martedì 7 dicembre 2021

Il cantiere di Marx

L'ecologia di Marx alla luce di MEGA 2
- di Alain Bihr -

Da circa una trentina di anni, si sono moltiplicati gli studi volti a valutare la portata dell'opera di Marx (così come quella di Engels, ad essa strettamente legata) vedendola alla luce del tema e della problematica ecologica. Spronati dalla crescente consapevolezza della portata della catastrofe ecologica in cui siamo coinvolti e dall'urgenza di affrontarla, si è cercato di determinare se e in che misura questo lavoro fosse in grado di far luce sui pro e sui contro di una simile catastrofe, e di contribuire alla formulazione di risposte adeguate che ci permettessero di immaginare una via d'uscita. A questo proposito, sono due le tendenze emerse rapidamente. Per alcuni, non solo l'opera di Marx non avrebbe nulla da insegnarci in questo campo, ma anzi, qualsiasi pensiero seriamente interessato ad affrontare tale tema e tale problema avrebbe dovuto allontanarsene, poiché egli sarebbe rimasto intrappolato in un sorta di prometeismo che esalta in maniera sconsiderata la crescita delle forze produttive, facendone in tal modo una delle condizioni sine qua non del socialismo. Pertanto, avrebbe così aperto la strada a quella cecità che il movimento socialista (sia nella sua versione socialdemocratica che in quella del cosiddetto "socialismo reale") ha mostrato nei confronti delle dinamiche che hanno generato la catastrofe ecologica, avendo così una specifica quota di responsabilità a tal riguardo [*1]. Mentre per altri, al contrario, l'opera di Marx, adeguatamente valutata o rivalutata, non solo mostrerebbe una decisa sensibilità ecologica, ma aprirebbe anche delle prospettive originali sia per quanto riguarda la comprensione teorica delle radici della catastrofe ecologica, sia ai fini della formulazione di alcune proposte politiche per cercare di affrontarla [*2].
Kohei Saito sta chiaramente seguendo questa seconda strada, la quale si trova già ben tracciata [*3]. La sua originalità risiede però soprattutto nelle fonti di cui egli fa uso. Non si accontenta di ripercorrere nuovamente e ancora una volta quelli che sono i testi canonici di Marx. Ma attingendo a tutti i volumi della MEGA 2 già pubblicati [*4], in tal modo estende considerevolmente il corpus di riferimento a un certo numero di testi finora inediti di Marx; che si tratti della considerevole quantità di manoscritti che avevano preparato o accompagnato l'elaborazione della sua critica dell'economia politica, rimasta poi alla fine incompiuta con il Capitale, sia che si tratti della quantità ancora più grande di note di lettura e di note a margine che Marx aveva scritto sulle opere della sua biblioteca, e che lì erano rimaste conservate. I nuovi documenti aggiunti all'archivio, ci permettono di seguire meglio l'evoluzione del pensiero di Marx a proposito delle questioni relative all'ecologia. Esse gettano anche luce, più in generale, sul modo in cui Marx lavorava, e infine spiegano perché, lungi dall'averci lasciato un monumento teorico, ci abbia lasciato anche un vero e proprio cantiere, detto in ogni senso della parola. Sta a noi continuare a lavorarci.

Le prime intuizioni di partenza
A partire dall'autunno del 1843, allorché si stabilì a Parigi per approfondire quella critica della società civile borghese verso cui lo aveva portato la sua attività di giornalista presso la Rheinische Zeitung, insieme alla sua rilettura della filosofia del diritto di Hegel, Marx incominciò a leggere i principali economisti classici (a partire da Adam Smith e da David Ricardo), inaugurando così una linea di ricerca che lo avrebbe poi occupato per tutto il resto della sua vita. Ciò è dimostrato da tutta una serie di quaderni e di riflessioni che Marx scrisse in quel periodo, divenuti poi noti come i "Manoscritti del 1844" o "Manoscritti economico-filosofici".
Questi manoscritti presentano una grande densità teorica. In essi, Marx moltiplica delle formule brillanti, alcune non chiarissime, ancora segnate dall'eredità hegeliana, che vengono ora riviste facendo uso del prisma hegeliano-giovanile, in particolare quello di Ludwig Feuerbach. Per prima cosa, troviamo qui una concezione originale della relazione tra l'uomo e la natura, destinata a far luce su tutte le sue successive elaborazioni su questo tema. La natura viene qui definita come il «corpo non organico» dell'umanità.
«In pratica, l'universalità dell'uomo appare precisamente nell'universalità che fa di tutta la natura il suo corpo non organico, sia in quanto, in primo luogo, essa è un mezzo di sussistenza immediata, sia in quanto [in secondo luogo] è la materia, l'oggetto e lo strumento dell'attività vitale dell'uomo. La natura, vale a dire, quella natura che non è in sé stessa corpo umano, è il corpo non organico dell'uomo». [*5]
Tuttavia, fin dall'inizio, Marx segna la specificità di quell'unità di umanità e natura costituita dal lavoro. Poiché è solo a partire dalla mediazione del lavoro, attraverso la quella trasformazione della natura che il lavoro realizza, che l'umanità può trarne la sostanza della propria esistenza. In questi Manoscritti, ancora sotto l'influenza dell'hegelismo, Marx riferisce innanzitutto una simile specificità al carattere cosciente, e quindi volontario, riflessivo, finalizzato del lavoro; mentre, al contrario, la possibile attività trasformatrice della natura praticata dall'animale rimane imprigionata dal suo istinto e, di conseguenza, rimane circoscritta al cerchio ristretto dei suoi bisogni. Questo introduce una seconda differenza essenziale: mentre il lavoro animale è limitato a quest'ultimo e alla sua particolare ecosfera, il lavoro dell'uomo tende a diventare universale (espande costantemente la sua portata nella misura in cui esso genera costantemente nuovi bisogni): «L'attività vitale cosciente dell'uomo distingue l'uomo immediatamente dall'attività vitale dell'animale. [...]  L'animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno della specie, a cui appartiene, mentre l'uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l'uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza.» [*6]
Su questa base, fondamentalmente Marx rimprovera al capitalismo di aver rotto questa unità fondamentale e costituzionale tra l'umanità e il suo corpo inorganico, rendendo così la prima estranea al secondo e viceversa, introducendo in questo modo nelle loro relazioni una dimensione di alienazione. Quest'ultima si trova in definitiva ad avere le sue radici nell'espropriazione dei produttori: la loro separazione de facto e de jure dai loro mezzi di produzione, dalle condizioni oggettive di produzione dei loro mezzi di consumo, dalle condizioni materiali della loro sussistenza, la principale delle quali è la terra. Questa tesi emerge nel momento in cui Marx si propone di spiegare nei suoi quaderni la differenza tra la proprietà terriera feudale e quella capitalista. Un passaggio su cui Saito richiama giustamente l'attenzione (pagine 33-44), notando che per lo più è sfuggito all'attenzione dei commentatori di questi manoscritti [*7].
Nel quadro della proprietà feudale, i contadini si trovano schiavizzati: ridotti alla condizione di servi della gleba. La servitù della gleba viene definita a partire da un duplice legame: quello del servo della gleba alla tenuta di cui è parte integrante (in quanto tale, può essere venduto insieme alla tenuta): «il servo della gleba è l'accessorio della terra» (egli è adscriptus glebae, assegnato alla terra, secondo il diritto feudale); quello del servo della gleba al signore di questa tenuta rispetto alla quale egli è l'uomo di quel signore cui è legato da un rapporto di fedeltà, di dipendenza personale; ciò dà alla dominazione e allo sfruttamento feudale un'allure gemütlich, dice Marx [*8], al di là del suo carattere di rapporto brutale di potere. Il punto importante qui è che il produttore diretto (il servo della gleba) rimane legato alla terra in quanto mezzo di produzione; nella servitù della gleba, la terra rimane «il corpo non organico» del produttore, proprio come lo è allo stesso modo anche per il suo proprietario, il signore, il padrone; il quale appartiene al dominio non meno di quanto vi appartengono i suoi servi: è questo che fondamentalmente significa sua frazione di terra, di cui egli è barone, conte, marchese, duca, principe di..., quando non si chiama direttamente con il nome del dominio: così perciò, i Valois, i Guise, i Bourbon, gli Hapsburg, i Lancaster, gli York, ecc.
Questo è per l'esattezza ciò che manca al lavoratore salariato, agricolo o meno. Quest'ultimo è, per definizione, un «lavoratore libero». Egli è addirittura doppiamente «libero»: libero da ogni vincolo di dipendenza personale e comunitaria, e libero da ogni mezzo di produzione proprio. L'unica proprietà che gli rimane è la sua propria persona, le sue facoltà personali che costituiscono la sua forza-lavoro, di cui può disporre interamente come vuole: in questo senso, egli è un soggetto di diritto privato. Ma, di conseguenza, per ottenere i mezzi di sussistenza, non ha altra possibilità se non quella di mettere in vendita una tale forza-lavoro, sperando che poi qualcuno la compri da lui (in cambio di un salario), al cui servizio dovrà mettersi, generalmente allo scopo di aumentare il valore di un capitale, creando così più valore di quello della propria forza-lavoro. In altre parole, a differenza del servo della gleba, le sue condizioni di esistenza non vengono in alcun modo garantite dai rapporti di produzione in cui opera, ragion per cui possono benissimo contarlo e trattarlo come se fosse un superfluo «inutile al mondo». Nel regime capitalista, di conseguenza, il produttore non ha più alcun rapporto diretto con la terra come mezzo di produzione e riproduzione della propria esistenza, con la terra come «corpo non organico», anche quando egli è un salariato agricolo. In quest'ultimo caso, produce i suoi mezzi di sussistenza solo in maniera accidentale, e marginalmente: qui la terra non è altro che un mezzo di valorizzazione del capitale che è stato investito in agricoltura. Inversamente, allo stesso tempo in cui questo mezzo di produzione che è la terra è stato separato dalla persona che lo lavora, esso si trova anche separato dal capitale, e può in tal modo diventare una merce a tutti gli effetti, da comprare e vendere per tutti gli scopi possibili, sia come mezzo di produzione che come mezzo di consumo (oggetto di godimento per il suo proprietario o possessore). L'insieme di tutti questi temi e tesi, vanno a costituire un fondo teorico che continuerà ad alimentare il pensiero di Marx, ben oltre i Manoscritti del 1844. Li ritroviamo anche in riferimento alle sue opere mature, allorché sviluppa la sua critica all'economia politica. Per esempio, nel seguente passaggio dei famosi Grundrisse (1857-1858) dove sembra ripetere, termine per termine, quanto scritto in precedenza: «Non è l’unità degli uomini viventi e attivi con le condizioni naturali inorganiche del loro ricambio materiale con la natura, e per conseguenza la loro appropriazione della natura, che ha bisogno di una spiegazione o che è il risultato di un processo storico, ma la separazione di queste condizioni inorganiche dell’esistenza umana da questa esistenza attiva, una separazione che si attua pienamente soltanto nel rapporto tra lavoro salariato e capitale. Nel rapporto  di schiavitù e di servitù della gleba, questa separazione non avviene; bensì una parte della società viene essa stessa trattata dall’altra come mera condizione inorganica e naturale della propria riproduzione.» [*9] Anche qui, la rottura dell'unità costituzionale tra umanità e natura, cioè la separazione tra l'essere umano, la natura soggettivizzata, e il suo corpo inorganico, condizione oggettiva della sua esistenza e attività lavorativa, viene indicata da Marx come la caratteristica principale dell'universo capitalista e la condizione stessa della formazione del capitale che gli serve da base e cornice.

Marx nei confronti di Liebig
Tuttavia, Marx non si accontentava affatto di ripetere queste formule ad nauseam. Al contrario, ha cercato di verificarle, confrontandole con le scienze positive del suo tempo. Ciò gli permetterà  così di arricchirle con nuove conclusioni, ma lo costringerà anche a sfumarle e a rettificarle in parte. Tutto questo lavoro teorico marxiano viene meticolosamente esaminato e riportato da Saito.
Il suddetto passaggio dei Grundrisse, impiega pertanto una nuovo concetto ancora sconosciuto al Marx dei Manoscritti del 1844, quello dello scambio di sostanze tra l'uomo e la natura, che traduce letteralmente il tedesco Stoffwechsel. Altri traduttori, tra cui Billy, hanno optato piuttosto per il termine metabolismo, che probabilmente è assai più fedele alle origini del termine. Il concetto di metabolismo è preso in prestito dalla biologia, forse più precisamente anche dalla fisiologia. In seno a quest'ultima, designa, da un lato, il sistema di scambi di sostanze diverse tra tutte le parti di un organismo vivente (vegetale, animale o umano), scambi mediante i quali tale organismo si rigenera in maniera permanente, mantenendo il proprio ordine interno (si tratta del metabolismo interno); dall'altra parte, gli scambi che ogni organismo vivente è obbligato a realizzare con quello che è il suo ambiente di vita (il suo biotopo), e per mezzo dei quali prende da esso le sostanze necessarie al suo funzionamento come organismo vivente, e rigetta i vari prodotti di scarto risultanti da questo funzionamento (questo è il metabolismo esterno). Metabolismo esterno e metabolismo interno sono quindi strettamente legati: il primo fornisce al secondo le sostanze che - o direttamente o dopo trasformazione - vengono assimilate dall'organismo per mantenere la sua vita, nel mentre che allo stesso tempo è responsabile dell'eliminazione dei suoi sottoprodotti (rifiuti).
Sembra che il concetto sia stato introdotto nella fisiologia negli anni 1800-1810, prima di entrare poi nell'uso comune negli anni 1840; in particolare dopo la pubblicazione da parte del chimico tedesco Justus von Liebig (1803-1873) di due grandi opere, "Die Chemie in ihrer Anwendung an Agriculturchemie und Physiologie" (La chimica applicata all'Agricoltura e alla Fisiologia) (1840), e "Die Chemie in ihrer Anwendung auf Physiologie und Pathologie" (La chimica applicata alla Fisiologia e alla Patologia) (1842) , con cui pose le basi della chimica organica e della biochimica. Appoggiandosi ai quaderni di Marx e alle letture del suo primo periodo londinese, Saito (pagine 71-80) stabilisce che è alla lettura, avvenuta all'inizio del 1851, del manoscritto del "Mikrocosmos. Entwurf einer physiologischen Anthropologie" (Microcosmi. Un saggio sull'Antropologia fisiologica) di Roland Daniels - medico di Colonia, il quale era anche membro della Lega Comunista (manoscritto che egli stesso gli aveva inviato per avere un suo parere critico) - che Marx deve l'uso del concetto di metabolismo. E fu questa stessa lettura che nei mesi successivi lo portò a interessarsi al lavoro e alle pubblicazioni di Liebig; mesi durante i quali durante i quali lesse e annotò la quarta edizione di "Die Chemie in ihrer Anwendung an Agriculturchemie und Physiologie" (1842). Da allora in poi, il termine diventerà parte integrante della sua stessa concettualità, come dimostrano i Grundrisse, in cui il termine viene ripreso da Marx una ventina di volte per designare sia gli scambi materiali all'interno della società (metabolismo sociale) che gli scambi materiali all'interno della natura (metabolismo naturale); così come gli scambi materiali tra l'uomo e la natura (Saito: 80-85). Ed è quest'ultimo metabolismo che viene interrotto dal capitale, rompendo l'unità immediata dell'umanità con il suo corpo inorganico. Tuttavia, Liebig non viene mai citato, il che suggerisce che - pur avendo in parte accolto il suo contributo - Marx non gli aveva ancora accordato l'importanza che avrebbe assunto in seguito. Ci sono vari indizi che testimoniano che Marx avesse ripreso la lettura di Liebig, e più precisamente "Die Chemie..." pubblicato nel 1862 (Saito: 176-177 e 181-184), tra la metà del 1863 e la metà del 1865, allorché stava scrivendo una versione primitiva dell'intero Capitale, senza dubbio in relazione alla sua teoria della rendita fondiaria [*10]. E che questa volta, tale (ri)lettura avrà un impatto decisivo. Cerchiamo di determinare ora ciò che Marx ne ha tratto.
Liebig pone le basi della biochimica della crescita delle piante, mostrando come ciò sia condizionato non solo da elementi o da composti organici (ad esempio azoto, anidride carbonica) ma anche da dei composti inorganici (ad esempio sali minerali), i primi dei quali possono essere forniti dall'atmosfera (aria o pioggia) mentre i secondi possono derivare solo dalla decomposizione chimica del suolo. Nelle prime edizioni dell'opera precedente, egli aveva stabilito due leggi fondamentali che governano questa crescita. Una legge del minimo: un terreno deve contenere una quantità minima di tutti questi nutrienti, organici e inorganici, per essere fertile. E una legge di restituzione: le sostanze nutritive di cui la crescita delle piante tende a privare il suolo devono in qualche modo essere restituite al suolo se si vuole che rimanga fertile e che le rese siano sostenibili; altrimenti, il suo sfruttamento può essere solo predatorio, condannando così il suolo alla decadenza (Saito: 176-188). Su tale base, nella quarta edizione della sua opera principale (1842), quella a cui Marx aveva lavorato all'inizio degli anni 1850, Liebig suggerisce chiaramente che l'agricoltura razionale, rispettando alcuni principi - la pratica del maggese o della rotazione delle colture, compresa l'introduzione del trifoglio, l'uso di fertilizzanti naturali (ceneri, ossa, escrementi animali) destinati a restituire al suolo i suoi nutrimenti inorganici, in attesa di possibili fertilizzanti artificiali in grado di sostituirli, ecc - è in grado di mantenere intatta la fertilità del suolo, e persino di accrescerla. E se menziona il fenomeno della diminuzione dei rendimenti agricoli in Europa, è per imputarne la responsabilità alla negligenza dei principi di cui sopra (Saito: 219-221). Con simili premesse, l'inversione compiuta da Liebig nella settima edizione di Die Chemie..., che Marx legge tra il 1863 e il 1865, è ancora più sorprendente. Questa inversione lo porta a formulare una sorta di terza legge - che si potrebbe chiamare la legge del massimo in opposizione alla legge del minimo - che gli fa voltare radicalmente le spalle rispetto ala direzione che aveva intrapreso solo pochi anni prima. Egli spiega che il rendimento (la produttività) di un terreno non può essere aumentato indefinitamente in proporzione agli apporti aggiuntivi di lavoro (drenaggio, condizionamento del terreno, irrigazione, ecc.), di acqua, luce solare, calore, fertilizzanti, ecc, Ciò semplicemente perché i nutrienti necessari che possono essere forniti a un terreno (a un dato volume di esso) sono essi stessi limitati nella quantità, per esempio a causa dei limiti della sua scomposizione chimica, e soprattutto perché le piante sono in grado di assorbire solo una quantità limitata di questi nutrienti, attraverso le loro foglie o radici in un dato tempo (una stagione, per esempio). Al di là di questo limite, qualsiasi apporto aggiuntivo può al massimo produrre solo dei risultati positivi temporanei, che poi saranno pagati con il successivo impoverimento del suolo, a causa del mancato rispetto finale della legge di restituzione (Saito: 230-239). In tal modo Marx si approprierà in gran parte delle diverse leggi stabilite da Liebig, almeno inizialmente. Le prime due gli permetteranno di chiarire e approfondire la nozione di perturbazione metabolica che, fin dai Manoscritti del 1844, caratterizza ai suoi occhi la produzione capitalista. Nell'ultima sezione del capitolo XIII del libro I del Capitale, egli denuncia gli effetti sociali, ma anche ecologici dell'introduzione del capitale nell'agricoltura. A cominciare dal fatto che rovinando i piccoli agricoltori, ma anche riducendo il numero (relativo) di lavoratori agricoli, l'agricoltura capitalista spopola le campagne e gonfia le città. In questo modo, interrompe il metabolismo ancestrale tra l'uomo e la natura, che permetteva al primo di restituire alla seconda, sotto forma di rifiuti (detriti delle sue attività) e scarti (i propri escrementi e quelli del bestiame e degli animali da tiro), ciò che le sottraeva sotto forma di sostanze nutritive attraverso la pratica agricola: «Con la preponderanza, sempre crescente, della popolazione urbana che si ammassa in centri mostruosi e malsani, la produzione capitalistica da un lato accumula la forza motrice storica della società, dall’altro sconvolge il ricambio organico fra l’uomo e la terra, ossia la restituzione al suolo degli elementi costitutivi della fertilità e degli elementi chimici, consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari, di vestiario e di altro, e quindi turba la condizione naturale ed eterna di una fertilità duratura del suolo.» [*11]
Conseguentemente, denuncia il modo in cui questa agricoltura, pur aumentando inizialmente la produttività del lavoro agricolo, finisce per esaurire il suolo e compromettere la sua fertilità, danneggiando così questa stessa produttività: «[...] ogni progresso dell’agricoltura capitalistica è un progresso non solo nell’arte dello sfruttamento dell’operaio, ma anche nell’arte della depredazione del suolo. E ogni progresso nell’arte dell’accrescimento della fertilità del suolo in un dato periodo di tempo costituisce, nel periodo successivo, un progresso nella rovina delle fonti durevoli di fertilità del suolo. Quanto più un Paese, p. es. gli Stati Uniti d’America, parte dalla grande industria, come base e sfondo del suo sviluppo storico, tanto più rapido è questo processo di distruzione.» [*12]
È pertanto la stessa logica predatoria a presiedere sia allo sfruttamento della forza lavoro umana sia allo sfruttamento del suolo, e più in generale delle risorse naturali, queste due fonti di ogni ricchezza sociale, questi due fattori fondamentali del metabolismo tra l'umanità e la natura: « In conclusione, la produzione capitalistica sviluppa l’innovazione tecnologica e, con essa, la combinazione dei fattori del processo di produzione sociale, ma solo con la lenta consunzione o con l’esaurimento, al contempo, delle fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e il lavoratore». [*13]
Marx denuncia quindi l'attuazione, da parte del capitale nel suo rapporto con la terra, di quella stessa logica mortale che aveva denunciato, nel capitolo VIII di questo stesso libro, parlando del rapporto del capitale con la forza-lavoro: «La produzione capitalistica, che è essenzialmente "produzione di plusvalore", estorsione di pluslavoro, produce quindi, con il prolungamento della giornata lavorativa, non soltanto il deperimento della forza di lavoro umana, che deruba delle sue condizioni normali, morali e fisiche, di sviluppo e di auto-esplicazione, ma produce anche il precoce esaurimento e la prematura estinzione della forza di lavoro stessa. Essa prolunga il tempo di produzione dell’operaio, per un certo periodo, mediante l’accorciamento del suo corrispondente tempo di vita». [*14] In questo modo, fu la terza legge di Liebig che convinse Marx ad aderire alla tesi della diminuzione dei rendimenti agricoli. Questa era stata formulata nella seconda metà del XVIII secolo da vari autori sulla base della loro osservazione dell'evoluzione dell'agricoltura inglese, e poi ripresa da David Ricardo nella sua teoria della rendita fondiaria, sviluppata nei suoi "Principi di economia politica e di tassazione" (1815). Secondo Ricardo, i rendimenti agricoli non possono che diminuire e, di conseguenza, i prezzi di mercato dei prodotti agricoli aumentano e, insieme a essi, la rendita agricola, per due motivi. Da un lato, con lo sviluppo dell'agricoltura, per soddisfare l'aumento della domanda (legata a quello della popolazione), i produttori agricoli sono costretti a ricorrere a terre sempre meno fertili; dall'altro, il rendimento di un dato pezzo di terra non aumenta mai in proporzione diretta all'aumento del capitale (e quindi in definitiva del lavoro, sia morto che vivo) investito in esso per migliorarne la produttività.
Fino ai Manoscritti del 1861-1863, Marx era sempre stato piuttosto riluttante, se non proprio ostile, all'adozione della seconda parte di questa tesi (Saito: 165-176). In assenza di un fondamento scientifico, ai suoi occhi essa non era altro che un'ipotesi, ancor meno accettabile a partire dal fatto che faceva il gioco della teoria ricardiana della rendita fondiaria; e, soprattutto, del suo nemico giurato: Thomas Malthus e la sua legge della popolazione. Cosa che traspare chiaramente in una lettera a Engels del 14 agosto 1851: «Più progredisco in questo maledetto argomento, più mi convinco che la riforma dell'agricoltura, e quindi anche quella bastarda proprietà di cui essa è la base, sarà l'alfa e l'omega di tutto lo sconvolgimento che è in arrivo. Senza quella, a vincere sarà Padre Malthus». (Saito: 219).
In aperto contrasto con la tesi delle rendite decrescenti, Marx esprimeva chiaramente la sua convinzione secondo cui un'agricoltura razionale, basata sulla proprietà collettiva del suolo e sull'applicazione metodica dei risultati della scienza agronomica (raccomandando il drenaggio, l'aerazione e l'approvvigionamento del suolo, l'irrigazione, la rotazione delle colture, l'uso di fertilizzanti naturali o artificiali, ecc.) poteva fare sperare in un costante miglioramento delle rendite agricole, perfino in una crescita indefinita della produttività del lavoro agricolo, simile a quella del lavoro manifatturiero. E su questo aveva cercato e trovato spunti di riflessione in vari autori che aveva letto, tra cui lo stesso Liebig (Saito: 209-224). Fu la lettura della settima edizione del capolavoro di Liebig che lo convinse a cambiare la sua posizione, assumendo le conseguenze, per così dire, dell'inversione attuata dallo stesso Liebig. Ora, Marx poteva adottare la tesi delle rendite decrescenti, dal momento che essa poteva essere scientificamente basata sulle leggi fisiologiche del regno vegetale, e che né la meccanica né la chimica erano in grado di abolire o di superare. Fu da quel momento in poi che Marx poté integrarlo nella sua teoria della rendita agraria, facendone la base della rendita differenziale II.
Più in generale e più radicalmente, la terza legge di Liebig avrebbe convinto Marx che ci sono dei limiti assoluti alla modifica antropologica (tecnica e scientifica) della natura, ai quali gli uomini non possono sottrarsi. Questo implica la rottura con ogni prometeismo ingenuo: con ogni desiderio sconsiderato di dominare la natura, con ogni adorazione della crescita cieca delle forze produttive sociali, ecc. Bisogna pertanto rinunciare al progetto di un dominio totale e assoluto della natura, il quale non può essere altro che una fantasia, e ridurlo solo a ciò che è compatibile con le leggi naturali e con i limiti che esse impongono all'umanità.
È questo ciò che Marx chiarisce nel passaggio dei manoscritti del 1863-1865, e che Engels ha utilizzato per modificare la sua versione del Libro III del Capitale. In esso, Marx afferma risolutamente la necessità di un rapporto razionale tra società e natura basato sulla dialettica tra necessità e libertà; un rapporto questo, che può essere realizzato solo nel contesto di una società emancipata dai rapporti capitalistici di produzione:
« Allo stesso modo in cui l'uomo primitivo deve lottare contro la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. È al di là di esso che comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò, è la riduzione della giornata lavorativa.» [*15]
Mentre sotto il regime capitalista il metabolismo tra l'umanità e la natura sfugge al controllo dei produttori (capitalisti e salariati) e li domina come un potere alieno, alienato e alienante allo stesso tempo, poiché procede nonostante tutto dalle loro stesse attività produttive, il compito dei produttori associati in una società comunista è quello di regolare coscientemente e razionalmente il loro metabolismo con la natura, il che implica, tra l'altro, controllare il loro dominio sulla natura in modo tale da renderlo compatibile con i limiti che impone loro la Terra, e la loro indissolubile dipendenza da essa. Nell'ordine delle loro relazioni con la natura, l'unica libertà che gli uomini possono conquistare consiste in questo controllo razionale, così come nella riduzione del tempo di lavoro, resa possibile dal progresso della produttività del lavoro, che sarà diventato il fine prioritario. Per quanto decisivi possano essere stati i contributi dati da Liebig a Marx, quest'ultimo non si sarebbe accontentato di essi. Il passaggio citato sopra, dal capitolo XIII del libro I del Capitale, si conclude con una nota in cui Marx rende un accorato omaggio a Liebig pur mantenendo una certa distanza critica da lui: «La spiegazione del lato negativo e distruttivo dell’agricoltura moderna, ovvero la spiegazione [della fertilità decrescente del suolo] dal punto di vista delle scienze naturali, è uno dei meriti immortali del prof. Liebig [(V. KARL MARX,  Lettera a Friedrich Engels, 3 gennaio 1868)]. Anche i suoi «aperçus» [«compendi»] di storia dell’agricoltura sono in qualche punto illuminanti, benché non esenti da grossolani errori. Talvolta, in modo deplorevole, si lancia in affermazioni azzardate, come la seguente: «Una polverizzazione più completa e un’aratura più frequente favoriscono la circolazione dell’aria all’interno delle parti porose del suolo, e aumentano e rinnovano la superficie delle parti del suolo sulle quali l’aria stessa deve agire. Ma è facile intuire che l’aumento del rendimento del suolo non può essere direttamente proporzionale al lavoro applicato al campo, al contrario aumenta in proporzione molto minore.» [*16] Il resto della nota mostra che non è tanto la terza legge di Liebig che Marx intende contestare, quanto la garanzia scientifica che quest'ultimo conferisce a John Stuart Mill, che era tra gli amici di Liebig ma che Marx considerava un economista di seconda categoria, e, ancora di più, alla sua nemesi, Malthus, entrambi i quali non facevano altro che ripetere ciò che economisti molto più illustri avevano già affermato prima di loro. Tuttavia, la distanza critica da Liebig, segnata qui da Marx sulla questione dei rendimenti decrescenti, e quindi della tendenza ad esaurire il suolo sotto gli effetti dell'agricoltura intensiva, suggerisce che la questione non era allora definitivamente decisa per lui; e segna una certa ambivalenza persistente della sua posizione rispetto a tale questione.

Il successivo incontro con Fraas
Effettivamente, fin dalla pubblicazione del primo libro del Capitale, Marx intendeva approfondire tutte queste tematiche, e in particolare intendeva farlo per ravvivare la sua teoria della rendita fondiaria, di cui avrebbe dovuto occuparsi nel libro III. Una lettera di Marx a Engels del 3 gennaio 1868, attesta il suo interesse per una serie di opere che contestano le tesi di Liebig, tra cui quella di Carl Fraas (Saito: 263). Nei mesi successivi, Marx sarebbe venuto a conoscenza di un certo numero di questi lavori, in particolare di quelli di Friedrich Albert Lange, di Julius Au e di Carl Fraas; e, mentre prestò poca attenzione ai primi due (Saito: 269-273), finì per attribuire una grande importanza al terzo, come dimostra Saito nell'ultimo capitolo del suo libro.
Carl Fraas (1810-1875) era un botanico e agronomo bavarese. Dopo aver ottenuto un dottorato in botanica all'Università di Monaco (1830), venne nominato direttore dei Giardini della Corte di Atene (1835) e l'anno successivo divenne professore di botanica all'università di Atene. Nel 1842 divenne professore alla Scuola Centrale di Agricoltura di Schleissheim, in Austria, e nel 1847 ebbe la nomina di professore di agronomia all'Università di Monaco. Delle molte pubblicazioni di Fraas, sembra che Marx, nell'inverno del 1868, a giudicare dai suoi taccuini di lettura dell'epoca (Saito: 273), abbia letto "Klima und Pflanzenwelt in der Zeit" (Clima e vegetazione attraverso i secoli) (1847), "Geschichte der Landwirtschaft" (Storia dell'agricoltura) (1852) e "Die Natur der Landwirtschaft" (La natura dell'agricoltura) (1857). La sua biblioteca conteneva anche copie di "Historisch-encyklopädischer Grundriss der Landwirthschaftslehre" (1848) e "Das Wurzelleben der Cultur-pflanzen" (1872); il che indica che Marx continuò a interessarsi di Fraas anche oltre il 1868 (Saito: 274). D'altra parte, contrariamente a quanto suggerisce Saito (2021: 276), Marx non sembra essere stato a conoscenza di "Die Ackerbaukrisen und ihre Heilmittel" (1866): visto che non ne fa menzione nei suoi quaderni, né quel libro era presente nella sua biblioteca.
In effetti, fino a oggi, ad esser noto, c'è solo un riferimento di Marx a Fraas; ed è presente in una lettera scritta a Engels del 25 marzo 1868. Si riferisce specificamente a "Klima und Pflanzenwelt..." ed è quanto segue ciò che dice in sostanza: «Egli [Fraas] afferma che la coltivazione causa la perdita - più o meno a seconda del suo sviluppo - quella "umidità" così tanto apprezzata dai contadini (ed è ciò che fa migrare le piante dal sud al nord) e che poi finisce per lasciare il posto alle steppe. All'inizio, la coltivazione ha un effetto utile; ma alla fine la desertificazione dovuta alla deforestazione, ecc. [...] Il risultato finale consiste nel fatto che la coltura - nel caso in cui progredisce spontaneamente e non viene padroneggiata in maniera consapevole (ma naturalmente egli è un borghese, per cui l'idea non gli viene nemmeno in mente) - si lascia alle spalle i deserti, la Persia, la Mesopotamia, ecc., e la Grecia [...] Ad essere importanti, è anche la sua storia dell'agricoltura. Pertanto, anche da quella parte, inconsciamente, una tendenza socialista! [...] Bisogna andare a guardare più da vicino quali sono gli ultimi sviluppi riguardo l'agricoltura. La scuola dei fisici si scontra con la scuola dei chimici» (Saito: 274).
Queste poche osservazioni dimostrano che Marx aveva colto rapidamente ciò che si trova al centro della problematica di Fraas, vale a dire, la relazione tra vegetazione e clima, come indica il titolo del libro a cui egli si riferisce. Più precisamente, egli sottolinea due delle sue principali tesi su questo argomento. Per prima cosa, Fraas considera che è il clima a giocare il ruolo principale nello sviluppo della vegetazione, e quindi dell'agricoltura. Egli propone un approccio "fisico" (o atmosferico) ai problemi della crescita delle piante, sottolineando l'importanza di fattori quali il calore e l'umidità, le precipitazioni e il deflusso, la siccità, il vento, ecc.; in contrasto con l'approccio "chimico" (o pedologico) sviluppato sia da Liebig (che riteneva i nutrienti inorganici il fattore decisivo) che dai suoi avversari (assegnando ai nutrienti organici, in primo luogo all'azoto, il ruolo principale). In secondo luogo, e al contrario, secondo Fraas, l'agricoltura è in grado di sconvolgere il clima, e di solito lo fa nella direzione della sua evoluzione verso l'aridità e il calore (soprattutto sotto l'effetto del disboscamento che mette in atto); il che non manca di avere un impatto sulla vegetazione, favorendo così la sua steppizzazione, e di conseguenza l'effetto di degradare le condizioni per lo sviluppo dell'agricoltura stessa. Fraas concorda qui con la tesi di Liebig, ma mette in relazione una tale tendenza, alla degradazione non attraverso l'esaurimento del suolo (dovuto al mancato rispetto della legge di restituzione e ai limiti del contributo compensativo dei fertilizzanti artificiali), ma a causa di una trasformazione del clima, e sia che questa trasformazione avvenga sotto l'effetto dello sviluppo dell'agricoltura stessa sia che avvenga naturalmente. Studiando da vicino i quaderni e le sue osservazioni scritte a margine, Saito è stato così in grado di chiarire ciò che interessava maggiormente a Marx del lavoro e dei risultati di Fraas in relazione all'agronomia.

-   Marx annota con interesse che, secondo Fraas, il suolo può rigenerarsi spontaneamente e mantenere la sua fertilità senza apporti esterni (senza fertilizzanti) o, nei climi caldi e umidi (per esempio nei tropici o sub-tropici), con un minimo di apporti, poiché le rocce che compongono il suolo si disintegrano più facilmente (Saito: 278). In definitiva, i fertilizzanti sono solo dei sostituti climatici: essi compensano l'assenza di condizioni climatiche favorevoli. Quando le piante vengono coltivate nelle condizioni climatiche più favorevoli, diventano inutili. Non c'è quindi nessuna inevitabilità dell'impoverimento del suolo dovuto all'agricoltura, come pensava Liebig. Per esempio: «I cereali sono dunque, a seconda del grado di esigenza che hanno rispetto alla clemenza del clima, piante che esauriscono il suolo nella zona temperata fredda, e lo fanno con mais, doura, frumento, orzo, segale, avena, e lo sono meno i legumi e il grano saraceno, e per niente le varie specie di trifoglio, le nostre erbe, gli asparagi, etc. Nella zona temperata calda, le piante che esauriscono il suolo sono quelle più importanti. Nella zona temperata calda, i cereali e le leguminose non impoveriscono più il suolo, con l'eccezione del mais, del riso e della doura, e non lo fa quasi più il tabacco, il quale viene già spesso coltivato senza fertilizzante» (Saito, 2021: 279-280).

- Questo suggerisce che il metabolismo naturale (scambi all'interno della natura, indipendenti dall'intervento umano) è in grado di risolvere da solo il problema dell'impoverimento del suolo e, di conseguenza, il problema del calo delle rendite. In altre parole, secondo Fraas, l'agricoltura sostenibile è possibile senza l'intervento umano, lasciando che la natura faccia da sola il suo lavoro, purché essa operi nelle condizioni necessarie alla crescita della pianta coltivata. In tal modo: «conosciamo paesi di antica civiltà come la Grecia o l'Asia Minore, che continuano a ottenere raccolti apprezzabili nei loro campi senza alcun fertilizzante, anche se, con i fertilizzanti, lo sarebbero ancora di più, come stanno già ottenendo qua e là con l'irrigazione [...] la fertilità dei campi dei cinesi, che rimpiazzano i componenti di cui si sono impossessati (il che può essere vero solo nel caso in cui non esportano i prodotti del suolo senza importarne degli equivalenti), è aumentata costantemente con l'aumento della popolazione» (Saito: 280-281).

-   Tra gli elementi del metabolismo naturale che possono rimediare all'impoverimento del suolo, Fraas menziona l'alluvione (limo, sabbia, ghiaia, ciottoli, ecc.) causati dai fiumi durante il deflusso e le inondazioni, che ricostituisce e mantiene la composizione minerale dei suoli coltivati. Ecco perché le pianure alluvionali, gli estuari e i delta sono particolarmente fertili. Questo portò Fraas a raccomandare un apporto artificiale di alluvione attraverso l'intermediazione di tutta un'infrastruttura di serbatoi e di canali d'irrigazione, sfruttando in tal modo un processo naturale di rigenerazione del suolo. Questo tema è già presente in "Natur der Landwirtschaft", che viene notato da Marx, ma su cui Fraas poi tornerà insistentemente in "Die Ackerbaukrisen und ihre Heilmittel", facendone l'argomento centrale della sua polemica contro Liebig. In breve, per rimediare alla tendenza all'impoverimento del suolo causata dalla coltivazione in condizioni climatiche meno favorevoli, Fraas propone una sorta di cooperazione tra l'uomo e la natura; in altre parole, una «agricoltura di rigenerazione naturale» che segua un percorso aperto dalla natura stessa, cosa che suscita la piena attenzione di Marx (Saito: 284-288). In questo modo, possiamo sperare di sfuggire alla fatalità dell'esaurimento del suolo e, di conseguenza, anche a quella della diminuzione delle rendite, e quindi allontanare così definitivamente lo spettro di Malthus.

-   Infine, Marx ha annotato o evidenziato un certo numero di passaggi in "Klima und Planzenwelt..." in cui Fraas sottolinea l'importanza della deforestazione (consecutiva all'estensione della coltivazione del suolo ma anche resa inevitabile fino a quando il legno sarebbe rimasto, sia il quasi unico combustibile che uno dei principali materiali a disposizione dell'artigianato e della proto-industria nelle società precapitaliste) vista come fattore di modifica del clima e del conseguente degrado delle condizioni dell'agricoltura, spiegando in tal modo la regressione della civiltà che ebbe luogo in Mesopotamia, in Palestina, in Egitto e in Grecia (Saito: 293-298).

Per il momento, in attesa della loro pubblicazione, è impossibile sapere cosa, in definitiva, Marx se ne sia fatto dei contributi di Fraas alla scienza agronomica che egli annotava nei suoi ultimi manoscritti; oltre al fatto che lo spinsero ad ampliare e ad approfondire i suoi studi su tutta la gamma di tali questioni. Ed è rischioso, e probabilmente in parte inutile, speculare su che cosa avrebbe potuto fare con loro se gli fosse stato dato il tempo di completare la stesura del Capitale. Tuttavia, si può supporre che Marx avrebbe mantenuto la lezione generale di Fraas, vale a dire che, attraverso la sua azione sulla vegetazione, l'agricoltura, e più in generale l'industria umana possono apportare cambiamenti significativi nel clima; agricoltura, la quale è suscettibile di reagire negativamente alle proprie condizioni di produzione e, ancora più in generale, alle condizioni dello sviluppo umano. Marx avrebbe pertanto identificato le modificazioni climatiche che il lavoro umano può provocare, fino ad arrivare a danneggiare l'umanità, come se si trattasse di una nuova declinazione di perturbazione metabolica la quale si aggiunge a quella costituita dall'impoverimento dei suoli a causa della loro sconsiderata coltivazione intensiva. E non è necessario sottolineare quanto sia attuale questo insegnamento di Fraas nel contesto del riscaldamento globale che stiamo vivendo.
Marx avrebbe probabilmente anche concluso che l'azione umana sulla vegetazione (specialmente la deforestazione), deve essere condotta con cautela e a partire da una riflessione sulle sue conseguenze. Ma, nella stessa ottica, Marx avrebbe probabilmente anche conservato, di Fraas, l'idea che la soluzione dei problemi agronomici (per esempio, per assicurare la permanenza della fertilità naturale del suolo, o anche per migliorarla) e, più in generale, ecologici possa e deve essere cercata non nella forzatura della natura (e quindi nella radicalizzazione di un rapporto puramente strumentale con essa) ma nella cooperazione con essa: si tratta piuttosto di lavorare con la natura che contro di essa [*17] Ciò perché in definitiva si lavora sempre nella natura quando si lavora su di essa, rimanendone sempre dipendenti da essa e subendo le conseguenze impreviste e dannose delle modifiche che il lavoro umano le apporta, semplicemente perché l'umanità è e rimane parte integrante della natura, la quale continua a rimanere il suo «corpo non organico».
Ed è forse in questo senso che, nella lettera a Engels citata sopra, Marx ha potuto identificare una «tendenza socialista inconscia» in Fraas. Quest'ultimo avrebbe indicato, in un certo senso, qual era la via da seguire per un'agricoltura razionale, condotta in modo da controllare i suoi effetti ecologici, e sulla base delle conoscenze scientifiche che se ne possono trarre. In questo modo avrebbe colto ciò che, secondo Marx, il socialismo deve consapevolmente proporre a se stesso, in linea con il passo del Libro III del Capitale citato sopra: la padronanza (o regolazione) del metabolismo tra l'umanità e la natura mediato dal lavoro sociale, sulla base della proprietà collettiva del suolo e dell'associazione dei produttori, agendo in modo riflessivo (cioè, sia prudentemente che scientificamente istruito) sulla e nella natura, secondo un piano concertato.

Marx oltre Marx [*18]
La lezione generale che si può trarre dall'opera di Kohei Saito può essere riassunta in questa formula, a condizione che essa venga intesa in un doppio senso. In primo luogo, come fa Negri per i Grundrisse, Saito stabilisce ancora una volta che prendere in considerazione le opere inedite di Marx ci permette di scoprire dei nuovi aspetti del suo pensiero, con la differenza che Saito abbraccia una sequenza assai più estesa del primo, e che concentra la sua attenzione su una dimensione delle preoccupazioni marxiane che era ancora sconosciuta a Negri. Soprattutto, Saito ce ne fa cogliere semplicemente la ragione: Marx non smette mai di pensare, vale a dire, di sviluppare e approfondire le sue conquiste precedenti, che ha sempre continuato a considerare provvisorie, mettendole incessantemente a confronto con nuovi terreni, nuovi problemi, nuovi autori, sfumandole, rettificandole, rimettendole parzialmente in discussione, o addirittura abbandonandole, aprendo così poi, lungo il cammino, nuove vie di ricerca, tracciando nuove prospettive, ponendo nuove questioni o riprendendo quelle vecchie, ecc. Fino al punto che Marx non si trova mai dove pensavamo di trovarlo in base a quello che già sappiamo di lui o, più precisamente, pensavamo di sapere di lui.
Sempre secondo quest'ordine di idee, ma ancora più fondamentalmente, Saito conferma che la pubblicazione di tutti gli scritti di Marx (e di Engels), intrapresa nel quadro della MEGA 2, ci permetterà, si spera definitivamente, di liberarci dell'immagine di un Marx visto come dottrinario (ridotto a un ABC) e statuario (come se egli fosse stato il grande comandante del tempio), un'immagine forgiata e spacciata per decenni nelle e dalle organizzazioni che hanno dominato il movimento dei lavoratori. Al contrario, ci permetterà finalmente di vedere un Marx vivo, costantemente curioso di tutto, più preoccupato di porre nuove domande che di ripetere le vecchie risposte; ma anche talvolta incapace di portare a termine i propri progetti, a cominciare dalla sua critica dell'economia politica, che lascerà incompiuta, con grande dispiacere del suo amico Engels, il quale lo esortava, con impazienza ma invano, a terminarla. In secondo luogo, per quel che riguarda la problematica tematica ed ecologica oggetto del suo lavoro, è non solo possibile ma anche necessario andare oltre le conquiste marxiane sull'argomento, almeno come le conosciamo per il momento, però utilizzando a tal fine alcuni sviluppi propri di Marx. In breve: spingere Marx oltre Marx usando Marx. Infatti, come ha mostrato Saito, dal 1844 al 1868, Marx ha costantemente sviluppato e approfondito l'idea che il capitale è stato, e continua a essere colpevole di interrompere il metabolismo tra umanità e natura, rompendo così quell'unità immediata tra loro che i rapporti di produzione pre-capitalistici avevano mantenuto. Il suo confronto con i lavori di Liebig e di Fraas lo portò, in questa prospettiva, a sottolineare sia il carattere predatorio dell'agricoltura capitalista, che tende ad esaurire il suolo, sia il cambiamento climatico che le sue sconsiderate pratiche di deforestazione rischiano di provocare; due diagnosi, che gli sviluppi più recenti, un secolo e mezzo dopo, sono ben lungi dall'aver contraddetto... Ma se vogliamo sviluppare e approfondire l'idea della perturbazione metabolica causata dal capitale, dobbiamo riprendere l'analisi di Marx sulla forma valore in cui il capitale racchiude il processo sociale di produzione, e quindi il metabolismo tra umanità e natura, rimodellandolo profondamente, e in modo tale da sottometterlo alle esigenze della continua riproduzione espansa del valore; in altre parole, dell'accumulazione del capitale.
Questo è ciò che Saito suggerisce alcune volte verso la fine del suo libro, quando afferma che, all'orizzonte delle parole di Marx, emerge una contraddizione fondamentale tra capitale e natura. Pertanto egli afferma:
«Ciò che è importante nel contributo scientifico, che viene dato da Marx ai dibattiti ecologici attuali, è la sua dimostrazione, condotta a partire dalle determinazioni fondamentali della società della merce, che il valore in quanto mediazione del carattere trans-storico tra l'umanità e la natura, è incapace di soddisfare le condizioni materiali di una produzione sostenibile» (pagina 314). Oppure, ancora: »Per evidenziare pienamente la tensione tra capitale e natura, Marx espone in maniera sistematica la teoria del valore, ponendola in un contesto che la connette al problema della rottura del metabolismo tra umanità e natura» (pagina 316).
Ma a mio avviso, Saito non specifica il punto esatto di articolazione tra la teoria marxiana del valore e la problematica ecologica, a partire dal quale è opportuno esplorare metodicamente questa contraddizione tra capitale, valore in processo e natura. Eppure questo punto è presente già nell'approccio di Marx stesso: è la sua analisi dell'appropriazione del processo lavorativo da parte del capitale, dominata dall'imperativo di sottomettere quest'ultimo alle esigenze del processo di valorizzazione, attaccando i due fattori fondamentali del processo lavorativo, cioè la forza lavoro umana e la natura come oggetto generale del lavoro umano. È questa analisi che occupa le sezioni III e IV del Libro I del Capitale, e da cui sono stati tratti i passaggi citati sopra, e che Marx avrebbe senza dubbio esteso nel Libro II (soprattutto quando analizza nella sezione II la necessità imperativa del capitale di accelerare la sua rotazione, riducendo il più possibile il periodo di produzione) così come nel Libro III (soprattutto nella sezione dedicata alla rendita fondiaria). Saito stesso lo sottolinea, ma senza farne pieno uso:
«[...] si possono trovare nei manoscritti che ci sono pervenuti, ulteriori segnali che provano che Marx aveva intenzione di sviluppare diverse espressioni della tensione tra la logica formale del capitale e le proprietà materiali della natura, sia in relazione alla "rotazione del capitale" nel secondo libro che alla "rendita fondiaria" nel terzo» (pagina 259).
Se dunque ci proponiamo di sviluppare e approfondire l'idea marxiana di una perturbazione strutturale, a causa del capitale, del metabolismo tra uomo e natura, dobbiamo allora partire da un'analisi dell'appropriazione capitalista del processo lavorativo, in quanto essa è anche, fondamentalmente, l'appropriazione capitalistica della natura, vale a dire, la trasformazione della natura al fine di conformarla alle esigenze fondamentali del capitale in quanto valore in processo [*19]. E questo significa che porterà a trasgredire i limiti che la natura, nel quadro del pianeta Terra, pone al metabolismo tra l'umanità e sé stessa, e avrà come conseguenza finale l'attuale catastrofe ecologica.

- Alain Bihr - (21 novembre 2021) - Fonte: A L'encotre - La Bréche

NOTE:

[*1] - Si veda, per esempio, Alfred Schmidt, "Il concetto di natura in Marx", (edizione originale: 1974), edizione italiana Edizioni Punto Rosso 2018; Hans Immler, "Vergiss Marx, entdecke Schelling" in Hans Immler e Wolfdietrich Schmied-Kowarzig (sld), Marx und die Naturfrage, Kassel University Press, Kassel, 2011; Serge Audier, "La société écologique et ses ennemis : pour une histoire alternative de l'émancipation", Paris, La Découverte, 2017.

[*2] - Esempi di questo orientamento sono Paul Burkett, "Marx and Nature: A Red and Green Perspective", 2nd edition, Haymarket Books, Chicago, 2014 (1st edition 1999); John Bellamy Foster, "Marx's Ecology. Materialism and Nature", Monthly Review Press, New York, 2001; Henri Pena-Ruiz, "Karl Marx: penseur de l'écologie", Paris, Éditions du Seuil, 2018.

[*3] - Kohei Saito, "La nature contre le capital. L’écologie de Marx dans sa critique inachevée du capital", tradotto dal tedesco da Gérard Billy, Syllepse, Pagina 2, M Éditeur, Parigi, Losanna, Montréal, 2021. In seguito, l'opera sarà citata nel corpo del testo da Saito.

[*4] - MEGA: acronimo di Marx-Engels-Gesamtausgabe, edizione completa delle opere di Marx ed Engels. Un primo tentativo di tale edizione, MEGA 1, fu iniziato nel 1927 da David Ryazanov, direttore dell'Istituto Marx-Engels di Mosca, che, come Ryazanov stesso, cadde vittima della dittatura stalinista e fu interrotto alla fine degli anni trenta. Il progetto di una MEGA 2 fu lanciato alla fine degli anni '60 su iniziativa degli Istituti di Marxismo-Leninismo del Comitato Centrale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica e del Comitato Centrale del Partito Socialista Unito di Germania, che era allora al potere nella Repubblica Democratica Tedesca (solitamente chiamata Germania Est). Il progetto fu interrotto per un periodo, dalla "caduta del muro di Berlino" e dal crollo dell'URSS, ma fu ripreso e continuato dal 1990 dalla Internationale Marx-Engels Stiftung (IMES: Fondazione Internazionale Marx-Engels) di Amsterdam. La pubblicazione è divisa in quattro sezioni. La sezione I contiene tutti gli scritti sopravvissuti di Marx ed Engels, che siano stati pubblicati o meno durante la loro vita, ad eccezione di tutti i manoscritti e le pubblicazioni che hanno preparato e accompagnato l'edizione del Capitale. Questo insieme è il soggetto della sezione II. La sezione III contiene la corrispondenza di Marx ed Engels, sia tra di loro che con terzi. Infine, una quarta sezione riunisce tutti i quaderni e le note di lettura di Marx ed Engels, così come le note a margine delle opere che hanno letto e che sono arrivate fino a noi. Il tutto sarà distribuito su 115 volumi, alcuni dei quali sono suddivisi in più volumi. Va notato che in Francia è in corso anche una Grande Edition Marx-Engels (GEME): https://geme.hypotheses.org/

[*5] - Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 1968, p. 77.

[*6] - Id., pagg. 78-79.

[*7] - Il brano in questione si trova alle pagg. 62 ss.

[*8] - Il termine è difficile da trasmettere in tutte le sue sfumature in francese. Bottigelli lo ha tradotto con sentimentale (pag. 51); Billy con calmo, pacifico, rilassato, familiare (Saïto: pagg. 33, 37, 40). A seconda del contesto, si potrebbe anche tradurlo con il termine paternalistico.

[*9] - Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1968, vol. II, p. 114.

[*10] - A mio parere, Saïto commette un leggero errore nel collocare la stesura di questi manoscritti nel 1865-1866 (pag. 172). Infatti, in una lettera a Engels del 31 luglio, Marx confidava: “Per quanto riguarda il mio lavoro, ti dirò la schietta verità. Mancano da scrivere ancora tre capitoli per finire la parte teorica (i primi tre libri). Poi vi è ancora da scrivere il 4. libro, il lato storico-letterario, cosa che mi è relativamente più facile, dato che, essendo tutte le questioni risolte nei primi tre, quest’ultimo non è dunque più che una ripetizione in forma storica” (Marx-Engels, Carteggio, vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 346). Si trattava dunque di scrivere una prima versione di tutto Il Capitale in quattro libri, come la concepì allora Marx. E, il 13 febbraio 1866, scrisse un’altra lettera a Engels annunciando il completamento di questo scritto: “Per quanto riguarda questo maledetto libro, le cose stanno così: era finito alla fine di dicembre. Soltanto la trattazione sulla rendita fondiaria, il penultimo capitolo, forma da solo, nella redazione odierna, un volume» (Id.: pag. 384). Nelle settimane successive, Marx passerà alla stesura della prima edizione tedesca del Libro I del Capitale, che sarebbe apparsa nell’autunno del 1867.

[*11] - Il Capitale, a cura di A. Macchioro e B. Maffi, Utet-De Agostini, Novara, Libro I, pag. 654.

[*12] - Id., pag. 655.

[*13] - Id., pagg. 655-6.

[*14] - Id., pag. 374.

[*15] - Il Capitale, cit., Libro III, pp. 1011-1012.

[*16] - Il Capitale, Libro I, op. cit.

[*17] - Più esattamente, non si può lavorare contro di essa senza lavorare con essa. Questo è il significato fondamentale della famosa formula di Francis Bacon: "Natura non nisi parendo vincitur", si sconfigge (domina) la natura solo obbedendole (Novum Organum [I, 124], 1620).

[*18] - Riprendo qui, in parte deviandolo, il titolo del libro di Antonio (Toni) Negri, Marx oltre Marx, Christian Bourgeois, Parigi, 1979, che è un lungo commento personale ai Grundrisse.

[*19] - Per un abbozzo di tale approccio, si veda "Le vampirisme du capital":  https://alencontre.org/ , pubblicato online il 4 maggio 2021.

Nessun commento: