Scrittrice di grande successo internazionale, associata a un genere spesso considerato d’evasione come la fantascienza, Ursula Le Guin rappresenta allo stesso tempo una figura di intellettuale anticonformista e radicale, dotata di una sensibilità pacifista, ambientalista e femminista che la colloca saldamente nella nostra epoca. In questa raccolta di saggi e discorsi Le Guin ci prende per mano e ci invita a seguirla nelle sue riflessioni. Si chiede se il modello di società maschile e competitiva in cui viviamo è l’unico che sappiamo concepire. Contesta l’ideologia del progresso tecnico che ossessiona l’Occidente, valorizzando esperienze di vita più attente all’equilibrio con la natura come quelle dei nativi americani. Denuncia il linguaggio del potere, la «lingua degli uomini» a cui contrappone una «lingua delle donne» alternativa, che possa ispirare valori di nonviolenza e solidarietà. Affronta il tabù della menopausa e tesse l’elogio della vecchiaia. Dissente da Tolstoj e riparte da Virginia Woolf. Sono pagine di libertà, dove non ci sono facili risposte ma, attraverso l’intelligenza e la letteratura, l’ironia e il canto, si prova a immaginare il posto più giusto, inclusivo e pieno di bellezza in cui molte e molti di noi vorrebbero già essere.
(dal risvolto di copertina di: Ursula K. Le Guin, «I sogni si spiegano da soli» (a cura di Veronica Raimo) Edizioni Sur pp. 245, € 18)
La femminista Le Guin sognò lo schwa per non escludere le donne dalla fantascienza
Linguaggio e critica degli stereotipi di genere, avventure spaziali senza la figura mitologica dell’eroe: una raccolta di saggi ritrae la scrittrice “fieramente caotica”
- di Veronica Raimo -
Durante i mesi del primo lockdown non ho fatto che leggere articoli scientifici sulla pandemia e i saggi di Ursula K. Le Guin che avrei dovuto selezionare per questa raccolta. In prospettiva - in quel momento la mia consapevolezza era troppo opaca per ricavare inferenze - direi che si trattava di due operazioni opposte e complementari. Da un lato c’era l’ansia di penetrare un sapere scientifico e di comprenderlo, di arrivare al cuore dell’ignoto e renderlo intellegibile, dall’altro c’era una scrittrice e teorica come Le Guin che metteva filosoficamente in dubbio quel tipo di sapere, rivendicando non tanto la seduzione per un pensiero magico, quanto la necessità di ampliare il concetto di realtà, di diventare «realisti di una realtà più grande», per usare una delle sue espressioni più citate. Sì, ma che cos’era questa «realtà più grande?» . In un certo senso, l’operazione stessa di ripensare in prospettiva quel periodo mi può fornire una risposta, se ammettiamo che dare un peso alle coincidenze faccia già parte di questa realtà più grande. Leggere Le Guin durante una pandemia era una coincidenza di per sé significativa? Me lo chiedevo e me lo chiedo ora. Forse non vanno letti solo i dispacci, ma anche i segni.
In uno dei suoi saggi raccolti qui - Una visione non-euclidea della California come luogo freddo - Le Guin cita Chuang-Tzu per postulare che una conoscenza suprema - ovvero la massima ambizione umana - possa essere raggiunta solo da «chi sa fermarsi al punto in cui ogni ulteriore conoscenza è impossibile. Se uno non accetta questo limite naturale, il corso del cielo lo terrà in scacco». (La traduzione non è mia, e se «il corso del cielo» può sembrare un po’ enfatico si tratta pur sempre di mistica taoista).
Prima di proseguire il saggio e arrivare dove vorrebbe arrivare, Le Guin si ferma e cerca il suo limite naturale. Più esattamente, non sa come andare avanti e lo ammette. È abbastanza spiazzante ritrovarsi dentro il ragionamento di qualcuno e assistere ai suoi inciampi, quelli che di solito restano fuori dalla pagina, così come di solito vengono estromessi dal discorso gli artifici per dissimularli. Le Guin invece ci rende partecipi del suo stallo, senza però una posa da apologeta del fallimento; semplicemente smette di scrivere e si rivolge all’I Ching. Si affida agli esagrammi che vengono fuori tirando le monete: saranno quelli a indicarle la strada. Mentre traducevo questi saggi mi sono resa conto di aver fatto qualcosa di simile. Non so se si possa parlare di blocco del traduttore così come si parla di blocco dello scrittore, fatto sta a un certo punto mi sono bloccata e non sapevo come andare avanti. Non sono ricorsa all’I Ching, ma ai morti. Mi era già capitato di tradurre autori non più in vita, e avevo sempre accettato l’evidenza per quello che era; di base non mi era proprio sfiorata l’idea di porgli delle domande per fugare i miei dubbi e di sperimentare conseguentemente la frustrazione di un’infattibilità pratica. I morti potevano seguitare a riposare in pace, e pure io me ne stavo piuttosto tranquilla alle prese con il mio momentaneo stato di impasse. Nel caso di scrittori vivi generalmente è tutto molto prosaico, ci sono le mail, ci sono agenti letterari di mezzo, a volte ci sono persone gentili e curiose di fronte alle tue domande, altre volte persone sbrigative che si limitano a risposte monosillabiche o che ti sbolognano all’assistente mentre stanno posando per uno shooting fotografico.
Con Ursula K. Le Guin la faccenda era diversa, sentivo il bisogno di un confronto, sentivo il bisogno di parlare con lei, e quindi l’ho fatto: ho cominciato a parlarci. Con una certa ossessività. Non so se lei fosse esasperata da queste incessanti invocazioni mentali, ad ogni modo una notte ha deciso di apparirmi in sogno. Mi ero bloccata sulla traduzione di Il genere è necessario? Versione aggiornata, dove Le Guin fa qualcosa di ancora più spiazzante: ritorna sulla versione di uno dei suoi saggi più famosi per mettersi sotto accusa. Non solo critica alcune delle sue vecchie convinzioni, ma se la prende anche con la propria spacconaggine, sbeffeggia l’atteggiamento spavaldo con cui le aveva difese. Nella prima versione del saggio, datata 1976, aveva scritto, a proposito del suo romanzo La mano sinistra del buio in cui ipotizza un mondo - Gethen - dove gli abitanti sono androgini per natura: «Uso il pronome “lui” riferito al singolo gethiano perché mi rifiuto categoricamente di massacrare l’inglese inventando un pronome che vada bene per lui/lei».
Nella versione aggiornata del 1988 aggiunge una nota appassionata sulla questione: «Questo “rifiuto categorico” del 1968 riaffermato nel 1976 è collassato, completamente, nel giro di un paio d’anni. Continua a non piacermi l’idea dei pronomi inventati, ma adesso mi piace ancor meno il cosiddetto pronome generico declinato in lingua inglese al maschile singolare (he/him/his), che di fatto esclude le donne dal discorso, e che è stato un’invenzione dei grammatici maschi, visto che fino al sedicesimo secolo il pronome generico al singolare era they/them/their che non ha valenza maschile e che ancora viene usato in inglese e in americano nel parlato. Dovrebbe essere reintrodotto anche nel linguaggio scritto, lasciando lì a blaterare pedanti e sapientoni».
Sia la frase della prima versione, che la nota della seconda sono state evidentemente tradotte da me. Non è stato facile. Non sapevo che fare. Capisco possa apparire un motivo incongruo per disturbare i morti, ma quella nota metteva in crisi la traduzione dell’intero libro. Il punto era: se nel 1988 Ursula Le Guin sconfessa se stessa e si apre a quello che oggi chiamiamo linguaggio inclusivo, come potevo rendere quella scelta tenendo conto 1) della distanza temporale 2) della distanza linguistica? Avrei dovuto utilizzare lo schwa in tutti i saggi della raccolta? Ma non sarebbe stato un azzardo inversamente anacronistico? Oppure avrei dovuto adottare il femminile sovraesteso? Avrebbe comunque tradito nel caso specifico la natura «androgina» dei personaggi.
E poi come me la sarei cavata col singolare? O forse avrei dovuto lambiccarmi tutto il tempo per evitare di usare aggettivi e participi passati? L’incontro onirico con Ursula K. Le Guin è avvenuto al mercato. Ovviamente - come accade sempre - ricordo solo quello che mi fa comodo ricordare. Non abbiamo parlato né di schwa, né di differenze grammaticali tra l’inglese e l’italiano, ma lei mi ha infilato delle albicocche nel sacchetto dei limoni.
I sogni si spiegano da soli come recita il titolo di questa raccolta, una frase che - in puro stile Le Guin - conserva la giusta ambiguità per ambire a non spiegarci nulla e limitarsi a indicarci la strada. Allora ho deciso di prendere le albicocche ficcate da Ursula nel mio sacchetto di limoni come una sorta di lasciapassare. Quella mescolanza di elementi eterogenei, ritradotta nei termini che mi servivano, significava all’incirca: «Fai un po’ come ti pare».
Nell’incipit del Discorso per la consegna dei diplomi al Bryn Mawr, Le Guin scrive: «Ragionando su cosa avrei dovuto dire, mi sono ritrovata a pensare a quello che impariamo al college, e a quello che disimpariamo al college, e a come poi impariamo a disimparare quello che abbiamo imparato al college e a reimparare quello che abbiamo disimparato al college, eccetera».
È la sua premessa per il resto del discorso, dove elabora una distinzione tra una «lingua padre» - scientifica, razionale, ufficiale, la lingua della politica e del discorso pubblico, la lingua del potere -, e una «lingua madre» - considerata banale, casalinga, profana, imperfetta, una lingua intrinsecamente dialettica, che si aspetta una risposta, che crea una conversazione. «La lingua madre» scrive, «è un linguaggio inteso non come mera comunicazione, ma come relazione, rapporto».
Nel tradurre Le Guin ho tentato di scrivere nella lingua madre, di creare un rapporto, non soltanto con lei, ma con chi la leggerà (nonché con chi ha revisionato la traduzione e che è entrato quindi in questa conversazione). Provare a creare un rapporto ha le conseguenze tipiche dell’impresa: possibili incomprensioni, punti di vista diversi, dubbi irrisolti, escamotage, lo scontrarsi con i propri limiti e con i limiti stessi della lingua. C’è chi è convinto che non esista niente che non possa essere tradotto. Non mi è mai parso questo il modo di porre la questione, quanto piuttosto: quante possibilità abbiamo di tradurre qualcosa? E come cambiano nel tempo? Personalmente credo molto nelle soluzioni imperfette, nell’arte di arrangiarsi. Così come ci credeva Ursula K. Le Guin, che in tutta la sua opera ha reso omaggio al trickster, la figura per eccellenza dell’imbroglione, del truffatore, tanto da averci basato un’intera teoria della letteratura: La teoria letteraria del sacchetto della spesa (non è un caso che in sogno mi sia apparsa al mercato).
«Perciò, quando mi sono messa a scrivere romanzi di fantascienza, mi sono portata dietro questo grosso sacco stracolmo e pesante» scrive a proposito della sua poetica, «il mio sacchetto della spesa pieno di fifoni, imbranati, di inizi senza fini, di iniziazioni, di perdite, di trasformazioni e traslazioni, e molti più trucchi che conflitti, molti meno trionfi che trappole e delusioni. Un sacco pieno di navicelle spaziali che restano incagliate, missioni che falliscono e persone che non capiscono».
La fantascienza di Ursula K. Le Guin metteva in discussione gli stereotipi di genere e gli stereotipi del genere. Raccontare avventure spaziali senza la figura mitologica dell’Eroe - così come ci aveva abituato la fantascienza classica - è stato un azzardo sotto diversi aspetti. Non si trattava semplicemente di ampliare in senso democratico la partecipazione a tali avventure, ma anche di scardinare il tipo di narrazione estremamente lineare che l’Eroe si porta dietro.
«E così l’Eroe ha decretato attraverso la bocca dei Legislatori che, punto primo: la forma appropriata della narrazione è quella di una freccia o di una lancia, che parte da qui per andare dritta lì e TATÀ! colpisce il bersaglio (e lo ammazza), punto secondo: l’istanza centrale della narrazione, compresi i romanzi, è il conflitto; e, punto terzo: la storia non vale granché se lui non ne fa parte».
Le Guin, nei suoi romanzi di fantascienza, scardina tutti e tre gli assunti: la narrazione ha un andamento circolare; il conflitto è sempre sfuggente e non si traduce mai in guerre intergalattiche; la storia procede per vie laterali, seguendo personaggi minori. Anzi: non esistono personaggi «minori». Dato che questo scardinamento, ispirato da un allegro principio anarchico, le è molto caro, lo utilizza anche nei suoi saggi. Le Guin è una pensatrice fieramente caotica, per cui qualsiasi purista accademico potrebbe dare in escandescenza. Tradurre il suo pensiero spesso ti mette di fronte a questa sfida: trovare un modo per restituire il caos, sebbene a volte si sia tentati di semplificarlo, di correggerlo o di dargli un ordine.
Con Una visione non-euclidea della California come luogo freddo siamo invitati a un esperimento: «la peculiare forma frammentaria di questo saggio è il mio tentativo di renderlo una “conferenza”» scrive. «Un’opera performativa, un pezzo a più voci». È come se anche nella non-fiction si sentisse in dovere di sottrarsi alla funzione autoriale (e quindi eroica) per aprirsi a una conversazione in cui i contribuiti altrui si compongono in una sorta di arazzo. A volte in questa «conversazione» possono entrare gatti o creature immaginarie. C’è un altro aspetto relativo a questa stramba ortodossia del caos ad accumunare la fiction e la non-fiction di Le Guin, ed è proprio il suo amore per gli esperimenti. «I fisici fanno spesso esperimenti mentali» scrive in Il genere è necessario? Versione aggiornata.
«Einstein spara un raggio di luce dentro un ascensore in movimento, Schrödinger mette un gatto in una scatola. Non esistono né l’ascensore, né il gatto, né la scatola. L’esperimento viene svolto, e la questione posta, solo a livello concettuale. L’ascensore di Einstein, il gatto di Schrödinger, i miei getheniani, non sono che dei ragionamenti».
Il punto però è che Le Guin non è così interessata ai risultati del suo esperimento, o meglio: sa che potranno cambiare. Sa che potrà esserci sempre una «versione aggiornata», un modo per ritornare sui suoi passi, un’incoerenza strutturale nelle cose. Parlando della società getheniana da lei creata, scrive: «Come esperimento era un casino. I risultati erano tutti incerti; la ripetizione dello stesso esperimento fatto da qualcun altro, o anche da me stessa qualche anno dopo, probabilmente avrebbe portato a risultati piuttosto differenti. Da un punto di vista scientifico è una cosa molto poco raccomandabile. D’accordo, non sono una scienziata. Gioco a un gioco dove le regole continuano a cambiare».
Tradurre un gioco dove le regole continuano a cambiare aggiunge un ulteriore livello di indeterminatezza, di compromesso e di dubbio. Credo che questa frase possa sintetizzare in sé il processo del tradurre: «la ripetizione dello stesso esperimento fatto da qualcun altro, o anche da me stessa qualche anno dopo, probabilmente avrebbe portato a risultati piuttosto differenti».
Mi piace pensare che potrò tornare negli anni - anche solo come esperimento mentale - su questa traduzione, pentirmi di alcune scelte, avere nuove idee, sognare Ursula al mercato o su un pianeta sconosciuto.
- Veronica Raimo - Pubblicato su TuttoLibri del 21/5/2022 -
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