martedì 17 gennaio 2023

No, non è finita affatto !!

Biopolitica: l’utilizzo di un concetto in tempi di pandemia
- di Léo Tersou -

«Un libro è fatto per essere usato con dei fini che non sono stati definiti dalla persona che lo ha scritto. Più avrà nuovi, possibili e imprevisti utilizzi, più ne sarò felice!» (Michel Foucault, 1975)

«[...] cito un'ultima volta Foucault...» (Bernard-Henri Lévy, 2020)

L'epidemia di COVID-19, tra le altre cose, ha dato luogo a numerose dichiarazioni pubbliche e mediatiche. Trovo deplorevole il fatto che raramente esse siano state all'altezza della crisi, quando addirittura non hanno semplicemente ceduto al negazionismo del Covid. Inoltre, molto spesso, le influenze teoriche (più o meno assimilate) che hanno alimentato simili affermazioni non sono state assolutamente esplicite, ma si lasciavano  intravedere: ad esempio, quando Alain Damasio paragona il virus agli stranieri: «i  migranti (...), quelli che non sono simili a noi», ecc. [*1], spingendosi così fino ad accettare l'alterità del vivente che in tal modo costituisce, mentre possiamo notare la sua simpatia per un certo vitalismo deleuziano, o per il lavoro più recente di Bruno Latour [*2].  Ma dobbiamo forse buttar via il bambino con l'acqua sporca, rendendo Deleuze responsabile delle metafore nauseabonde che egli ha indirettamente "ispirato"? In definitiva, questa domanda da sé sola probabilmente non è molto rilevante, ma mi sembra interessante soffermarsi sui modi concreti in cui un patrimonio concettuale può essere mobilitato, se non addirittura deviato, al fine di servire quelle che sono delle posizioni politiche inconsistenti e pericolose. E visto che tra i teorici invocati dai discorsi sulla pandemia, Michel Foucault sembra essere uno dei più apprezzati (a dire il vero, va detto che di questo non c'è da stupirsi), vorrei esaminare proprio il suo caso, e in particolare il concetto di Biopolitica, seguendo un duplice approccio: innanzitutto, per smascherarne i suoi usi impropri e, in secondo luogo, per cercare di determinare se esso possa - qualora meglio utilizzato - risultare ancora illuminante ai fini dei nostri approcci alla situazione pandemica.

In Nomine Foucault?
Bisogna pertanto affrontare il modo in cui il riferimento a Foucault ha impregnato e contagiato il discorso recente sul COVID, e le sue conseguenze. Gli interventi pubblici del filosofo Giorgio Agamben, negli ultimi due anni, sembrano essere un buon punto di partenza, in quanto egli, sebbene abbia citato direttamente Foucault solo in rare occasioni, è da diversi decenni che sviluppa un approccio teorico il quale intende riprendere e proseguire il discorso foucaultiano; in particolare attraverso la particolare concezione agambeniana della biopolitica. Il primo di questi interventi è stato un breve articolo pubblicato originariamente  il 26 febbraio 2020 su "Il Manifesto" con il titolo «Lo stato d'eccezione provocato da un'emergenza immotivata», e successivamente inserito in un insieme di testi raccolti da Quodlibet, e stavolta intitolato "L'invenzione di un'epidemia" [*3] (questo cambio di titolo è stato probabilmente dovuto al successivo eccesso in cui poi Agamben si è poi andato a impegnare).
Lo scopo di un simile intervento era stato quello di minimizzare la gravità della pandemia, brandendo delle cifre che assimilerebbero il covid a una semplice "gripette [influenza]", se non addirittura a negarne la realtà: «esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia [può offrire] il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite». Ad Agamben, che ne ha fatto uno dei suoi concetti centrali, in particolare attraverso la figura dell'homo sacer che dà il nome alla sua famosa serie di opere, questa specifica enfasi sullo "stato di eccezione" appariva ovvia. Per lui, una simile situazione si trovava già paradigmaticamente all'opera nei campi di sterminio nazisti, la cui logica ("biopolitica") presiede alle forme contemporanee di sovranità. E ha continuato su questa strada, arrivando a dichiarare che «le leggi sui cosiddetti "no-vax" [sono] dieci volte più restrittive delle leggi fasciste del 1938 sui non ariani» [*4]. Oggi, la persona non vaccinata è quindi la persona esclusa da tutti i diritti, sulla quale ogni attacco viene legittimato; un fatto questo che non ha mancato di piacere alle reti cospirazioniste come RéinfoCovid o FranceSoir [*5]. Ma tutto questo, in che modo ci riporta a Foucault?
In effetti, al di là della filiazione intellettuale dimostrata nel caso di Agamben, sembra che i due pensatori summenzionati siano invischiati in un fascio di discorsi che pretendono di essere "radicali", "resistenti" o addirittura "rivoluzionari", ma dei quali bisogna mostrare quali sono le implicazioni deleterie. E se alcune figure mediatiche affermate hanno potuto invocare Foucault come riferimento bonario (come ha fatto Bernard Henri Levi, in "Ce virus qui rend fou"), è proprio all'interno della "estrema sinistra", per dirlo in modo spiccio, che questo riferimento richiede una riflessione e una critica. Una pubblicazione di Olivier Cheval sul sito lundimatin - un hub di confusionismo, se mai ce n'è stato uno - sembra fornirne un buon esempio. La sua seconda parte [*6] si basa su Agamben e se ne serve per fustigare la "biopolitica" epidemica, mentre la terza parte propone di «pensare ciò che ci sta accadendo tramite Michel Foucault». Tuttavia, l'autore ben presto finisce per dichiarare che, se «i foucaultiani sono stati spesso assai riservati circa il modo in cui Giorgio Agamben ha investito il campo critico della biopolitica», la crisi «dà ragione (...) ad Agamben». Gli assenti, e quindi i morti, hanno sempre torto... Non che io voglia "assolvere" Foucault in questa sede, ma questo è indubbiamente sintomatico del modo in cui la sua opera viene riletta, vale a dire, da una prospettiva che spesso ha più a che fare con le affinità cospirative che troviamo nelle posizioni di - per esempio - Agamben. Non è importante se quest'ultimo sia coerente o meno con i suoi indirizzi teorici, o se ci troviamo di fronte a una recente deriva della sua traiettoria intellettuale [*7]. Soffermiamoci comunque a partire dal fatto che Cheval convoca in ogni caso Foucault, e lo fa a partire da ciò che egli conserva di lui. Fa qualche riferimento ai suoi corsi e alle opere in cui ha elaborato il concetto di biopolitica, ma di questo me ne occuperò più avanti. In particolare, va detto che l'articolo comincia e finisce ricordando le osservazioni di Foucault sulla peste, evocate nel corso su "Les Anormaux" [*8], e poi citate più volte nelle pagine di "Sorvegliare e punire". In questi testi, vengono esaminati due "modelli di controllo": l'esclusione dei lebbrosi e il confinamento nella città appestata, nel senso secondo cui il primo è il modello di un esercizio negativo del potere, e il secondo di uno positivo, adatto alla costituzione di società disciplinari. «Il lebbroso viene coinvolto in una pratica di rifiuto, di esilio e di recinzione; gli è permesso di perdersi in essa come in una massa che è ben poco importante differenziare; gli appestati invece sono coinvolti in una griglia tattica meticolosa, nella quale le differenziazioni individuali sono gli effetti costrittivi di un potere che si moltiplica, si articola e si suddivide. Grande contenimento da un lato, buona formazione dall'altro» [*9].
Pertanto, tutto questo sembra prestarsi assai bene a guidare le nostre analisi della situazione pandemica, però ecco che notiamo subito due cose. Innanzitutto, ricordiamo ancora una volta che l'uso frequente di questi riferimenti da parte del movimento anti-vax e dei loro alleati, riduce tutte queste considerazioni solo alla nozione di esclusione (i non vaccinati, quelli senza mascherina, in quanto vittime autoproclamate di un'esclusione politica), e tende a confondere i due modelli, riportando così "il lebbroso" al centro della città appestata. In secondo luogo, bisogna insistere sul fatto, sottolineando che si tratta appunto di modelli. Foucault ne parla come di un "sogno politico": questi schemi funzionano soprattutto, dal lato dell'esercizio del potere, come immaginario e come referente tecnico; «la città appestata (...) è l'utopia della città perfettamente governata» [*10].
Di certo, è ridicolo non tener conto del modo in cui, concretamente, la pandemia è stata l'occasione per i diversi rafforzamenti delle procedure di sorveglianza e di controllo, ma allo stesso tempo è indubbiamente sbagliato vederla come se si trattasse di una rottura, anziché come l'evidenziazione di una logica che era già all'opera anche in tempi "normali": per esempio, prendere di mira, in modo differenziato, determinate popolazioni che vengono identificate come "indisciplinate" [*11], con l'epidemia trova nuovi modi di dispiegarsi. Foucault insiste: «la peste (quanto meno quella che rimane allo stato di una previsione) è la prova nel corso della quale si può definire in maniera ideale l'esercizio del potere disciplinare. Per far funzionare i diritti e le leggi secondo la pura teoria, i giuristi si immaginavano nello stato di natura; per veder funzionare le discipline perfette, i governanti sognavano lo stato di peste» [*12].
Di conseguenza, questo funzionamento ideale non poteva perciò essere pienamente realizzato in una situazione epidemica reale, la quale come abbiamo visto comportava anche una buona dose di sorprendente disorganizzazione istituzionale. D'altra parte, nelle stesse pagine, Foucault intende mostrare come questi modelli di controllo trovino la loro più concreta applicazione proprio all'interno dei luoghi di reclusione delle società disciplinari (ed è qui, infatti, che l'esclusione del lebbroso e la rimozione dell'appestato si confondono realmente): «Il manicomio, il penitenziario, il riformatorio, la casa di correzione e, in una certa qual misura, in parte gli ospedali e in generale e tutte le istituzioni di controllo individuale funzionano secondo una duplice modalità: quella della condivisione e della demarcazione binaria, e quella dell'assegnazione coercitiva, della distribuzione diversificata» [*13].
In un certo senso, piuttosto che rifiutare le mascherine e le cautele, per paura di realizzare il sogno politico dei nostri leader, i chiassosi lettori di Foucault forse avrebbero fatto meglio a interessarsi di quella che in piena pandemia è stata la catastrofica situazione dei detenuti [*14]. Non dimentichiamo che questi commenti sulla peste, in "Sorvegliare e punire", aprono il capitolo sul Panopticon, quello che è stato un altro "sogno" politico, e non consentiamo alla la forza evocativa delle utopie del potere di far sì che si distolga lo sguardo dai suoi luoghi reali di realizzazione.

Biopolitica
Le pagine appena citate erano apparse quasi due anni prima dell'elaborazione, da parte di Foucault, di quella che è senza dubbio la parola preferita dai suoi lettori pandemici. È quindi giunto il momento di dare un'occhiata a questa nozione e, per identificare innanzitutto il tipo di finalità e di orizzonte politico cui il riferimento alla biopolitica spesso serve, vorrei richiamare un libro che ne offre un'espressione piuttosto tipica. Si tratta del "Manifesto Cospirazionista", pubblicato quest'anno in forma anonima (sebbene a essere oggetto di supposizioni sia il nome di Julien Coupat, e più in generale quello del Comitato Invisibile). Un simile testo, per quella che è la sua costruzione formale, è difficile da decifrare; nel commentarlo, Pierre Tenne nota giustamente che «la confusione, prima che politico, è un espediente stilistico» [*15]. In linea con il suo approccio ideologico, tale stile confuso e iper-referenziale ha l'effetto più immediato di confondere i critici. Tentiamo ugualmente, tuttavia, di caratterizzare l'uso del concetto di biopolitica. Visto che la biopolitica designerebbe il costituirsi in potenza, da parte della vita, come uno dei suoi oggetti (se non, addirittura, come il suo oggetto per eccellenza), gli autori leggono allora il periodo pandemico proprio come se esso fosse il trionfo finale di questo costituirsi in potenza. In breve, per loro, la biopolitica sembra significare che «lo Stato si occupa della mia salute, e pertanto vuole regolare la mia vita». Ecco che, quindi, attuando una sorta di elevazione al rango di resistenza politica il temperamento del bastian contrario, qualsiasi partecipazione alla prevenzione sanitaria, alla riduzione del rischio, alla solidarietà epidemica, ecc. finisce per essere riducibile alla sottomissione alla parola d'ordine biopolitica e, quindi, sarebbe una spregevole rinuncia. Come presuppone il titolo del libro, nelle sue formulazioni questa lettura prende una piega apertamente complottista, dal momento  che stabilisce che «il carattere ingannevole [della biopolitica] è proporzionale alla pretesa che lo caratterizza» [*16].
Pertanto, qui non si tratta della questione di svelare una certa razionalità nell'esercizio del potere per quel che attiene a un ambito "biologico", quanto, piuttosto, dell'ipotesi che esistano alcune semplici intenzioni subdole. Per cui non mi dilungherò qui su come un simile approccio, che si proclama sovversivo, in realtà opera di concerto con l'azione governativa e dominante; questo lo hanno già fatto altri [*17]. Appare anche chiaramente in che misura tutto questo sia accompagnato da un «suprematismo sanitario» [*18], il quale contrappone al controllo della salute, la forza fantasmatica di quelli che sarebbero dei corpi "naturalmente" sani e resistenti: la malattia non è grave, pertanto non c'è alcun bisogno di sacrificare le nostre "libertà" (e tanto peggio - bisogna leggere sotto le righe - per chi ha un corpo più fragile o più esposto). «La biopolitica è la tirannia della debolezza», ci viene detto esplicitamente. Vengono in tal modo contrapposte quelle che finiscono per essere due versioni della "vita": l'una, oggetto di menzogna, che serve solo come pretesto per il dispotismo; e l'altra, un potere naturale, che non ha bisogno di essere preservato artificialmente; «questo Stato, perciò, grazie alla diffusione di un virus appena solo tre volte più letale dell'influenza stagionale, scopre la "vita' come valore sacro". Così sacro da non avere alcun valore. Visto che sono ammesse tutte le spese» [*20].
Se solleviamo il velo dell'ipocrisia, e passiamo velocemente sopra a questa nozione di "costo", vediamo anche come gli autori perdono proprio - mi sembra - quella che è la possibile rilevanza del concetto di biopolitica. Bisogna allora cercare di darne una lettura più coerente. Ma il compito è comunque arduo: la "biopolitica" si porta dietro una lunga e tortuosa storia semantica [*21], visto che in Foucault stesso, tra il 1976 e l'inizio degli anni '80,  il termine si rivela essere relativamente fluttuante. Si sarebbe tentati di fare semplicemente riferimento alla definizione che ne viene data nel sommario del corso proprio intitolato "Nascita della biopolitica", ovvero «il modo in cui si è cercato, a partire dal XVIII secolo, di razionalizzare i problemi posti alla pratica governativa dai fenomeni propri di un insieme di esseri viventi costituitosi in popolazione: salute, igiene, natalità, longevità, razze...» [*22].  Se gli autori del Manifesto cospirazionista e i loro omologhi dovessero mantenere una definizione foucaultiana del concetto, sarebbe senza dubbio questa. Tuttavia, ben presto quello stesso corso abbandona rapidamente l'idea, per lanciarsi in una lunga "storia" della governamentalità (neo)liberale, con la motivazione che «l'analisi della biopolitica potrà essere fatta solo allorché avremo compreso il regime generale di una tale ragione di governo della quale sto parlando, vale a dire di questo regime generale che può essere chiamato la questione della verità, (...) e di conseguenza, se avremo una chiara comprensione di in che cosa consiste questo regime, che è il liberalismo» [*23]. Ragion per cui, la biopolitica così sembra essere una sorta di porta d'accesso verso alcuni oggetti di studio, ma la sua stessa analisi viene regolarmente rimandata da Foucault stesso (la situazione è stata simile anche nel corso dell'anno precedente, "Sicurezza, Territorio e Popolazione"). Ciò appare in linea con l'ipotesi, sostenuta tra gli altri da Frieder Vogelmann, secondo cui la "biopolitica" debba sempre essere intesa innanzitutto come concetto critico. Per convincersene, si può guardare al suo primo utilizzo (pubblicato) da parte di Foucault, nell'ultima parte de "La volontà di sapere" («Diritto alla morte e potere sulla vita»): il fatto che questo concetto venga forgiato per la prima volta al fine di contrastare il regime di verità istituito dai discorsi sulla "sessualità", tende a porre la biopolitica come strumento per l'emergere di nuove pratiche e nuovi discorsi, di «contro-verità», da opporre al quadro dominante. Parlare di "biopolitica" significa soprattutto fare una diagnosi del nostro presente e della sua storia, il cui scopo non è realmente descrittivo ma propriamente combattivo. Tuttavia, «piuttosto che un concetto critico che designi le contro-verità risultanti dalla diagnosi di Foucault circa il presente, la 'biopolitica' è diventata ora un concetto descrittivo che designa l'oggetto analizzato» [*24] . Infatti, vista la sua diffusione (in Agamben, Hardt & Negri, Lemke, ecc.), il concetto correrà sempre il rischio di fissarsi in diverse "immagini" della società, perdendo così il suo carattere strumentale e, «di conseguenza, la "analisi biopolitica" deve produrre un nuovo contro-sapere, ovvero, procedere secondo un nuovo modello di critica» [*25]. Cercheremo perciò di proporre una critica della situazione pandemica; prima direttamente attraverso il concetto di biopolitica, poi facendo appello ad esso in modo più detournata. Partiamo pertanto dal primo concetto elaborato parallelamente da Foucault, sia nella sua conferenza del 1976, "Bisogna difendere la società", che nel primo volume de "La storia della sessualità". La posta in gioco in questi testi, consiste nell'identificazione di una nuova "tecnologia" di potere, esercitata secondo delle procedure disciplinari e di modo che così, di conseguenza, la biopolitica si configura come l'esercizio di un "biopotere", e che Foucault caratterizza come un'inversione: «Il diritto della sovranità è dunque quello di far morire o di lasciar vivere. E da allora in poi, è questo nuovo diritto a prendere piede: il diritto di far vivere e lasciar morire le persone» [*26]. In concomitanza con questa svolta, l'oggetto (concettuale e pratico) della biopolitica è diverso da quello della disciplina: laddove quest'ultima si esercita sul corpo particolare, la biopolitica si occupa dell'«uomo in quanto specie»; «dopo una prima presa di potere sui corpi, avvenuta nella modalità dell'individualizzazione, ecco che ora abbiamo una seconda presa di potere (...) massificante» [27]. Qui si vede in che modo i concetti di disciplina e di biopolitica, pur riferendosi a due periodizzazioni storiche successive, possono anche essere visti come dei dispositivi di potere complementari. Ora, questa prospettiva sembra applicarsi bene alla situazione pandemica che stiamo vivendo, ma è altresì chiaro che della formula originale, i nostri "teorici del complotto" & Co., hanno conservato solamente il «far vivere»; mentre così facendo rifiutano quella che viene accolta come un'insopportabile eteronomia, dimenticando del tutto il «lasciar morire». Infatti, se l'epidemia di COVID-19 ci ha offerto uno spettacolo, lo spettacolo è stato quello dell'organizzazione politica di un'accettazione: la morte di milioni di persone. Mentre i filosofi della domenica arrivavano a sostenere in televisione che oramai le nostre società stavano facendo fatica ad accettare la morte umana, nel frattempo, quella che si stava accumulando sotto i nostri occhi era, al contrario, un'enorme massa di morti "accettabili" (per non parlare delle vite deteriorate dalla malattia). Si tratta allora di far entrare in campo la seconda caratteristica della biopolitica che abbiamo menzionato: il suo aspetto popolazionista. Quello che vediamo in atto con la pandemia, è che la popolazione è considerata e rappresentata come se fosse un oggetto politico; ma proprio in quanto oggetto esso appare divisibile. La popolazione della specie viene razionalizzata e viene vista come se fossa composta di popolazioni nazionali, in seno alle quali si possono trovare delle popolazioni sacrificabili e delle popolazioni indispensabili, delle popolazioni utili e delle popolazioni inutili, ecc.. Gli anziani, i poveri, gli immigrati, gli immunodepressi, i disabili, rappresentano tutte altrettante "popolazioni" che non sono soggette a una medesima valutazione: a diventare "il valore supremo", non è la "vita" - un'ipostasi confusa - ma alcune vite che vengono valutate rispetto ad altre. Ecco perché qui diventa importante anche il concetto di costo, e perché Foucault inscrive i suoi sviluppi in una storia della governamentalità liberale; poiché le vite umane - aggregate nella forma di popolazioni - sono tra l'altro anche delle variabili di aggiustamento. Il mercato - ci dice - è un'istanza di veridicità: esso sancisce una relazione tra costi e benefici. Quando le scuole sono state tenute aperte, quando si è sostenuto che era necessario «far funzionare l'economia», vuol dire che è in questo quadro che si è svolta un'azione che potremmo definire "biopolitica". Il concetto, pertanto, può essere visto anche come uno strumento di critica del modo di produzione capitalistico - uno strumento probabilmente non indispensabile, ma forse pratico - e delle forme di Stato che tale modo di produzione presuppone, nella misura in cui, ad esempio, i vari segmenti del proletariato vengono costituite come popolazioni "lavoratrici". Al tempo della pandemia, il potere «fa vivere», ma quel che importa è sapere chi, perché e, ancor più, sapere chi è che viene lasciato morire. A questo proposito, farò riferimento a un concetto adiacente a quello di biopolitica, e che altresì sembra anche in grado di far luce sul momento pandemico. Gli autori del Manifesto cospirazionista hanno buon gioco a citare Foucault, il quale evidenzia «la coesistenza, all'interno delle strutture politiche, sia di enormi macchine di distruzione che di istituzioni dedicate alla protezione individuale», e suggerisce che pertanto «la tanatopolitica è il contrario della biopolitica» [*28]. Tutto ciò assomiglia, ancora e sempre, solo un'espressione di ipocrisia e inganno biopolitico, ma questo "rovescio della medaglia" merita di essere esplorato. Ed è esattamente questo, ciò che Achille Mbembe ha cercato di fare [*29], insieme ad altri che lo seguono, chiamandolo "necropolitica". Ora, nel caso della pandemia, la necropolitica sembra rappresentarne un aspetto saliente, che Jack Bratich intende mostrare, facendolo in particolare attraverso lo studio dei movimenti di estrema destra covido-negazionisti. Lo fa usando poi l'immagine dello «Stato homi-suicida» [*30], vale a dire, delle istituzioni politiche che, attraverso la gestione delle loro popolazioni, sono inclini a un massiccio "sacrificio" (sia che questo venga completamente assunto, come è accaduto nel caso di un paese come il Brasile, dove il presidente Bolsonaro ha negato la realtà del virus, e in una certa misura negli Stati Uniti; o che sia stato fatto in maniera relativa, riferendosi a una «gestione ragionata» del problema in un paese come la Francia). Ma concentrarsi sugli Stati in modo isolato, non ci dà una visione onnicomprensiva e - continua -  per mezzo di una deviazione che passa per Deleuze e Guattari, egli rivolge poi la sua attenzione all'azione necropolitica della società, alla «cultura microfascista [la quale] sviluppa un corpo in rete (individualizzato e collettivizzato) capace di uccidere e di venire ucciso». Il «corpo politico» partecipa perciò esso stesso, a volte perfino volontariamente, al suo costituirsi in «popolazione», al suo stabilirsi come oggetto bio- e necro-politico - si fa vivere e si lascia morire.

In conclusione, non credo di aver dimostrato che il concetto di biopolitica sia imprescindibile per poter «pensare a ciò che ci sta accadendo» (che pretesa, tra l'altro!!), ma credo che possa essere utilizzato in maniera più stimolante, e in modo meno sinistro di quello che ci propinano i becchini di ogni genere.

Appendice: Prodigi e vertigini della cassetta degli attrezzi
In precedenza, ho spesso utilizzato il termine «attrezzo» per designare il concetto di biopolitica (in particolare per sottolinearne la sua funzione critica). Ora, se questa parola può scoraggiare alcune menti, c'è da dire che Foucault l'ha rivendicata di per sé, dichiarando ad esempio: «Vorrei che i miei libri fossero una specie di cassetta degli attrezzi, nella quale gli altri possano andare a rovistare per trovare uno strumento con cui fare ciò che vogliono, nel loro campo (...). Non scrivo per un pubblico, scrivo per gli utenti, non per i lettori» [*31]. Certo, di questo c'è da rallegrarsene: Foucault, lui che intendeva rimettere in discussione la supremazia dell'autore sulla sua opera, nella prefazione a "La storia della follia" e, ovviamente, nella sua conferenza "Che cos'è un autore?", conferma che la sua funzione di intellettuale non è quella di dettare ciò che poi deve essere detto e pensato, bensì di fornire dei (modesti) mezzi per l'azione e per la riflessione. Già all'inizio della sua carriera editoriale, egli aveva pubblicato quanto segue: «Mi capiterà di parlare dei miei libri come se, più vicino ad essi di chiunque altro, fossi quasi solo io a conoscerne i segreti (...). Ma senza alcun dubbio questa sarà solo un'apparenza» [*32] Tuttavia, la domanda sorge spontanea (soprattutto dopo aver visto le nefaste letture che sono state fatte dell'opera di Foucault): se l'autore non può più, non deve più, funzionare come istanza di veridicità per quelli che sono i discorsi che si riferiscono alle sue opere, o che emergono da esse, sarà il caso che allora gli succeda un completo disordine interpretativo, oppure si troverà un altro criterio? Senza dubbio troveremo soddisfazione nel leggere altre affermazioni, come quando scrive: «Spero che la verità dei miei libri risieda nel futuro» [*33]. Qui, Foucault non si sta solo limitando a dire che qualsiasi cosa venga fatta dei suoi libri, avrà valore di verità; subito dopo a quell’asserzione fa seguito il racconto della lettura di "Sorvegliare e punire", che ne viene fatta dai prigionieri prima della rivolta, e che costituisce per lui una manifestazione eclatante di ciò che sta cercando di fare. La figura del fabbricante di attrezzi, viene allora sostituita da quella dell'«artificiere», e Foucault ama dire che vuole «scrivere dei libri-bomba». In questo caso, gli utenti non devono più essere persone qualsiasi, ma coloro che sono coinvolti nei dispositivi che i suoi libri studiano. Gli attentatori che deporranno le bombe, saranno i pazzi, i prigionieri, gli omosessuali, ecc.
Ma rimane il fatto che ci sono modi buoni e modi cattivi di usare un attrezzo, e luoghi buoni e luoghi cattivi per piazzare esplosivi. «Per colui che ha un martello in mano, tutti i problemi sono dei chiodi», e per colui che ha prodotto un concetto... si dovrebbe pensare prima ai problemi. Pertanto la posizione di Foucault è lodevole, ma induce alla cautela. Tanto che lui stesso, a volte, non mancò di "correggere" alcuni modi di usare i suoi concetti. Ecco che allora, seguendo lo sviluppo dei suoi interessi teorici verso l'etica personale, «Foucault rinuncia a una parte del riserbo, o della disinvoltura dell'artigiano a favore della vigilanza di quei maestri di arti marziali che sanno che l'utilizzo efficace richiede che vengano formati degli utilizzatori all'altezza del compito. I libri non sono più degli strumenti pronti per essere usati, ma sono essi stessi a proporre degli esercizi critici di autotrasformazione. L'esperienza non sostituisce l'uso, ma rende possibili nuovi e fruttuosi utilizzi di analisi e di concetti» [*34]. Se ci si deve ostinare a leggere e a litigare, allora tanto vale essere degli utenti che sono all'altezza del loro compito.

- Léo Tersou - Pubblicato il 16 ottobre 2022 su Demain la veille  -

NOTE:

[*1] - A.Damasio, «Immunità ovunque, umanità da nessuna parte. E se battessimo il capitalismo sul terreno del desiderio?», in Revue du Crieur n°20, 2022. Damasio si spinge oltre: il virus sarebbe inammissibile, «come lo sono gli esuli dall'Afghanistan, i miracolati in canoa sul Mediterraneo, i rifugiati dalla Siria o i nostri semplici vicini del Maghreb, i cinghiali nei nostri campi, gli scarafaggi in un appartamento, i topi nella metropolitana, l'Islam, i neri, il kebab, il burkini, le ragnatele, le erbacce nel mio giardino, le api sul mio vaso di miele, il rap femminile, la fidanzata queer di mia figlia o l'antirazzista che sottolinea il vostro silenzioso colonialismo.» Penetrante...

[*2] - Cf. B.Latour, Où suis-je ?, La Découverte, 2021

[*3] - G.Agamben, « L’invenzione di un’epidemia », on line

[*4] - G.Agamben, Intervention pour la « Commissione Dubbio e Precauzione », janv. 2022

[*5] - Quest'ultimo si rallegra della sua presenza al "congresso" franco-italiano in cui si è svolto il suddetto intervento

[*6] - O.Cheval, «L’immunité, l’exception, la mort [2/4] : Penser ce qui nous arrive avec Giorgio Agamben» [online]

[*7] - Anticipiamo il concetto più particolare di biopolitica: Agamben sviluppa un approccio che si discosta notevolmente da quello di Foucault, in quanto non mira più propriamente a studiare alcune forme di governamentalità moderna e contemporanea, ma a caratterizzare la logica originaria del potere politico. Inoltre, si basa su una concezione problematica della vita (tra zoè e bios, vita "naturale" o vita politica): punto nodale dell'esercizio del potere, la "vita" sarebbe anche, per una sorta di ritorno metafisico, il mezzo per resistergli. Si veda K. Genel, "Le biopouvoir chez Foucault et Agamben", Methodos n°4, 2004.

[*8] - Cf. M.Foucault, Les Anormaux – Cours au Collège de France (1974-1975), Gallimard/Seuil, 1999, Cours du 15/01/75

[*9] - M.Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, 1975, p.200

[*10] - M.Foucault, Idem

[*11] - Cfr. tra gli altri, questo articolo. Qui, secondo un processo più generale evidenziato, ad esempio, da D.Fassin (2011) o M.Rigouste (2012), la concentrazione dell'azione di polizia su una determinata area e su una determinata parte della popolazione sembra essere giustificata retroattivamente dall'identificazione di un "eccesso di criminalità" - mentre è proprio questo eccesso di azione a "produrre" questo surplus statistico

[*12] - M.Foucault, op.cit., p.200

[*13] - M.Foucault, Ibid., p.201

[*14] - Cf. D.Fassin, «À l’épreuve de la pandémie» (Postface), in Punir. Une passion contemporaine, Seuil, 2020

[*15] - P.Tenne, « Le style conspirationniste », 2022 [online]

[*16] - Manifeste conspirationniste, Seuil, 2022, p.220

[*17] - Cf. Collectif Cabrioles, «Face à la pandémie, le camp des luttes doit sortir du déni », 2022 [online]

[*18] - Cf. M.Steenhagen, «Loathe fascism ? Then don’t be a health supremacist», 2022 [online]

[*19] - Manifeste conspirationniste, op.cit., p.217

[*20] - Ibid., p.197

[*21] - Cf. T.Lemke, « Une analytique de la biopolitique : considérations sur l’histoire et l’actualité d’un concept controversé » [trad. non publiée de Cristophe Lucchese]

[*22] - M.Foucault, Naissance de la biopolitique – Cours au Collège de France (1978-1979), Gallimard/Seuil, 2004, p.323

[*23] - M.Foucault, Ibid., p.44

[*24] - F.Vogelmann, « Biopolitics as a critical diagnosis », in The Sage Handbook of Frankfurt School Critical Theory, Sage Publications, 2018, p.1429 [traduction personnelle]

[*25] - F.Vogelmann, Idem

[*26] - M.Foucault, « Il faut défendre la société » – Cours au Collège de France. 1976, Gallimard/Seuil, 1997, p.214

[*27] - M.Foucault, Ibid., p.216

[*28] - M.Foucault, « La technologie politique des individus » (1974), in Dits et écrits II, Gallimard, 2001, no 364, pp.1634 & 1645

[*29] - Cf. A.Mbembe, « Nécropolitique », in Raisons politiques vol. no 21, no. 1, 2006

[*30] - J.Bratich, «"Donnez-moi la liberté ou donnez-moi le Covid !" : Les manifestations anti-prévention comme déssurrection nécropopuliste», 2021, trad. Collectif Cabrioles [online]

[*31] - M.Foucault, « Prisons et asiles dans les mécanismes du pouvoir » (1982), in Dits et écrits I, Gallimard, 2001, no 136, p.1391

[*32] - M.Foucault, « "Le livre et le sujet". Première version de L’Archéologie du savoir. Introduction », in Cahier Foucault, Editions de l’Herne, 2011, pp.73-74

[*33] - M.Foucault, « Foucault étudie la raison d’État » (1980), in Dits et écrits II, Gallimard, 2001, no 280, p.860

[*34] - T.Bénatouïl, « Chapitre 2. "J’écris pour des utilisateurs" », in Usages de Foucault, PUF, 2014, p.42

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