hanno avvertito che «una parte considerevole» dei loro bilanci avrebbe dovuto essere spesa per rispondere a eventi meteorologici estremi come siccità e inondazioni, e che i «buffer finanziari» si erano già ampiamente esauriti.

Il sistema finanziario nei prossimi episodi di crisi socio-ecologica
Ma la crisi climatica rischia di mettere sempre più in difficoltà l'intero sistema finanziario globale, le cui fondamenta un tempo considerate solide - il mercato dei titoli di Stato - difficilmente riflettono i rischi crescenti, come ha recentemente avvertito l'agenzia di stampa Bloomberg. Secondo quanto riportato, gli investitori istituzionali mettono sempre più in discussione la valutazione dei titoli di Stato da parte delle principali agenzie di rating, dal momento che gli shock improvvisi causati da eventi meteorologici estremi difficilmente vengono inclusi nei loro calcoli. Tuttavia, i punteggi che le agenzie di rating come Moody's Investors Service, S&P Global Ratings e Fitch Ratings assegnano alle obbligazioni sono fondamentali per i livelli dei tassi di interesse. Più basso è il rating, più costoso è il servizio del debito. Un "prezzaggio" completo dei rischi climatici renderebbe quindi ancora più costoso il servizio del debito, aumentando il rischio di fallimenti sovrani. Questo non vale solo per la periferia del sistema mondiale capitalista, come ha sottolineato Bloomberg. Anche Paesi come il Giappone, il Messico, il Sudafrica o la Spagna potrebbero essere spinti al default sovrano nei prossimi decenni, a causa dell'interazione tra gli oneri del debito e la crisi climatica, qualora i loro sforzi per ridurre le emissioni di CO2 fossero «troppo tardi, troppo bruschi o economicamente dannosi». Anche Paesi come la Russia, il Canada e l'Australia, che dipendono fortemente dalle esportazioni di combustibili fossili, potrebbero trovarsi in difficoltà. Tuttavia, i titoli di Stato, soprattutto nei Paesi centrali come gli USA o la Germania, sono considerati le fondamenta, il cemento alla base del castello di carte della finanza globale. In ogni crisi, i capitali fuggono dagli investimenti rischiosi verso il mercato obbligazionario "sicuro". Qualora questo mercato obbligazionario non potesse più essere considerato un "porto sicuro", questo destabilizzerebbe l'intero sistema finanziario attraverso episodi futuri di crisi socio-ecologica. Il mercato dei titoli di Stato costituisce «la rete di sicurezza» del sistema finanziario mondiale, ha dichiarato un analista della Bloomberg, «in tempi di turbolenze e disastri, vi si rifugiano tutti». In ogni caso, i consueti riflessi di crisi dei mercati finanziari, sostenuti dalla buona valutazione dei titoli di Stato da parte delle agenzie di rating, non corrispondono più alla realtà della crisi climatica. Le agenzie di rating hanno commesso errori di valutazione catastrofici in passato, nel periodo precedente alla crisi finanziaria globale del 2008, allorché le cartolarizzazioni dei mutui che avevano inondato i mercati finanziari durante la bolla immobiliare negli Stati Uniti e nell'Unione Europea erano state valutate troppo bene. Ora, uno scenario simile si profila sui mercati obbligazionari, dove i rischi della crisi climatica sono stati sistematicamente nascosti.
A partire dallo scoppio della bolla immobiliare transatlantica nel 2008, gli Stati hanno comunque sempre agito come se fossero l'ultima forza di resistenza del tardo capitalismo, il quale sta soffocando la propria produttività, e non può fare altro che prolungare la sua agonia per mezzo di programmi di stimolo economico sempre più nuovi, finanziati dal credito e da un’estrema stampa di moneta. Questa barriera interna del capitale interagisce perciò, direttamente sui mercati obbligazionari, anche con la barriera esterna del capitale, vale a dire, con la natura limitata del pianeta Terra, e con i limiti della sua capacità di sopportazione ecologica.

- Tomasz Konicz - Pubblicato il 22/6/2022 -

fonte: Berliner Gazette

domenica 24 luglio 2022

La tempesta perfetta dello “scenario da incubo” !!

L'Europa presa in trappola
- di Michael Roberts -

Le principali economie si stanno avvicinando sempre più alla recessione, se non ci sono già arrivate; eppure i tassi di inflazione continuano a salire (per ora). Le ultime rilevazioni sull'attività delle imprese, denominate "Purchasing Managers Index" (PMI), ci mostrano come siano ora, tanto l'area dell'Euro quanto quella degli Stati Uniti, a trovarsi in territorio di contrazione (vale a dire un livello sotto i 50). Per il mese di Luglio 2021, i PMI compositi (quelli che mettono insieme sia il settore manifatturiero che quello dei servizi) riguardo le principali economie mostrano:

USA 47,5 (contrazione)
Eurozona 49,4 (contrazione)
Giappone 50,6 (espansione in rallentamento)
Germania 48,0 (contrazione)
Regno Unito 52,8 (rallentamento dell'espansione)

Il risultato dell'Eurozona non dovrebbe sorprendere più nessuno, dato l'impatto causato dalle sanzioni sulle importazioni di energia dalla Russia, che sta indebolendo gravemente la produzione industriale nel cuore dell'Europa. La produzione industriale tedesca è in contrazione da oltre tre mesi. Il grande shock c'è stato anche negli Stati Uniti. Il PMI composito statunitense è sceso in territorio di contrazione, arrivando a 47,5 a luglio 2021, in netto calo rispetto ai 52,3 di giugno, segnando un solido abbassamento della produzione del settore privato. Rispetto alle fasi iniziali della pandemia, nel maggio 2020, il tasso di contrazione è stato il più brusco, in quanto sia i produttori che i fornitori di servizi hanno registrato modeste condizioni di domanda. Quindi, proprio mentre entriamo nella seconda metà del 2022, l'attività imprenditoriale statunitense è in picchiata. Secondo quella che è l'ultima stima della crescita del PIL reale - effettuata a partire dal modello GDP NOW della Federal Reserve di Atlanta - l'economia statunitense, nei tre mesi fino a giugno si è contratta a un tasso annualizzato del -1,6%, eguagliando l'analogo calo del -1,6% registrato nel primo trimestre. Se questa stima verrà confermata anche la prossima settimana, gli Stati Uniti entreranno tecnicamente in recessione. La reazione attuale a una simile affermazione è: «come può l'economia statunitense essere in recessione o quasi, quando il tasso di disoccupazione è vicino ai minimi storici e le buste paga continuano ad aumentare?» Ma si tratta di una replica quantomeno dubbia.

Innanzitutto, esistono due misurazioni dell'occupazione negli Stati Uniti: i dati sui salari e l'indagine sulle famiglie (un'indagine sulle famiglie con un lavoro). Quest'ultima mostra attualmente una situazione opposta alla prima, ovvero un calo del numero di americani che lavorano. In base a questa misurazione delle famiglie, la forza lavoro si è ridotta, passando da 164,376 milioni a 164,023 milioni, e il tasso di partecipazione (gli occupati rispetto al totale della popolazione in età lavorativa) è sceso più del previsto, arrivando al 62,2%. Inoltre, le richieste iniziali legate alla disoccupazione (il numero di persone che chiedono sussidi perché sono senza lavoro) si trovano ora in costante aumento. In secondo luogo - e soprattutto -, in una recessione, la disoccupazione è un indicatore in ritardo. L'indicatore in anticipo, è invece il movimento dei profitti aziendali e degli investimenti delle imprese, seguito dalla produzione e poi dalla disoccupazione. L'occupazione viene per ultima, poiché essa aumenta solo quando le imprese smettono di assumere altra manodopera, e cominciano a ridurla. E questo lo fanno solo quando la redditività e la produzione iniziano a diminuire. E ora, dopo aver raggiunto i massimi storici, i margini di profitto hanno iniziato a diminuire.

Durante il crollo dovuto al COVID, i profitti sono aumentati notevolmente rispetto ai salari, e hanno agito da motore e da leva dell'aumento dell'inflazione. Ora la situazione sta cominciando a cambiare, dal momento che i profitti sono schiacciati dall'aumento dei costi dei materiali e dall'indebolimento della domanda. Ma è in Europa che le prove di un vero e proprio tracollo sono più convincenti. E non sono solo i dati sulla crescita economica a sostenerlo. In più, l'Europa si trova ad affrontare un'enorme pressione sulla produzione e sulle importazioni di energia, perché le sanzioni applicate alle importazioni di gas e petrolio dalla Russia non verranno sufficientemente compensate dalle importazioni provenienti da altri paesi. Molti produttori tedeschi stanno mettendo in guardia circa il fatto che dovranno chiudere completamente la produzione, se gli input energetici si dovessero esaurire. Petr Cingr, amministratore delegato della più grande azienda tedesca produttrice di ammoniaca e fornitore chiave di fertilizzanti e fluidi di scarico per motori diesel, ha avvertito sulle conseguenze devastanti causate dalla fine delle forniture di gas russo. «Dobbiamo fermare [la produzione] immediatamente», ha detto, «da 100 a zero». Secondo gli analisti di UBS, l'assenza di gas per l'inverno provocherà una «profonda recessione», che porterà a una contrazione del PIL del 6% entro la fine del prossimo anno. La Bundesbank tedesca ha avvertito che gli effetti sulle catene di approvvigionamento globali a causa di un'eventuale interruzione delle forniture da parte della Russia, aumenterebbero di due volte e mezzo l'effetto shock originario. ThyssenKrupp, la più grande azienda siderurgica tedesca, ha dichiarato che senza gas naturale per far funzionare i suoi forni, «non si possono escludere chiusure e danni tecnici ai nostri impianti». E c'è di peggio. Nella maggior parte delle economie europee, l'inflazione è ancora in aumento. La Banca centrale europea (BCE) ha pertanto deciso di intervenire per aumentare drasticamente i tassi di interesse. La scorsa settimana ha aumentato il tasso di riferimento di 50 pb, più del previsto, portandolo nella zona positiva per la prima volta in un decennio. I giorni del "quantitative easing" sono stati sostituiti dal "quantitative tightening". [* L'inasprimento quantitativo è uno strumento di politica monetaria restrittiva applicato dalle banche centrali per ridurre la quantità di liquidità o offerta di moneta nell'economia. da: Wikipedia (inglese)*]

Ma per Paesi come l'Italia, fortemente dipendenti dall'energia russa, questa mossa arriva nel momento peggiore. La scorsa settimana, il tecnocrate ex presidente della BCE, il primo ministro italiano Mario Draghi, è stato costretto a dimettersi allorché diversi partiti della sua coalizione di governo hanno ritirato il proprio sostegno; alcuni perché si opponevano al suo appoggio agli aiuti militari all'Ucraina, altri perché vedevano la possibilità di vincere le elezioni. L'Italia ha un rapporto debito pubblico/PIL molto elevato. Finora il costo degli interessi per il mantenimento del debito è stato basso poiché i tassi di interesse sono stati mantenuti bassi dalla BCE, la quale ha fornito inoltre anche miliardi di credito ai governi dell'Eurozona. Ma ora i tassi di interesse sono in aumento, e gli investitori in titoli di Stato italiani si sono preoccupati che l'Italia (soprattutto quella senza un governo solido) possa avere delle difficoltà a garantire il debito. Ragion per cui, il rendimento dei titoli decennali italiani è salito al di sopra del 3,5%.  La caduta del governo italiano minaccia anche la distribuzione di miliardi di euro provenienti dai fondi di salvataggio dell'UE Covid, che dovrebbero essere destinati all'Italia il prossimo anno, per stimolare la crescita economica.
Ragion per cui, l'economia europea sta andando a picco proprio mentre la BCE aumenta i tassi per controllare l'inflazione.  Come ho spiegato nei post precedenti, aumentare i tassi di interesse per controllare l'aumento dell'inflazione causato dalla debolezza dell'offerta e della produttività e dalla guerra in Ucraina non funzionerà, se non per provocare un collasso. Ora, la BCE ha fatto ricorso a una misura disperata, introducendo uno strumento di protezione della circolazione (TPI), una nuova forma di credito che verrà erogato a governi come l'Italia in caso di crollo dei prezzi delle loro obbligazioni. Tuttavia, questo strumento potrebbe non essere mai utilizzato, dal momento che significherebbe che la BCE sta finanziando a tempo indeterminato la spesa fiscale dell'Italia, cosa che probabilmente è contraria a tutte le regole di Maastricht per l'Eurozona.
La BCE si trova in quello che un analista ha definito uno «scenario da incubo».  Il vice capo del comitato economico Bruegel, con sede a Bruxelles, Maria Demertzis, ha dichiarato: «Il rischio che abbiamo davanti è che, a causa della crisi energetica, l'area dell'euro possa finire in recessione, mentre allo stesso tempo la BCE dovrà continuare ad aumentare i tassi se l'inflazione non scende».  Krishna Guha, responsabile della strategia per le politiche e le banche centrali della banca d'investimento statunitense Evercore, ha dichiarato: «Per la BCE, la combinazione di un gigantesco shock stagflattivo, derivante dall'aver trasformato in un'arma il gas naturale russo, insieme a una crisi politica in Italia è quanto di più vicino a una tempesta perfetta si possa immaginare».

- Michael Roberts – Pubblicato il 24/7/2022 su Michael Roberts blog. Blogging from a Marxist economist -

sabato 23 luglio 2022

Meno docce, e meno tè !!

Fermare il carnevale
- di Sandrine Aumercier -

L'attualità continua, senza posa, a fornirci prove del fatto che ci troviamo sempre più collettivamente impantanati nei vicoli ciechi di un modo di produzione nel quale, tuttavia, le connessioni sistemiche relative ai diversi fattori continuano a essere viste come isolate l'una dall'altra; come se rappresentassero tanti problemi separati, quasi fossero dei "dossier" da affrontare caso per caso. E questo basta a far sì che tutti gli attori del sistema perdano la bussola, fino a spingersi a estremi talvolta grotteschi.
Per esempio: benché Joe Biden sia stato eletto a partire dal suo impegno contro il cambiamento climatico e per la sua promessa di una politica migratoria «equa e umana» egli ha già concesso più permessi di trivellazione petrolifera di quanti ne avesse firmati il suo  predecessore che è contrario al clima; e il numero di arresti di migranti illegali non è mai stato così alto nella storia di quel Paese, come nel 2021 [*1]. Certo, è innegabile che Biden abbia cercato di modificare in una direzione politicamente più "progressista" tutta una serie di leggi sull'immigrazione che erano state approvate da Donald Trump; ma quali posizioni personali e quali promesse fatte in campagna elettorale da un Presidente, potrebbero mai portare a delle trasformazioni strutturali, dal momento che egli non è meno vincolato dalle contraddizioni interne del sistema di quanto lo sia qualsiasi altro? È questa la domanda.

Gli ostacoli sistemici, istituzionali, congiunturali e politici si sono concentrati intorno al desiderio di Biden di un'apertura riguardo la sua politica migratoria, proprio allo stesso modo in cui è accaduto per altri "dossier". Per cui è bastato che i prezzi del petrolio salissero alle stelle, perché il paladino americano della reintegrazione degli Stati Uniti negli Accordi di Parigi accusasse la Exxon di mantenere deliberatamente bassa la propria produzione di petrolio e, in quel modo, «fare più soldi di Dio» [*2]. Si è arrivati al culmine della farsa nei giorni scorsi, quando dopo anni di sfida diplomatica cominciata a partire dall'omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, Biden non ha più avuto paura - spinto da un'inflazione galoppante e con le elezioni di metà mandato che incombono - di andare in Arabia Saudita per implorare lo Stato "paria" affinché immettesse più petrolio sul mercato. L'obiettivo è quello di arginare l'aumento globale dei prezzi del petrolio. E questo senza contare che gli Stati del Golfo, a partire da questo aumento dei prezzi (anche se ancora non si sa se hanno superato Dio) stanno ottenendo un sostanziale aumento del loro PIL: nella giungla economica, la disgrazia di uno corrisponde al tornaconto di un altro. Ma la farsa appare ancora più sinistra, allorché si considera che questa richiesta americana avviene in un contesto in cui l'Arabia Saudita, da parte sua, dall'inizio della guerra in Ucraina, ha raddoppiato le proprie importazioni di petrolio russo. E così il petrolio russo, "sbianchettato" in virtù dell'esser passato attraverso l'Arabia Saudita - che nel giro di pochi mesi è diventata moralmente più frequentabile della Russia - viene ora utilizzato per produrre l'energia elettrica interna dai sauditi, i quali in cambio esportano una maggiore quantità del proprio petrolio [*3]. Appare chiaramente che la situazione di sofferenza degli yemeniti non pesa sull'equilibrio globale quanto quella degli ucraini.

Sul versante europeo le cose non sono diverse: è dall'inizio della crisi ucraina che l'Arabia Saudita ha cominciato a fornire più petrolio all'Europa, riducendo le sue forniture alla Cina [*4]. Mentre la Cina, da parte sua, sta importando più petrolio russo, così come fa l'India. E nemmeno la Russia, di fronte agli embarghi occidentali, è rimasta inattiva: come in uno specchio rovesciato, rispetto a coloro che la stanno sanzionando "diversificando" i loro approvvigionamenti, anch'essa sta diversificando i propri mercati,  beneficiando dell'aumento dei prezzi. Possiamo così vedere come nel capitalismo globalizzato sia impossibile moralizzare la gestione locale di un flusso; di petrolio, di esseri umani, di merci, eccetera. Quello che è solo un ostacolo locale, viene immediatamente aggirato in un altro modo; un costo aggiuntivo, viene immediatamente esternalizzato altrove. Chi può continuare a dare ancora credito a questo circo, o a incolpare solo i suoi penosi amministratori, se non per il fatto che non conoscono le vincolanti condizioni sistemiche in cui si svolge?

Di fronte a questa evidente assurdità (trovare nuove fonti di energia mentre si strilla al riscaldamento globale, non senza prima promettere - non è una battuta - di diventare più sobri), nel giugno del 2022, gli Stati europei hanno raggiunto un accordo sul risparmio energetico. A chi si rivolgerà ora questo bell'accordo? Ebbene, per gli Stati membri dell'UE, l'obiettivo relativo al consumo di energia primaria sarà giuridicamente non vincolante, vale a dire, solamente "indicativo"; proprio allo stesso modo in cui lo sono la maggior parte degli altri accordi di questo tipo. Tuttavia, il consumo di energia primaria comprende proprio ciò che è necessario per la produzione e per la fornitura di energia. Sarò solamente l'obiettivo relativo alla quantità consumata dall'utente finale (individuo, azienda o ente pubblico) a diventare giuridicamente vincolante; e lo sarà  solo nel 2030. Questo «significa che le perdite dovute alla conversione energetica rimangono in qualche modo fuori bilancio; non vengono conteggiate. [...] Ciò fa comodo a quei Paesi che si affidano al nucleare, e rassicura quelli che hanno grandi progetti per l'idrogeno, e significa che altri potranno sviluppare il carbone, in quanto ripiego per la sicurezza energetica» [*5]. In altre parole, questo accordo consente di legittimare quelli che sono solo dei metodi di conversione energetica poco efficienti, o addirittura energivori, facendoli rientrare nell'obiettivo di un "risparmio energetico" che verrà poi misurato solo in base al consumo finale! Si tratta di una vera e propria istituzionalizzazione dell'«effetto rimbalzo». A quanto pare, bastano le espressioni «risparmio energetico» o «sobrietà energetica», usate dalle autorità politiche, perché esse siano sufficienti a scatenare, come un riflesso pavloviano, una sorta di euforia comunicativa: sembra che qualcuno si stia occupando del problema! Beh, non proprio. E il problema è ogni giorno più grande di quanto lo era il giorno precedente.

Come sottolineano i partiti di estrema destra, che primeggiano nel fare leva sull'ansia da declassamento (pretendendo di risolverla attraverso la questione nazionale, che tuttavia ricade negli stessi paradossi sistemici), alla fine è di certo il piccolo consumatore a pagarne il prezzo. In Germania, poco a poco, una pioggia di restrizioni sta gradualmente cadendo su un Paese già segnato più di altri dal ritiro dal gas russo: riduzione della temperatura delle abitazioni da parte di alcuni gruppi immobiliari, riduzione del calore dell'acqua nelle piscine, o dell'illuminazione urbana da parte di alcuni comuni, reintroduzione del telelavoro al fine di risparmiare sul riscaldamento degli uffici, ecc. È curioso come queste misure abbiano un sapore di déjà vu: non molto tempo fa si raccomandava il telelavoro e si chiudevano le piscine per motivi ben diversi. Sta per diventare questa la nostra condizione normale, mentre le crisi si susseguono senza tregua? Allo stesso modo in cui le società energetiche dicono ai consumatori di risparmiare elettricità (consumatori che non hanno certo bisogno di questo consiglio, quando vedono le loro bollette), anche i fornitori di acqua hanno recentemente detto agli inglesi colpiti dall'ondata di calore, di risparmiare acqua per le docce o per il tè. Quello che era l'ideale di prosperità capitalistica, dev'essere caduto molto in basso visto che si sta tranquillamente imponendo una simile cultura del razionamento, e tutto questo sempre in nome del bene comune e sempre sostenuto, nella sua delirante antinomia, da un produttivismo che in linea di principio continua a essere illimitato. Soprattutto, bisogna che non venga mai pronunciata una sola parola circa l'assoluta necessità di fermare questo modo di produzione; no, non solo un leggero rallentamento, ma proprio un arresto completo. Questa è l'unica cosa che non deve mai essere detta, mai e poi mai.

È assolutamente plausibile ipotizzare che questo possa essere solo l'inizio di una crisi di approvvigionamento ben più generale. I limiti interni ed esterni stanno sempre più sbarrando la strada al rilancio di nuovi cicli produttivi. Crisi multiple, e sempre più ravvicinate impediscono al capitale, per così dire, di avere il tempo di riprendere fiato, mentre si muove verso la sua impossibilità finale, determinata dal contrarsi della sua fonte di valorizzazione. L'inesorabile diminuzione dei rendimenti provenienti dai combustibili fossili, le crescenti instabilità geopolitiche e le crisi economiche legate alla sua crisi strutturale non sono destinate ad attenuarsi. L'inflazione crescente è tutt'altro che sotto controllo, le montagne del debito sono sempre più alte ed è stato previsto che nel 2023 ci sarà una grave recessione economica. La più grande compagnia energetica tedesca, Uniper, recentemente ha fatto  richiesta per un pacchetto di salvataggio finanziario. Anche la Germania, paladina del superamento del carbone, non appare imbarazzata nel volervi tornare, qualunque sia la situazione climatica (in ogni caso, sarà colpa di Putin). Fino al 2020, abbiamo potuto riversare il nostro odio su Trump, pur applicando nella realtà più o meno i suoi stessi principi. Dopo allora, abbiamo poi notato che Biden è, di fatto - non nella retorica -, non molto distante dal trumpismo, senza per questo domandarsi se il problema stia nella sceneggiatura e nei suoi ruoli, piuttosto che nei personaggi. Per il momento, Putin occupa il ruolo di protagonista sulla scena internazionale; e questo permette di spiegare tutti i mali del pianeta, persino la fame nel Sahel. Conclusione: c'è sempre bisogno di un clown, perfino malvagio, perché il carnevale possa continuare.

- Sandrine Aumercier, 15 luglio 2022 -

NOTE:

[1] https://www.washingtonpost.com/politics/2021/12/06/biden-is-approving-more-oil-gas-drilling-permits-public-lands-than-trump-analysis-finds/
      https://www.rtbf.be/article/yuma-arizona-la-face-cachee-de-la-crise-migratoire-qui-mine-la-presidence-de-joe-biden-10914776

[2] https://www.latribune.fr/economie/international/exxon-a-gagne-plus-d-argent-que-dieu-quand-joe-biden-exhorte-la-major-petroliere-a-produire-plus-921450.html

[3] https://taz.de/-Nachrichten-zum-Ukrainekrieg-/!5868782/

[4] https://www.courrierinternational.com/article/hydrocarbures-l-arabie-saoudite-augmente-ses-livraisons-de-petrole-a-l-europe-au-detriment-de-la-chine

[5] https://www.euractiv.fr/section/energie/news/eu-countries-reach-tentative-deal-on-landmark-energy-savings-law/

fonte: GRUNDRISSE Psychanalyse et capitalisme

mercoledì 20 luglio 2022

Dieci anni !!

«Nessuna rivoluzione da nessuna parte»?
- di Frank Grohmann -

«[...] è opportuno, soprattutto al giorno d'oggi, di cercare la distanza teorica, non tanto nel silenzio dovuto ai lunghi anni di sviluppo del concetto di opera d'arte totale, ma piuttosto come formulazione del conflitto, nella mischia, e sul terreno del confronto.» (Robert Kurz, 2012) [*1]

1. Sul terreno del confronto
Dieci anni dopo, questa frase non ha perso nulla della sua attualità. Piuttosto al contrario, visto che la distanza teorica richiesta è diventata sempre più necessaria. Ma è proprio per questo motivo che questa frase non è più una semplice raccomandazione, bensì una necessità: «Sul terreno del confronto». «Nella mischia». «Come formulazione del conflitto». Non ho mai conosciuto Robert Kurz. Mi trovo qui davanti a voi solo perché ho cominciato a leggerlo; molto tardi, mi sono già detto più volte. Pertanto, non posso parlarvi dell'uomo Robert Kurz. Ma posso però parlarvi dell'impressione che ne ho tratto dalla lettura dei suoi scritti. Immagino che non gli sarebbe dispiaciuto, ma non posso esserne sicuro, per il motivo che ho appena detto.
È passato quasi un anno, da quando, in occasione di un incontro tra critici del valore, dissi che il mio interesse per la critica della dissociazione del valore – co-fondata da Robert Kurz - proveniva dall'aggravarsi di quei fenomeni di crisi che stanno accompagnando la distruzione delle basi della vita, oltre che dalla mia perplessità per lo stato di apatia, l'impressione di paralisi e l'atteggiamento di ignoranza che caratterizzano tali circostanze. Concepire la modernità produttrice di merci che domina la nostra vita quotidiana, come una società feticcio - e per la prima volta «totalitaria» [*2] - come ha proposto Kurz, rappresenta per me il primo passo verso una risposta alla domanda sul sapere da dove proviene questa distruzione e questa apatia, questa paralisi, questa ignoranza, e questo avere come approccio esplicativo porsi al di là di qualsiasi psicologismo minaccioso (anche nella psicoanalisi). Il cardine di questa prima fase rimane la metafora marxiana del feticcio [*3] riferito al modo di produzione capitalistico, e conseguentemente alla socializzazione delle merci «a cui gli uomini hanno affidato la regolamentazione dei loro problemi fondamentali, persino la loro sopravvivenza stessa; a un'istanza esterna, e tuttavia creata da loro stessi, che oramai media le relazioni sociali e costituisce in tal modo un rapporto di dominio» [*4] . E questo nel senso di un dominio senza soggetto. Il modo di produzione capitalistico è «un'estensione della produzione fine a sé stessa», vale a dire, «un fine irrazionale in sé». Attraverso la «metafora paradossale» del soggetto automatico, Marx individua il «vero nucleo del paradossale rapporto sociale capitalistico»: il soggetto automatico non dev'essere inteso come se fosse «un'entità particolare, che si trova da qualche parte all'esterno, ma esso è l'incantesimo sociale in base al quale gli uomini sottomettono la propria azione all'automatismo del denaro capitalizzato». [*5]
È a partire da questo punto che sono diventato sensibile alla nozione di crisi (così come è stata sviluppata dalla critica della dissociazione del valore), la quale va ad affiancarsi all'ipotesi fondamentale - proposta da Robert Kurz - secondo cui il mondo dove viviamo è il mondo della crisi di un «totalitarismo della socializzazione che si realizza per mezzo del valore» [*6], nel quale - proprio perché la dimensione sociale della psicoanalisi è la modernità produttrice di merci - né il lettino né la poltrona rimangono esclusi dalla mia attività pratica di psicoanalista, per non parlare di ciò che accade nel frattempo. E il fatto che la risposta necessaria a una simile condizione non possa essere data in un lampo, suggerisce già da sé le stesse parole chiave: in che modo si può uscire dalla nostra propria società feticcio, come ci si può liberare da un dominio senza soggetto, come fare a negare e a confutare il valore del soggetto automatico? Come poter dire di no, come rifiutare la socializzazione negativa? Ma allo stesso tempo non esiste nulla che ci spieghi perché non abbiamo seguito da tempo la proposta del famoso fumetto francese dei primi anni Settanta, L'an 01 di Gébé: «Fermiamo tutto, se ci pensiamo su ci rendiamo conto che non è per niente triste». [*7] Perché la critica di questa situazione non è ovvia? O, per dirla in altro modo, perché l'impulso verso una teoria critica di questa crisi, si risolve sempre in un nulla di fatto? Come si giustifica l'«attuale paralisi della critica radicale»? [*8]. Una trentina di anni fa, Robert Kurz aveva sottolineato come «la critica radicale deve combattere contro la forza gravitazionale delle condizioni esistenti apparentemente schiaccianti e soverchianti», e lo aveva visto come punto di partenza per l'elaborazione di una risposta a tale questione [*9]. Contrariamente alla gravità fisica, a essere in questione qui, non è una legge cosiddetta naturale, che fin dalla sua nascita la troviamo come se fosse un fatto umano essenzialmente legato all'«esistente apparentemente onnipotente». Ma questa gravità, in tal senso, non è qualcosa che noi percepiamo direttamente a meno che non camminiamo sulla Luna o, come alcuni desiderano che succeda presto, su Marte [*10]. Fintanto che i nostri due piedi calpestano ancora la Terra, quello con cui abbiamo a che fare è l'avversario invisibile e impercettibile dell'«esistente apparentemente super-potente», del quale però noi stessi siamo parte; vale a dire, qualcosa che si attacca alla nostra pelle, ma che non possiamo scrollarci di dosso, in quanto aderisce a noi come dall'interno, non essendo proprio esterno rispetto a noi. Come possiamo fare quindi a lottare contro ciò che ci costringe perfino a mettere in discussione la concezione stessa della distinzione tra interno ed esterno? La psicoanalisi ha qualcosa da dire al riguardo; tra l'altro, Robert Kurz lo ha intuito ben presto e ha cercato di trattarlo. [*11] Pertanto, il nostro punto di partenza è che : la rottura ontologica con la storia delle relazioni feticistiche non ha alcun fondamento [*12]; e l'esigenza ontologica è impossibile da soddisfare [*13]. Perciò, questa rottura e questa necessità si trovano sempre già intrecciate, e devono essere mediate l'una per mezzo dell'altra; e questo deve avvenire in maniera trasversale rispetto a quelli che sono i punti di riferimento abituali, deve avvenire, per così dire, controcorrente. Questa mediazione necessaria, non avviene tra i vincoli esterni e la loro interiorizzazione soggettiva, oppure tra soggetto e oggetto, ma viene vista come un problema di mediazione tra contenuto e forma. [*14]

2. Crisi e critica
Circa dieci anni fa, Robert Kurz scrisse una lettera aperta alle persone interessate alla rivista Exit! ("Crisi e critica della società delle merci" [*15]), la quale era stata fondata dopo la scissione di Krisis. Come titolo del mio intervento di oggi, ho scelto il titolo di quella lettera, apponendovi però un punto interrogativo. Quello che vorrei presentarvi, domani, 18 luglio 2022, nel decimo anniversario della morte di Robert Kurz, può essere inteso quasi come lo svolgimento di questo punto interrogativo: come dobbiamo intendere le parole «Nessuna rivoluzione, da nessuna parte»?
Kurz si rivolge ai suoi lettori al volgere dell'anno 2011/12, invitandoli a sostenere la rivista «nel suo nuotare controcorrente». Tuttavia, però non lo fa senza prima affrontare in maniera critica l'«improvvisa inflazione del concetto di rivoluzione» che si percepiva all'epoca sotto l'influenza della cosiddetta Primavera araba, delle violente rivolte dei giovani senza speranza della classe inferiore in Gran Bretagna, dei movimenti sociali nei Paesi dell'Europa meridionale colpiti dalla crisi del debito, delle manifestazioni di massa contro le politiche del governo Netanyahu in Israele, della ribellione degli studenti in Cile contro l'orientamento neoconservatore del sistema educativo e della protesta, negli Stati Uniti, del movimento Occupy contro la crescente disuguaglianza e il potere delle banche. Kurz è inequivocabile nel suo contrapporvisi: da nessuna parte si può parlare di rivoluzione. Ma dappertutto, le gravi distorsioni sociali ci rimandano alle strutture globali del capitalismo mondiale; dandoci delle indicazioni che, tuttavia, per l'appunto, non vengono affatto, o non sufficientemente, comprese e inquadrate come tali [*16]. L'interpretazione di Kurz? «Chi non vuole cogliere e combattere la totalità capitalista ha già perso la sua battaglia». E la sua conclusione? «Senza teoria rivoluzionaria, non c'è movimento rivoluzionario»! Con Marx, quindi egli sottolinea «l'importanza della riflessione teorica»: «Marx ha giustamente sottolineato che un autentico rivolgimento rivoluzionario progredisce solo nella misura in cui i suoi inizi e le sue fasi di passaggio vengono criticati, e questo in modo spietato, al fine di superarli e spingerli così oltre le loro mezze misure, le loro conclusioni errate e le loro aberrazioni» [*17]. Qui, a essere decisivo è che questa riflessione teorica non deve consistere solo in un esercizio accademico in stile razionalista, ma costituisce un esame delle condizioni storiche. Due anni prima, Kurz aveva già affrontato la relazione di condizionalità tra la rottura ontologica (profonda), che sarebbe necessaria, e l'esigenza ontologica (irrealizzabile) che si oppone alla rottura delle condizioni esistenti. Questa rottura sarebbe condizionata dal riconoscimento della crisi, così come l'insufficienza della critica, insieme alle corrispondenti formazioni di compromesso sono la conseguenza di questa necessità. Si tratta di rendere possibile il capovolgimento di tale situazione: «La critica categoriale senza rassicurazione ontologica e la crisi categoriale, in quanto limite interno strettamente oggettivo della produzione di plusvalore, si condizionano a vicenda»; cioè a dire, o la crisi e la critica colpiscono il loro nucleo categoriale comune, oppure scompaiono simultaneamente e ciascuna per conto proprio; in quest'ultimo caso, «una critica tronca, che non ha come obiettivo le fondamenta» - e quindi immanente - non vuole sapere niente della crisi, e pertanto  sostiene «il postulato secondo cui la produzione di plusvalore sia capace di rigenerarsi eternamente» [*18]. Un anno dopo l'inizio della cosiddetta crisi finanziaria del 2008, Kurz sottolinea ancora una volta il livello categoriale della crisi evidenziato dalla critica della dissociazione del valore, vale a dire: un limite interno assoluto alla valorizzazione, che porta inevitabilmente al collasso della socializzazione capitalistica; tuttavia, egli rileva simultaneamente anche un «arretramento riguardo le conseguenze della crisi categoriale, il quale anestetizza qualsiasi capacità di riflessione» [*19].
A partire da questo, si capisce perciò perché la lettera di cui stiamo parlando, scritta due anni più tardi, affermi che «l'atteso rinnovamento teorico può che essere essenzialista solo in senso negativo» e deve «porsi in maniera anti-relativista rispetto alla falsa totalità» [*20]. Sempre in quello stesso anno, Kurz traccia una panoramica di quello che è il contesto storico interno dello sviluppo capitalistico, sottolineando come, ancora una volta, tale sviluppo non obbedisca ad altro che a una dinamica di crisi. Pertanto, la domanda sul perché il capitalismo sopravviva a ogni crisi è già mal posta. Sarebbe preferibili dire che piuttosto il capitalismo vive la crisi. O più precisamente, detto proprio come risposta, il capitalismo è la crisi. E dunque che dire di questo capitalismo in crisi? Benché ci ricordi - ammiccando al fatto - che Marx «purtroppo non ci ha lasciato una teoria pratica della crisi, nel formato di un manuale divulgativo», Kurz mette insieme comunque gli elementi di una risposta a questa domanda rintracciandoli proprio nel fondatore della critica dell'economia politica; e questo lo fa nel quadro di una lettura critica approfondita di Marx, con Marx e oltre Marx [*21], che arriva fino al terzo volume del Capitale, pubblicato undici anni dopo la sua morte, nel quale Marx formula la teoria della caduta tendenziale del tasso di profitto [*22]. Kurz conclude a partire dalla sua lettura: «Su questa base, il problema a lungo termine non è quello della periodica mancanza di realizzazione del plusvalore sul mercato, ma molto più fondamentale, consiste piuttosto nella sua stessa mancanza di produzione» [*23]. Detto in altri termini, «il presupposto e la condizione della teoria marxiana della crisi, è costituito da quella tesi che riguarda la scomparsa del lavoro stesso». Da questo punto di vista, la crisi «non è altro che la perdita della sostanza oggettivata del capitale, causata dal suo stesso meccanismo interno». Il lavoro, secondo Kurz, «fuoriesce e sfugge come fa la sabbia dal sacco, attraverso un buco, o l'acqua attraverso una perdita nel serbatoio». Ecco cosa succede, in dettaglio:
« Il capitale si svuota e si indebolisce, e la sua vita nutrita dal lavoro si ferma. Quando una delle componenti del soggetto automatico, vale a dire il lavoro, si esaurisce, ecco che l'altra, il denaro, si vede costretto a decrescere - perde la sua sostanza, e quindi il suo valore, e diventa esso stesso obsoleto. Si verifica un'interruzione nel rapporto, o nella forma di circolazione sociale generale della sua triplice mediatizzazione: lavoro astratto, reddito monetario e consumo di merci. L'intero stile di vita apparentemente naturale basato su queste relazioni feticistiche si sgretola e diviene praticamente impossibile. Ci veniamo allora a trovare di fronte alla seguente assurdità: tutti i mezzi, insieme a tutte le capacità di una ricca riproduzione ricca abbondano, ma gli uomini paralizzati dalla "mano invisibile" [A. Smith] del capitale non possono più concretizzare le proprie possibilità, perché non soddisfano più al fine irrazionale del soggetto automatico» [*24].
A partire da questo, bisogna riconoscere due cose: da un lato, «che la crisi non si sviluppa affatto in maniera lineare, ma progressiva», vale a dire «che essa  presenta una tendenza storica crescente»; e dall'altro, e contemporaneamente, che queste frasi non descrivono una situazione futura, ma quella che è di già la nostra situazione attuale [*25] - e ormai lo fanno già da mezzo secolo [*26].

3. Mediazione della contraddizione
Uno dei grandi punti di forza della "critica del valore", co-fondata da Robert Kurz negli anni Ottanta, è senza dubbio il fatto che essa si sviluppi «a partire dall'immanenza capitalistica». Naturalmente, qui possiamo solo indicarlo; per capirlo, possiamo farlo solo leggendo noi stessi le opere di Robert Kurz, così come si sono susseguite: da "Der Kollaps der Modernisierung" (1991),"Honeckers Rache. Zur politischen Ökonomie des wiedervereinigten und Marktwirtschaft" (1991-1993) a "Schwarzbuch Kapitalismus" (1999), quindi a "Weltordnungskrieg" (2003) e "Weltkapital" (2005), fino a "Geld ohne Wert" (2012). [*27]
La conseguenza di questo dispiegamento immanente, ossia che la critica della dissociazione del valore non può più «adottare un punto di vista di un'identità ontologica e di un interesse positivo», le è stata ripetutamente rimproverata da più parti. Tuttavia, è erroneo considerare questo aspetto come una debolezza della critica. Al contrario, possiamo vedere in essa quella che è la sua vera forza, che la pone di fronte a una sfida incessante. Ciò in quanto, la «contraddizione in processo» (Marx) del sistema capitalistico della modernità produttrice di merci, procede di pari passo con il «trattamento della contraddizione» [*28] in maniera affermativa all'interno del sistema, che si oppone alla necessaria «mediazione della contraddizione» (Kurz) che è critica, ad esempio del fatto che tale «trattamento della contraddizione» produca quelle forme di «contro-pratica» immanente le quali, tuttavia, malgrado la loro opposizione esteriore all'amministrazione degli esseri umani e della crisi, parte integrante della stessa riproduzione capitalistica, a causa della loro origine rimangono «necessariamente particolari»: «esse sono critiche solo in relazione a dei singoli fenomeni della riproduzione capitalistica, e si riferiscono [solo ed esclusivamente] alle forme sociali date» [*29]. Ed è proprio qui che si nota una grande vicinanza con l'approccio psicoanalitico, che non tratta il sintomo come se fosse una «manifestazione isolata» e separata; a differenza degli approcci terapeutici multipli. Ancora una volta, il punto di partenza è il riconoscimento della contraddizione: «Il capitale è un'autocontraddizione processuale a partire dal fatto che, da un lato, ha come unico scopo l'incessante accumulazione di valore, o la "ricchezza astratta" (Marx), ma dall'altro la concorrenza lo costringe a rendere sempre più superflua la forza-lavoro umana - fonte esclusiva di questo valore - attraverso lo sviluppo delle forze produttive, e a sostituirla con l'apparato scientifico e tecnico. Ora, lo sviluppo delle forze produttive non è un eterno ritorno dello stesso, bensì un processo storico irreversibile» [*30]. Ora, questa contraddizione viene sempre affrontata in maniera immanente e affermativa; ad esempio, nel fatto che «l'interesse dell'esistenza capitalistica [viene legato] alle categorie feticcio ontologizzate e socialmente generalizzate, sottoponendole a un'interpretazione, o meglio, a quella che diventa una vera e propria interpretazione-reale che arriva fino alle manifestazioni omicide del sessismo, del razzismo e dell'antisemitismo» [*31]. Ma qui si tratta proprio di rompere un simile trattamento - che preserva il processo capitalistico - e di aprire invece la strada alla mediazione della contraddizione: in una simultanea direzione del suo superamento. Una delle idee fondamentali della critica della dissociazione del valore, consiste nel fatto che la «contraddizione in processo», e il «trattamento della contraddizione» che ne consegue corrodono tutte le categorie del moderno sistema di produzione di merci. La «mediazione» di tale contraddizione deve perciò attaccare contemporaneamente tutte le categorie . La panoramica delle categorie capitalistiche elementari che segue, mostra come sia del tutto giustificato, in questo contesto, parlare della totalità della socializzazione negativa del valore [*32]:

- La nozione astratta di "lavoro"
- il "valore" economico
- la presentazione sociale dei prodotti come "merce"
- la forma generale del denaro
- il passaggio sui "mercati"
- il riunire questi mercati in "economie nazionali"
- i "mercati del lavoro", in quanto condizione per un'economia di mercato, finanziaria e su larga scala
- lo Stato visto come una "comunità" astratta
- Il "Diritto" generale e astratto che regola tutte le relazioni personali e sociali in quanto forma di soggettività sociale
  - la forma dello Stato, pura e perfezionata, che è la "democrazia"
-  il travestimento irrazionale, culturale e simbolico della coerenza economica nazionale vista come "nazione"

In definitiva, è il concetto marxiano di valore a dare forma a questa relazione categoriale, e questo avviene fin dall'inizio. Robert Kurz non solo ha saputo evidenziare il modo in cui la «forma sociale» [Formzusammenhang] di queste categorie fondamentali della moderna socializzazione capitalistica, da un lato, «si sono costituite attraverso processi storici ciechi», e dall'altro, sono state anche «imposte agli uomini nel corso di diversi secoli di educazione, assuefazione e interiorizzazione da parte di protagonisti e governanti»; con il risultato che «queste categorie sono state ben presto viste come delle insormontabili costanti antropologiche che sfidano ogni critica» [*33].  Robert Kurz ha anche, e soprattutto dedotto che, in questo modo, la «prima difficoltà di una critica categoriale del capitalismo» è «strappare queste categorie al loro status di muta evidenza muta, per renderle esplicite, e quindi finalmente accessibili alla critica» [*34].

4. Critica del lavoro
Anche se da quanto si è appena detto si evince, nello spirito della critica radicale, che non si tratta di svincolare nemmeno una sola categoria, da quello che è il suo rapporto formale con le altre, per criticarla singolarmente; non di meno, la "critica della dissociazione del valore" è stata, fin dall'inizio, soprattutto una «critica del lavoro». [*35]
Ne testimonia, come nessun'altra, la frase per mezzo della quale Robert Kurz, cinque anni dopo la pubblicazione del manifesto del 1999 pubblicato allora nell'ambito del gruppo Krisis - «Proletari di tutto il mondo, ora basta!» -, riassumeva i diciotto punti del "Manifesto contro il lavoro": «Il lavoro concreto e il lavoro astratto sono un'unica e medesima cosa; e si riuniscono sommandosi nell'astrazione "lavoro" in quanto astrazione reale». [*36]
La categoria del lavoro astratto [*37] non è certo «qualcosa di sovra-storico» [*38], ma nondimeno essa si presenta comunque come una «follia metafisica» [*39]; ha certamente a che fare con «una questione di coscienza» [*40], ma rappresenta al tempo stesso non solo un «rovesciamento del concreto e dell'astratto» [*41], ma anche «la relazione tra il generale e il particolare [vista] al contrario» [*42]; e quindi il lavoro astratto è il testimone di «un sistema fantasma» che esso ha generato, e all'interno del quale finisce per essere «nel mondo, ma non del mondo» [*43].
Allo stesso modo in cui il valore, in quanto astrazione reale, dà forma al legame tra le categorie e la merce, ricevendo il suo carattere dalla relazione feticista, così anche il lavoro fornisce al capitale la sua sostanza "unheimlich" (inquietantemente strana). Il lavoro astratto costituisce così «il modo in cui il principio sociale essenziale non materiale, si impadronisce terribilmente del mondo materiale» [*44]. La socializzazione che ne deriva, è da definirsi negativa, poiché è attraverso di essa che le persone sono sì nel mondo, ma allo stesso tempo non sono del mondo.

5. Contro la corrente, contro la marea, contro la gravità
A partire da questo momento, si comprende come veramente non ci sia «alcuna rivoluzione» all'orizzonte, «da nessuna parte»! Se è vero, come ha detto Robert Kurz, che più il mondo diventa economico, più è soggetto alle crisi; e più è soggetto alle crisi, più la sua coscienza diventa economica, «ma in una maniera del tutto a-teorica e a-critica» [*45], quali possibilità ci lascia allora di cambiare le condizioni o le relazioni sociali, una simile situazione?
«Nessuna rivoluzione, da nessuna parte», può anche essere intesa in un altro modo, ossia, nel senso dell'introduzione di Robert Kurz al suo ultimo libro, definendola "La rivoluzione teorica incompiuta".
Si tratta della rivoluzione iniziata da Karl Marx. Viene detta incompiuta perché, per progredire, l'opera di Marx necessita di una nuova, diversa lettura. Ed è allo sviluppo di questa nuova e diversa lettura che Robert Kurz ha dedicato tutta la sua vita. Nello spirito di questa lettura, si tratta sempre e comunque di «ripristinare», controcorrente e contro la forza di gravità, «una cultura teorica della critica dell'economia politica». [*46] E oggi, in questo stesso spirito, a dieci anni dalla sua morte, l'opera di Robert Kurz è ben lungi dall'essere stata portata a termine.
Ho cominciato partendo da una citazione. Vorrei concludere con una citazione. E più precisamente con tre frasi che provengono dall'inizio, vale a dire da un suo scritto risalente al 1987 e che viene ancora indicata come un testo fondante della critica della dissociazione del valore. Trentacinque anni dopo, queste parole non sono invecchiate di una sola ruga, anzi! Sono al contrario rimaste freschissime, e continuano a testimoniare quale fuoco ardesse in Robert Kurz: «L'attuale compito, storicamente attuale, è la preparazione teorica e pratica di una rivoluzione che liquidi il valore, e pertanto il denaro. Tutto il resto è solo paccottiglia teorica e ideologica. La bomba vera e propria - in quanto nucleo dell'opera di Marx, la sua esplosiva eredità per il futuro - deve ancora essere innescata». [*47]

- Frank Grohmann, 18 luglio 2022, nel corso della commemorazione nel 10° anniversario della morte di Robert Kurz

NOTE:

[*1] - Dalla prefazione di Kurz, R. (2012), "Geld ohne Wert. Grundrisse zu einer Transformation der Kritik der politischen Ökonomie", Horlemann, Berlin, 2012, pag. 10.

[*2] - Kurz, R. (2004), "Raison sanglante. Essais pour une critique émancipatrice de la modernité capitaliste et des Lumières bourgeoises", Crise & Critique, Albi, 2021, p. 83.

[*3] - Claus-Peter Ortlieb parla del «"carattere di feticcio della merce" introdotto metaforicamente da Marx»; in Ortlieb, C.-P. (2019), «Westliche Werte? Aufklärung und Fetisch», Zur Kritik des modernen Fetischismus, Schmetterling Verlag, Stuttgart, 2019, p. 211; diciassette anni prima, Ortlieb aveva già parlato dell'«uso metaforico del concetto di feticcio» da parte di Marx riferendosi alla «socializzazione della merce», - cfr. Ortlieb, C.-. P. (2002), «Die Aufklärung und ihre Kehrseite», Zur Kritik des modernen Fetischismus, a.a.O., pag. 236.

[*4] - Ortlieb, C.-P. (2002), "Die Aufklärung und ihre Kehrseite", op. cit, ibid.

[*5] - Kurz, R. (2001), Lire Marx !, Les Balustres, Parigi, 2002, pag. 49 e pag. 213.

[*6] - Kurz, R. (2004), Raison sanglante, op. cit., p. 131.

[*7] - « On arrête tout. On réfléchit. Et c’est pas triste. » Gébé, L’an 01 (1971), L´Association, Paris, 2014.

[*8] - R. Kurz (2010),  L´État n’est pas le sauveur suprême. Thèses pour une théorie critique de l´État, Crise & Critique, Albi, 2022, p. 24

[*9] - Kurz, R. (2004),  Raison sanglante, op. cit., p. 135.  Perquel cheriguarda il rimprovero ricorrente all'eccessività di questa lotta - di fronte alla pesantezza ideologica - «il problema viene a essere così rovesciato»: la critica radicale è accusata di ciò che dovrebbe essere invece imputato al rapporto sociale reale. Invece della relazione reale soggiacente, è la critica ideologica ad apparire come "totalitaria"?». Kurz, R. (2004), La substance du capital, L´Échappée, Paris, p. 29.

[*10] - In ogni caso, quello che noi percepiremmo è solo una differenza rispetto alle condizioni della forza di gravità sulla Terra. Questa differenza è di circa un sesto sulla Luna e di circa un terzo su Marte.

[*11] - Solo qualche indicazione: Robert Kurz parlava già nel 1992 di una «dimensione psicoanalitica della critica della forma merce». (Kurz, R. (1992), "Geschlechtsfetischismus. Anmerkungen zur Logik von Weiblichkeit und Männlichkeit", Krisis, 12, 1992; un anno dopo afferma «che il concetto chiave per comprendere ciò che rappresenta l'elemento realmente costitutivo, non può essere altro che quello di inconscio». (Kurz, R. (1993), "Dominio senza soggetto", in Raison sanglante, op. cit., p. 278; all'alba del nuovo millennio, troviamo la sua osservazione sul«la psicoanalisi dichiarata prematuramente morta» (ma anche sul«la critica femminista del linguaggio») che contengono delle «possibilità non sfruttate», non solo per scoprire «la storia rimossa e la falsa oggettivazione delle coercizioni capitalistiche», ma che allo stesso tempo rendono visibile «il processo di "interiorizzazione psichica" di tali coercizioni». (Kurz, R. (1999), "Die kulturelle Richtung des 21. Jahrhunderts. Symbolische Orientierung und neue Gesellschaftskritik", http://www.exit-online.org ; e ancora, a cavallo dell'anno 2014/15, Claus-Peter Ortlieb scrive: "La maggior parte delle domande sulla natura dell'incantesimo [...] feticistico, e su come romperlo, rimangono aperte. Per chiarirle, potrebbe essere interessante sfruttare le categorie psicoanalitiche a sostegno della critica della dissociazione del valore qui sostenuta». (Ortlieb, C.-P. (2014/15), "Krisenwirren", Zur Kritik des modernen Fetischismus. Die Grenzen bürgerlichen Denkens, Schmetterling Verlag, Stuttgart, 2019, pag. 343.

[*12] - Kurz, R. (2004), Raison sanglante, op. cit., p. 184.

[*13] - Ibid., p. 191.

[*14] - «In questo feticismo di una socializzazione di cose morte, piuttosto che di uomini vivi, e che costituisce l'essenza del "soggetto automatico", si viene a stabilire una relazione di forma e contenuto sostanziale, che è allo stesso tempo reale e fantasmagorico». Kurz, R. (2000), "Marx 2000", Weg und Ziel, 2/99.

[*15] - Kurz, R. (2012), "Keine Revolution, nirgends. Offener Brief an die InteressentInnen von EXIT zum Jahreswechsel 2011/12". Pubblicato sul sito web di EXIT, gennaio 2012. Stampato in: Der Tod des Kapitalismus. Marxsche Theorie, Krise und Überwindung des Kapitalismus, LAIKAtheorie, Amburgo, 2013.

[*16] - E pertanto: ovunque, o repressione brutale o strumentalizzazione soft della rivolta.

[*17] - Kurz, R. (2012), "Keine Revolution, nirgends", op. cit, p. 156.

[*18] - Kurz, R. (2009), "Weltkrise und Ignoranz", EXIT! 6, 2009. Citato qui dalla ristampa in Weltkrise und Ignoranz. Kapitalismus im Niedergang, Edition Tiamat, Berlino, 2013, p. 205.

[*19] - Ibidem, p. 209.

[*20] - Kurz, R. (2012), "Keine Revolution, nirgends", op. cit, p. 161.

[*21] - E che, come è noto, porta al riconoscimento di un "duplice" Marx, un Marx "essoterico" e un Marx "esoterico".

[*22] - Per ogni capitale monetario investito, la quota di capitale fisico aumenta costantemente, mentre il numero di lavoratori che possono essere mobilitati con questo mezzo diminuisce altrettanto regolarmente. [...] Poiché solo la forza lavoro produce nuovo valore, il profitto medio su scala sociale, per capitale monetario avanzato, deve diminuire , anche se la quota relativa di plusvalore nella produzione di valore di una forza lavoro aumenta. Nel risultato sociale, ciò che conta è il rapporto di grandezza tra le due tendenze opposte. Kurz, R. (2012), "Die Klimax des Kapitalismus. Kurzer Abriss der historischen Krisendynamik", Weltkrise und Ignoranz. Kapitalismus im Niedergang, op. cit, p. 233.

[*23] - Ibid. p. 232: «Il capitalismo raggiunge il suo apice quando l'espansione interna viene raggiunta e sorpassata dallo sviluppo delle forze produttive. È allora che la caduta relativa del tasso di profitto si trasforma in una caduta assoluta della massa sociale di plusvalore, e quindi del profitto, ed è quindi allora che la presunta eterna valorizzazione del valore si trasforma nella sua svalorizzazione storica». Ibidem, p. 235.

[*24] - Kurz, R. (2001), Leggere Marx, op. cit, p. 255.

[*25] - «È certo che bisognerà considerare in maniera più approfondita se la terza rivoluzione industriale della microelettronica abbia effettivamente portato a raggiungere il limite interno assoluto del capitale. Ma questo è esattamente l'esame che il corpo scientifico accademico insieme al patetico residuo della sinistra politica, si rifiuta di fare». Kurz (2001),Lire Marx !, op. cit., p. 258.

[*26] - «La crisi viene assai  meno analizzata, di quanto non sia invece rimossa e negata. Il paradosso sussiste a partire dal fatto che la teoria economica viene invalidata tanto più rapidamente quanto più si manifesta la crisi delle categorie economiche». Ibidem. Si veda anche Grohmann, F. (2020), "Die Vermittlung des Widerspruchs und die doppelte Aufgabe der Psychoanalytiker", Junktim - Forschen und Heilen in der Psychoanalyse, #3, Umwelt, Krise, Unbewusstes, Turia & Kant, Wien, Berlin, 2020.

[*27] - Una serie di cui "Raison sanglante", pubblicato nel 2004, non è solo il titolo principale, ma il cui contenuto riunisce i fili e prepara il terreno per le fasi successive.

[*28] - Si veda in dettaglio: Kurz, R. (2007), Gris est l'arbre de la vie, verte est la théorie, Crise & Critique, Albi, 2022.

[*29] - «A livello della "pratica pratica", con le sue molteplici sfere e mediazioni, il trattamento della contraddizione non è mai originario, immediato e, per così dire, riflessivamente innocente; esso è, al contrario, sempre ideologicamente carico e impregnato di teoria, sebbene la coscienza quotidiana non ne sia consapevole. Nell'interpretazione (reale) permanente e "contestata" del capitalismo, la "pratica teorica" e la "pratica pratica" costituiscono entrambe una pratica ideologica e si incontrano proprio su questo punto. Questa "pratica ideologica" rappresenta la vera e prorpria relazione di mediazione dell'unità negativa tra teoria e pratica; rappresenta una componente centrale della riproduzione capitalistica in quanto entra nell'azione materiale e sociale feticisticamente costituita della valorizzazione e della dissociazione del valore». Ibidem, pp. 46-47.

[*30] - Come mostra Marx nei Grundrisse, ci stiamo muovendo verso una situazione in cui i prodotti sono certamente dei beni di uso quotidiano, ma che, in quanto merci non possono rappresentare una quantità sufficiente di energia lavorativa umana del passato. Diventano invendibili poiché non rappresentano più alcun valore astratto. Non si tratta di un'epurazione, ma di una "barriera interna" (Marx) del capitale». Kurz, R. (2012), "Die Klimax des Kapitalismus", op. cit. pag. 232.

[*31] - Kurz, R. (2007), Gris est …, op. cit, p. 116.

[*32] - Kurz, R. (2001), Lire Marx !, op. cit., p. 24.

[*33] Ibidem, p. 24: «L'economia politica [...] e con essa tutte le altre scienze sociali differenziate (ormai definitivamente declassate al rango di semplici scienze secondarie, per non dire al rango "di ausiliari di polizia" teorici dell'economia politica) non hanno per oggetto le categorie capitalistiche in quanto lavoro, valore, merce, denaro, mercato, Stato politico, ma le hanno in quanto cieca precondizione del loro ragionamento "scientifico". Non si cerca più di conoscere il 2perché2 e il "percome" della forma soggettiva dello scambio di merci, della trasformazione della forza lavoro in denaro e del capitale finanziario in plusvalore; ma solo il "come" della sua funzione, allo stesso modo in cui gli scienziati della vita analizzano solo il "come" delle cosiddette leggi naturali». Ibidem, p. 37. .

[*34] - Ibidem, p. 37.

[*35] - Kurz, R. (2007), Gris est …, op. cit., p. 14

[*36] - Kurz, R. (2004), La substance du capital, Crise & Critique, Albi, 2019, p. 118.

[*37] - «È solo il moderno sistema di produzione di merci, con il suo fine in sé di trasformare incessantemente l'energia umana in denaro, che ha dato origine a una particolare sfera di ciò che viene chiamato lavoro, staccata da tutte le altre relazioni, astratta da ogni contenuto; una sfera di attività dipendente, incondizionata e non correlata, robotizzata, separata dal resto del contesto sociale e che obbedisce a un'astratta razionalità "d'impresa", di scopo, che sta al di sopra dei bisogni. [...] L'accumulo di "lavoro morto" sotto forma di capitale, rappresentato come denaro, è l'unico "senso" che il moderno sistema di produzione di merci conosce». Gruppo Krisis, Manifest gegen die Arbeit, pagg. 9-10.

[*38] - «Nella sua forma storica specifica, esso [il lavoro astratto] non è altro che il dispendio astratto di forza lavoro umana e il consumo di materie prime della natura nella "economia d'impresa". [...] Il lavoro, in questa strana astrazione, può anche essere definito dal suo altrettanto strano carattere di fine in sé».  Kurz, R. (1991), L’effondrement de la modernisation. De l’écroulement du socialisme de caserne à la crise du marché mondial, Crise & Critique, Albi, 2021, p. 32.

[*39] - «"Lavoro morto"? Una follia metafisica! Sì, ma una metafisica che è diventata una realtà palpabile, una "follia" oggettivata che tiene in pugno questa società. Nell'eterna compravendita, gli uomini non si scambiano come esseri sociali autocoscienti, ma si limitano a eseguire, come automi sociali, il fine in sé a loro presupposto». Gruppo Krisis, Manifest gegen die Arbeit, pagg. 9-10.

[*40] - Per ciò che concerne la "follia metafisica", non si tratta quindi «né di un problema materiale, né di un problema tecnico o organizzativo, ma solo di una questione di coscienza. Per poter sopravvivere come civiltà, l'umanità deve liberarsi dal lavaggio del cervello del liberalismo e del suo sistema benthamiano, vale a dire, deve rigurgitare in qualche modo le coercizioni e le imposizioni interiorizzate della cieca macchina del denaro, al fine di poter così affrontare senza pregiudizi il rapporto tra le risorse disponibili e il loro ragionevole uso sociale. Ciò significa non cercare più di combinare le forme, le categorie e i criteri sociali dominanti in un'altra combinazione, ma abolirli del tutto puramente e semplicemente». Kurz, R. (1999), Schwarzbuch Kapitalismus. Ein Abgesang auf die Marktwirtschaft, Eichborn, Francoforte sul Meno, 1999, p. 783.

[*41] - «All'inversione dei fini e dei mezzi quindi corrisponde un'inversione del concreto e dell'astratto; il concreto è ora solo l'espressione dell'astratto e non il contrario. Il cosiddetto "lavoro concreto", e il corrispondente spettro del "valore d'uso" non sono quindi il lato "buono" del sistema, orientato verso i bisogni, ma sono essi stessi solo la manifestazione concreta di un'astrazione reale. L'attività produttiva concreta appare socialmente solo come "portatore" di questa astrazione. Non esiste per sé stessa, ma è sottomessa al diktat della "valorizzazione del valore". Il "lavoro concreto" produce quindi anche dei risultati irrazionali e distruttivi dal lato del valore d'uso; e questo è all'insaputa di tutti i partecipanti, che tuttavia rimangono comunque incatenati alla coercizione strutturale del sistema». Kurz, R. (1999), "Marx 2000", Weg und Ziel, 2/99.

[*42] -  «Sarei tentato di dire che queste definizioni marxiane riflettono il vero paradosso della relazione di capitale e della sua socializzazione centrata sul valore, dal momento che in questo caso il capitale riduce effettivamente ("realmente") a un'astrazione quello che è concreto in sé, l'infinita diversità del mondo, e inverte completamente la relazione tra universale e particolare. Invece dell'universale che emana dal particolare, il particolare viene ridotto a una manifestazione dell'universale totalitario. Quanto al concreto, esso non rappresenta più la diversità strutturata del particolare, ma è solo la "espressione" dell'universale astratto-reale, la "sostanza" universale». Kurz, R. (2004), La substance du capital, op. cit., p 50-51.

[*43] - «Questo sistema fantasmatico del "lavoro astratto" in quanto forma di movimento della "ricchezza astratta" è nel mondo, ma non è del mondo. Non è affatto un dio, bensì la vittima risvegliata a una vita sintetica e veramente fantasmatica».  Kurz, R. (2012), Geld ohne Wert. Grundrisse zu einer Transformation der Kritik der politischen Ökonomie, Horlemann, Berlino, 2012, p. 404.

[*44] - Kurz, R. (2004), La sostanza del capitale, op. cit, p. 44.

[*45] - Kurz, R. (2001), Lire Marx !, op. cit., p. 258

[*46] - Ibidem.

[*47] - Kurz, R. (1987), "Abstrakte Arbeit und Sozialismus. Zur Marxschen Werttheorie und ihrer Geschichte", Marxistische Kritik, 4, dicembre 1987.

fonte: GRUNDRISSE Psychanalyse et capitalisme