«C'era una volta una comunità di farabutti», scrive Kafka in un breve racconto del 1917, «o meglio non erano farabutti, ma uomini comuni. Si erano sempre sostenuti a vicenda. Per esempio, quando uno di loro aveva reso infelice un estraneo, uno che non faceva parte della loro compagnia, a causa di una qualche sua scelleratezza (...) essi esaminavano il caso, indagavano, giudicavano, imponevano penitenze, perdonavano e così via (...) "Ma come? Ma perché ti affliggi? Hai fatto la cosa più naturale" (...) e anche dopo esser morti, non hanno hanno dissolto la loro comunità, sono saliti in cielo tenendosi per mano e ballando...»
Esiste un nesso tra "l'ordinario", "la cosa più naturale" e "la scelleratezza", l'esclusione. Tra tutto ciò e quella che è una buona, una buonissima coscienza. Si pensi a come Hannah Arendt svilupperà la "banalità del male" in Eichmann, a Gerusalemme, in cui parla di Eichmann come di un "clown". E pensiamo a un altro breve racconto del 1920, intitolato "Comunità", nel quale Kafka traccia il ritratto di cinque amici: «Siamo cinque amici, una volta uscimmo da una casa, uno dopo l'altro (...) La gente si accorse di noi, ci indicava e diceva: "I cinque sono usciti ora da questa casa". Da allora viviamo insieme, sarebbe una vita tranquilla se di continuo non si intromettesse un sesto».
Ah, questo sesto! «(...) perché si intromette dove non lo si vuole? Noi non lo conosciamo e non vogliamo accoglierlo fra noi. Certo, prima anche noi cinque non ci conoscevamo l'un l'altro, e, se si vuole, non ci conosciamo ancora l'un l'altro, ma ciò che è possibile per noi cinque, ed è sopportato, per quel sesto non è possibile e non è sopportato. Oltre a ciò, siamo cinque e non vogliamo essere sei».
«Siamo in cinque», viene ribadito, tanto più che è accaduto per caso, senza un significato originario, è successo e basta, e non c'è nemmeno alcun legame significativo, «non ci conoscevamo e continuiamo a non conoscerci». E allora, perché i cinque costituiscono una comunità? È così e basta. Autorità della realtà. Appiattimento del mondo che si svolge tranquillamente e ferocemente su un unico piano, quello che è: questa descrizione, così precisa, così esatta, non è neutra, agisce, fa ridere il lettore, che vede davanti a sé i cinque compatti tra di loro, che si consolano a vicenda, e allontanano (con il gomito, dice Kafka) quel sesto che cerca continuamente di tornare. Vediamo il gesto, è una gag, e da sotto le affermazioni perentorie e infantili quel che emerge è tutta la nullità delle "ragioni", la semplice constatazione per cui siamo in cinque e non vogliamo essere in sei. Autorità del vuoto.
«E, in generale, che senso deve avere questo stare continuamente in compagnia? Anche per noi cinque non ha alcun senso, però ora siamo già in compagnia e ci restiamo»; aggiunge Kafka. La realtà, in sé, non ha alcun senso. Siamo noi a darle un significato, che non è mai Il Significato, non è mai l’unico senso possibile. E qui il senso di questa Comunità, così amicale, è la volontà che hanno i cinque di rimanere tra di loro, e il rifiuto dell'altro. Punto.
E questo punto ci fa ridere, provoca la nostra ilarità. Ma ci fa ridere di una risata particolare, indignata e nervosa. Però anch'essa, la risata, non ha di certo la menzogna e l'impotenza del punto finale. Quello che si manifesta - improvvisamente, a fronte dell'affermazione autoritaria e vuota del «è così e basta» – è il fatto che fa ridere ma non diverte, nel momento stesso in cui lo riconosciamo per quel che è, per quanto tuttavia continui a sorprenderci: l'odio.
fonte:leslie kaplan
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