Sono gli anni Sessanta. L’Inghilterra è diventata una dittatura, governata da un politico astuto e spietato di nome Jobling. Tutti i non bianchi sono stati deportati, The English Times è l’unico giornale e la gente comune vive nel terrore del coprifuoco notturno e della polizia segreta. Richard Watt ha usato tutto il suo talento giornalistico per smascherare Jobling prima che salisse al potere. Ora in esilio in una fattoria nel caldo asfissiante della campagna italiana, Watt coltiva i suoi vigneti. Il suo remoto idillio rurale viene sconvolto dall’arrivo di un emissario del governo da Londra, ed è costretto a tornare a casa in un’Inghilterra che è diventata una dittatura fatiscente e squallida, per affrontare accuse inventate di irregolarità fiscali. Ma alcuni dubbi affiorano nella lettura del romanzo. Qual è la vita reale che Jobling nasconde? Riusciremo a scoprirla? E se lo faremo, vorremo fermarlo o semplicemente assecondare le sue menzogne?
(dal risvolto di copertina di: Derek Raymond, "Il dittatore inglese". Fanucci. pagg. 272 euro 16)
Attacco alla dittatura
- di Luca D’Andrea -
Il dittatore inglese (Fanucci editore, traduzione di Silvia Petrone) rappresenta l’incursione di Derek Raymond nel genere che oggi chiameremo distopico. Genere che può annoverare nobili autori del calibro di Bradbury e Wells a metà strada fra la fantascienza “morbida” e il pamphlet politico, il cui scopo è quello di far esplodere le contraddizioni della contemporaneità proiettandole nel futuro o, come in questo A State of Denmak (titolo tanto geniale quanto intraducibile) in un presente alternativo dai toni che definire cupi è un eufemismo.
Pubblicato per la prima volta nel 1964, quando l’autore ancora si firmava Robin Cook e non aveva scoperto la via per raggiungere la sua più feconda vena artistica, cioè quella del noir, Il dittatore inglese rappresenta il cupio dissolvi di un’era, quella della depressione economica post Seconda guerra mondiale in cui il popolo britannico, pur uscito vincitore da quella immane catastrofe, si ritrova con una sorta di “vittoria mutilata” nello spirito e nei cuori. Impoverito, spaesato e incarognito. E, come sempre quando parliamo del geniale autore di Il mio nome era Dora Suarez (vera e propria Bibbia non solo di un genere, ma pure compendio nichilista non adatto agli stomaci deboli), anche qui l’assoluzione e la catarsi sono lontani dall’essere presentati come da migliore tradizione hollywoodiana perché questo non è narrativa (proprio come non lo è 1984), ma è l’ammonimento di uno dei pesi massimi della letteratura novecentesca. E Derek Raymond sa dove e come colpire per metterti al tappeto.
Il protagonista de Il dittatore inglese, Richard Ward, è un giornalista in esilio che ha trovato nelle vigne toscane, e in Magda, la donna che ha imparato a vedere al di là della maschera da duro che Ward indossa, un equilibrio che somiglia molto alla pace. La prima parte del romanzo, ambientata in Italia, è questo: amore per un popolo che ha saputo fare della resistenza (anzi: della Resistenza) un fatto quotidiano, amore per un popolo ancora radicato alla terra, a tratti cinico, ma così scottato dalla recente ubriacatura del fascismo (è interessante la lettura che Raymond fa della nostra storia recente) da non riuscire a capire come mai la Gran Bretagna si sia fatta abbagliare dal partito della Nuova Pace e dal suo leader Jobling così simile allo Sbruffone che ipnotizzò l’Italia pochi decenni prima (e qui, sembra dirci Raymond, proprio come nei giochi di carte, l’unico che può tenere testa al Re è il Jolly, cioè il Buffone…). Nemmeno Ward riesce a spiegarselo, ma l’ascesa della Nuova Pace è il motivo per cui ha abbandonato Londra, dopo una serie di articoli al vetriolo mai pubblicati quando «ancora si poteva fare qualcosa». Ward sa che la sua pace è precaria perché i dittatori hanno memoria lunga. Così rimane invischiato nella tela del Nuovo Ordine Inglese, fatta di disinformazione (oggi le chiameremmo fake news), ridicole prove di forza fatte solo per ammansire chi ha bisogno di credere che il domani possa essere migliore dell’oggi e scherani kafkiani e crudeli che ricordano (non è un azzardo pensare che Il dittatore inglese sia stata fonte da cui trarre ispirazione) opere di larghissimo successo come V per vendetta di Alan Moore. Al contrario del fumetto comparso due decenni dopo, però, l’occhio di Raymond in questo Il dittatore inglese punta non sulla lotta o su chissà quale mirabolante tentativo di ribellione. Raymond ci parla della disperazione di chi, all’improvviso, si trova a vivere in un mondo in cui l’impossibile (una popolazione divisa per tessere colorate assegnate secondo impalpabili criteri di “fedeltà al partito”, campi di lavoro, mine sui confini, deportazioni di massa degli “indesiderabili”) è realtà. Se lotta c’è, è lotta per poter sperare, un giorno, di camminare a testa alta. Micro-ribellioni allo status quo che non possono non deprimere il lettore per quanto sono realistiche e futili. Micro-ribellioni che Raymond mette a confronto con quelle della Resistenza nostrana che appare, come è, gigantesca e sovrumana.
Il dittatore inglese è un libro cupo, anzi, cupissimo e proprio per questo ci porta ad affrontare una desolazione necessaria. Ward, come molti di noi, è un uomo di passioni e di cultura. Ha sempre creduto che libertà e cultura fossero sinonimi ma non sempre è così perché, alle volte, il paradigma in cui ci troviamo a vivere cambia all’improvviso e tutto ciò che credevamo giusto si trasforma in un’arma a doppio taglio. Si può uscire vivi da un romanzo di Derek Raymond? Sì. Basta saper leggere quanto il grande autore britannico ci regala, proprio all’inizio del libro, in un paragrafo che è un faro per chi si interroga sulla natura stessa della parola resistenza: a un cambio di paradigma non può e non deve corrispondere uno sradicamento dei valori.
«La conoscenza può essere un disastro, ma in tempi critici come questi non è una tragedia grande come l’ignoranza. Non ho scuse per essere ignorante con le mie pregresse conoscenze. Devo impegnarmi ad acquisire tutta la conoscenza possibile, altrimenti come posso stabilire una rotta e decidere cosa fare? La cosa peggiore di tutte è aspettare che qualcun altro ti dica cosa fare».
- di Luca D'Andrea - Pubblicato su Robinson del 7/2/2022 -
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