David Thomson, «il più grande critico cinematografico vivente» per John Banville, ha qui tentato una storia di Hollywood -- la sua -- e lo ha fatto col piglio caustico e malandrino che contraddistingue chi da sempre ama quel mondo e ciò che ha da offrire: sogni surrettiziamente innervati dalla realtà. Thomson prende spunto da un capolavoro, Chinatown, il mitico film di Roman Polanski del 1974, il che gli permette di ripartire da molto lontano, dalla crescita indiscriminata, corrotta e manovrata di Los Angeles, e di puntare la sua personale macchina da presa sulle speculazioni fraudolente intorno alla gestione dell’acqua e della viabilità, elementi che, sottotraccia, contribuirono notevolmente alla nascita e allo sviluppo di Hollywood. Ricostruisce poi la storia di quegli anni, dalle prime salette improvvisate ai grandi cinema, alla creazione degli Studios, affrontando il passaggio dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore e alle ulteriori innovazioni tecniche. Ma soprattutto racconta le storie, sempre curiose, spesso sordide, comunque illuminanti, dei grandi che hanno fatto grande il cinema: registi come Griffith, Welles o Hitchcock, divi come Greta Garbo o Marlene Dietrich, Humphrey Bogart o Jack Nicholson, e insieme produttori come Jack Warner, Louis Mayer o Samuel Goldwyn, nonché altre figure meno note ma non meno influenti. Thomson vuole darci «la formula perfetta», espressione che riprende dall’ultimo romanzo incompiuto di Fitzgerald, ambientato nella Mecca del cinema: l’equazione che sola può offrire una visione d’insieme di quel mondo, quell’arte, quel mestiere, quell’industria, quel gioco d’azzardo, in tutta la sua varietà, follia e grandezza.
(dal risvolto di copertina di: David Thomson, "La formula perfetta", Adelphi, pp.605, €34)
Nella fabbrica dei sogni di Hollywood comandano uomini e donne da incubo
- Imprenditori senza scrupoli, produttori incestuosi, registi pedofili, attrici vipere, agenti vampiri: la Mecca del cinema raccontata da un grande critico, fra storia e aneddoti, ritratti al vetriolo e umorismo -
di Steve Della Casa
Hollywood, la grande fabbrica dei sogni, suscita da sempre tanto amore e tanto odio: sentimenti contrastanti ma da sempre conviventi, che si sono manifestati in saggi, romanzi, opere teatrali e film. David Thomson, come tutti gli europei che si sono trasferiti nella Mecca del cinema (lui è inglese, ma si è presto trasferito in California diventando critico e docente di cinema tra i più famosi e stimati) prova esattamente questi sentimenti, e li utilizza come ossatura di un sorprendente racconto che viaggia sospeso tra grande storia e piccoli ma significativi aneddoti, ritratti al vetriolo e umorismo irriverente. Lo spunto arriva da un film che, a pensarci bene, può essere davvero letto come una grande metafora della storia di Hollywood e che non a caso è diretto da un altro grande europeo che all’epoca si era trasferito proprio lì. Stiamo parlando di Chinatown, uno dei capolavori che Roman Polanski ha realizzato nel suo (purtroppo) breve periodo americano, prima dei problemi giudiziari che lo hanno spinto su altri lidi. Chinatown, come sintetizza mirabilmente Thomson, è «una storia di acqua e di incesto»: l’investigatore privato interpretato da Jack Nicholson è (ovviamente) ingaggiato da una donna misteriosa, svolge le sue indagini e capisce che una strana perdita d’acqua è davvero importante e che uno strano legame unisce due belle donne e il padre di una di loro.
La vicenda del film è però raccontata non seguendo Polanski o Nicholson, bensì lo sceneggiatore Robert Towne, tre volte candidato agli Oscar (anche per L’ultima corvée e per Shampoo). Scopriamo così che Towne in precedenza era stato soprattutto un revisore di sceneggiature scritte da altri, a partire da Bonnie and Clyde di Arthur Penn dove era stato chiamato da Warren Beatty; che il finale tragico di Chinatown era fortemente voluto da Polanski; e che Towne aveva pensato di far ritornare l’investigatore in azione, dopo quella vicenda ambientata nel 1937, anche dieci anni dopo (e questo avvenne con il travagliatissimo Il grande inganno, sempre con Nicholson) e nel 1957 (ma questo terzo episodio non vedrà mai la luce). Il racconto di Thomson va molto oltre gli aneddoti che interessano soprattutto i cinefili. Noah Cross, il padre-padrone dal nome biblico della storia magistralmente interpretato da John Huston, è secondo Thomson ispirato a William Mulholland, l’industriale che ha fornito il nome a una delle più note strade di Hollywood immortalata da David Lynch in un bellissimo film. Mulholland era un imprenditore senza scrupoli che per primo pensò a Hollywood (anche) come luogo di possibile speculazione edilizia una volta risolto lo storico problema della mancanza d’acqua. Lo risolse, e ci fu il boom delle abitazioni di lusso. Su come fece ci sono molte opacità, e il racconto del film ne svela alcune. E, come Thomson ricorda, la popolazione cresce a dismisura. A Los Angeles nel 1890 abitavano 150.000 persone, nel 1915 già si superò il milione di residenti. Ma non solo di Chinatown si parla in La formula perfetta – luci e ombre dalla fabbrica dei sogni. Ovviamente quando si parla di Hollywood non si può non citare Francis Scott Fitzgerald e in particolare l’incompiuto Gli ultimi fuochi dove lo scrittore mette in scena soprattutto Irvin Thalberg, il produttore del primo Ben Hur, lo scopritore di von Stroheim e di Greta Garbo.
Ma non aspettatevi una voce di enciclopedia. E lo stesso per Mayer, uno dei fondatori della MGM che Thomson ricorda soprattutto per aver inventato un lucidalabbra molto speciale per le tante attrici che portava a letto. Su Frank Sinatra cita Ava Gardner, che ricordava come ci fosse una parte del corpo del cantante che pesava davvero molto. Di Chaplin ricorda l’impegno sociale dovuto a un’infanzia difficile, ma anche la passione per le minorenni e l’abilità nel giocare in borsa che gli consentì di essere l’unico divo di Hollywood a non perdere soldi durante la crisi del 1929. Racconta poi perché secondo lui La vita è meravigliosa non ha vinto l’Oscar, e spiega perché Howard Hawks (il regista di successi come Scarface, Susanna, Il fiume rosso) era così benvoluto. E confessa un grande amore per Nicole Kidman, ma per motivi insoliti: quando si è truccata per assomigliare a Virginia Woolf, infatti, non la si riconosceva più, proprio come anni prima aveva fatto Dustin Hoffman per Il piccolo grande uomo. E c’è spazio anche per gli agenti degli artisti, descritti come una genia di vampiri che ha di fatto ammazzato lo star system. Attori, attrici, registi. Splendori e miserie, slanci umanitari e sesso estremo, arte purissima e intrighi infernali. Un altro che conosceva molto bene Hollywood, lo scrittore e regista Kenneth Anger, intitolò la sua opera più famosa Hollywood Babilonia. Siamo da quelle parti, ed è probabilmente l’unico modo per raccontare la fabbrica dei sogni. Anche perché in un altro film della Hollywood classica ci si interroga proprio su questo, su quale sia la materia di cui sono fatti i sogni.
- Steve Della Casa - Pubblicato su TuttoLibri del 29/10/2022 -
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