« Chiunque sciopera fa due esperienze in una: quella secondo cui è sempre bene difendersi, e quella a partire dal fatto che, anche se lo sciopero riesce, tutto quanto rimane in qualche modo come prima. Il fatto che si debba lavorare tutta la vita per guadagnare del denaro che ci permetta di vivere, è la suprema legge non scritta della società borghese. Secondo quello che è il consenso generale, il lavoro è come una sorta di natura, e chiunque abbia qualcosa in contrario viene considerato pazzo o pigro. Di solito entrambe le cose.
Non sempre, però, il lavoro è stato esaltato alla stessa stregua di come avviene oggi. Nell'antichità era arrivato persino ad avere una pessima reputazione. Ma poi, all'inizio dell'epoca moderna, ha ottenuto una consacrazione religiosa. Per il capitalismo, l'etica protestante del lavoro è stata come la culla. La borghesia, il movimento operaio e il nazismo hanno letteralmente glorificato il lavoro. Ma sebbene la cosa sfugga alla coscienza dominante, il lavoro e l'attività utile/sensuale/divertente sono due entità del tutto diverse. Né, ancor meno, il lavoro rappresenta un'opposizione "antagonista" al capitale. Al contrario, esso costituisce il principio formale dominante della società produttrice di merci, il cui punto di partenza e di arrivo non è la ricchezza materiale, l'unica cosa che ci fa vivere, bensì lo sfruttamento del valore fine a sé stesso. Gli individui che fanno parte di questa società devono contare sul fatto che il mercato attesti il valore del loro lavoro. È dal lavoro che essi traggono la loro identità. Sebbene la paura di diventare "inutili" (senza valore) e precipitare in tale baratro li accompagni per tutta la vita, queste condizioni sembrano a loro naturali e senza alternative. Se, secondo loro, nella società c'è qualcosa che non va, ne attribuiscono la responsabilità principalmente alla "cattiva politica"; senza neppure lanciare uno sguardo a quelli che sono i meccanismi di base dell'economia.
Se le crisi, la miseria, l'angoscia e le guerre si accumulano, per loro tutte queste cose non hanno nulla a che vedere con il dominio del lavoro, della merce, del valore, del mercato e del capitale, ma sono dovute a dei presunti fattori esterni. La loro ristretta visuale può pertanto trasformarsi rapidamente in un'ipotesi cospiratoria: allucinano l'esistenza di forze oscure, mosse da interessi nefasti e da intenzioni maligne, che vogliono colpirli. Il loro identificarsi con il "lavoro onesto" minacciato dalla "avidità" si scarica, nel peggiore dei casi, su un delirio di sterminio antisemita. Non a caso la perversa frase "Arbeit macht frei" (il lavoro rende liberi) è stata incisa sul cancello di Auschwitz. I nazionalsocialisti equiparavano "gli avidi" agli "ebrei". Ma anche chi non lo fa, può trovarsi pericolosamente vicino all'antisemitismo, senza esserne consapevole.
Oggi, diventa più necessaria che mai, una critica riflessiva del capitalismo, che si distingua sostanzialmente da quello che è il ventriloquo anticapitalismo dominante, il quale confonde la critica della società con la collera nei confronti degli "avidi banchieri", del "branco di bugiardi" e della "stampa che mente". Soprattutto perché tale critica parte dalla critica del lavoro, e può quindi assumere uno sguardo completamente diverso sulle cose: il vero scandalo non deriva dal fatto che l'enorme aumento di produttività a cui assistiamo non consenta a tutti di trovare un lavoro, ma consiste nel continuare a lavorare sempre di più e sempre più a lungo. Una vita migliore per tutti, con molto più spazio per lo sviluppo personale, sarebbe possibile già da tempo. Senza capitalismo. »
(da: Lothar Galow-Bergemann, "Labor Fetish and Anti-Semitism" )
fonte: https://www.krisis.org/
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