Come ha scritto su Facebook @Palim Psao - segnalando il testo che segue –, a una prima necessaria lettura di questa proposta di discussione proveniente da Andreas Stückler, appaiono più limiti, insieme a molte cose di cui discutere (il concetto di dissociazione viene teorizzato dall'autore in maniera problematica, e appare diverso da quello usato dalla ctitica della dissociazione-valore). Nondimeno, essa si dimostra comunque una lettura interessante, e rappresenta pertanto un materiale di discussione ai fini di una teoria critica del pensionamento, visto come forma di vita mutilata sotto il capitalismo..
La dissociazione della vecchiaia: elementi di una teoria critica dell'invecchiamento
- Le società capitalistiche sono per loro natura società strutturalmente ostili alle persone anziane. Il loro «status inferiore» rappresenta principalmente il risultato del loro «essere superflui» per il lavoro astratto -
di Andreas Stückler - 1 novembre 2020
Questo contributo riassume, per quanto in modo assai sintetico, alcuni degli elementi essenziali per una teoria critica della vecchiaia/dell'invecchiamento [ageismo]; facendo riferimento a una critica dell'«âgisme» [in francese], «altersfeindlichkeit» [in tedesco], e a una critica della discriminazione per età nelle società capitalistiche [*1]. La tesi centrale è la seguente: Le società capitalistiche sono per loro natura società strutturalmente ostili alla vecchiaia. Pertanto, i fenomeni di ostilità e discriminazione per età devono essere analizzati anche dal punto di vista delle strutture fondamentali delle società capitalistiche. In questo, seguo un'idea innovativa della Teoria Critica, secondo la quale l'analisi socio-critica deve sempre concentrarsi sull'intera «totalità sociale» [*2], o sul «costituirsi della struttura sociale» [*3], e dev'essere spiegata a partire dai meccanismi di base delle società capitalistiche. Viene qui sostenuto che la vecchiaia/l'invecchiamento rappresenta un aspetto della vita e dell'esistenza umana che è, in una certa misura, contrario alla logica della valorizzazione del capitale e alle norme di lavoro, prestazione, produttività e attività che a tale valorizzazione vengono associate, e che determinano la vita nella società capitalista. La vecchiaia ricade pertanto, per così dire, al di fuori di questo quadro di riferimento capitalistico-globale, creato soprattutto dal «lavoro astratto» (Marx); cosa che, escludendo le persone anziane, si traduce in definitiva in quello che è un contesto strutturale ostile alla vecchiaia. Perciò parlerò qui di una dissociazione specificamente capitalista della vecchiaia, nel senso di un principio sociale formale e strutturale che permea tutti i settori e tutti i livelli della società, e che determina in maniera decisiva il trattamento sociale e individuale degli anziani.
Tutto ciò non va inteso come se l'ostilità nei confronti della vecchiaia avesse una spiegazione mono-causale, direttamente economica, e potesse pertanto essere derivata dall'«economia», nel senso di un modello marxista-ortodosso di struttura e di sovrastruttura. Al contrario, la «dissociazione della vecchiaia» è un principio sociale globale. Il quale. sebbene abbia le sue basi materiali, strutturali ed economiche nella specifica forma storica della produzione capitalistica, presenta anche numerose dimensioni culturali, simboliche e socio-psicologiche, che bisogna tenere in considerazione nell'analisi. Pertanto, la «dissociazione della vecchiaia» rivendica, in un certo senso, una categoria di totalità sociale che descrive nientemeno che il processo di dissociazione della vecchiaia/invecchiamento, e quindi descrive una componente esistenziale e ineludibile della vita umana; un processo che oggi assume sempre più la forma di una guerra aperta contro la vecchiaia/l'invecchiamento per mezzo di tecnologie anti-invecchiamento e attraverso una tendenza sociale generale a essere «senza età».
La costituzione storica della «vecchiaia» nel capitalismo
La tesi principale di questo contributo, è quindi quella secondo cui la società capitalista viene caratterizzata da una «dissociazione della vecchiaia», e da una conseguente ostilità strutturale. In che cosa consiste esattamente questa dissociazione, ovvero, come si presenta a livello sociale? Sul piano materiale-strutturale, la dissociazione della vecchiaia si traduce innanzitutto nell'allontanamento delle persone anziane dalla sfera del lavoro; una caratterista, questa, che nel capitalismo è centrale.
Il legame costitutivo tra la vecchiaia e il lavoro, e quindi la forma storica della moderna dissociazione della vecchiaia/invecchiamento, consiste nel fatto che, come noi sappiamo, nella società capitalista la vecchiaia è legata al pensionamento, il quale rappresenta una categoria, o un'istituzione, autenticamente capitalista. Nell'ambito della gerontologia sociale e della sociologia della vecchiaia, per la figura moderna e per l'immagine sociale della vecchiaia, l'importanza del pensionamento rimane sostanzialmente incontestata [*4]. Per le persone moderne, in generale l'associazione tra vecchiaia e pensionamento è pressoché ovvia , sebbene oggi essa venga sempre più messa in discussione nel contesto del cambiamento demografico e della relativa programmazione socio-politica (parola chiave: «invecchiamento attivo») [*5], sicché in maniera decisiva, la conseguenza appare essere quella di un'idea della vecchiaia vista come fase indipendente della vita. Ma si tratta, a rigore, solo piùcchealtro di un fatto socialmente presupposto, dal momento che nelle società precapitalistiche non esisteva sotto questa forma, e che si è sviluppato solo a partire dall'affermazione del modo di produzione capitalistico.
Da un punto di vista socio-storico, si può perfino arrivare a dire che la vecchiaia in quanto tale, cioè come fase cronologicamente distinta e uniforme della vita, sia nata nel capitalismo solo per mezzo della fondamentale separazione tra età e lavoro, rappresentando così essa stessa un vero e proprio prodotto della modernità e del modo di produzione capitalistico. Così, ad esempio, vediamo lo storico sociale Josef Ehmer che nel suo "Storia sociale della vecchiaia", afferma quanto segue circa quali fossero le condizioni delle società agricole preindustriali (in contrapposizione al capitalismo sviluppato): «Una cesura, che potrebbe essere descritta come l'inizio di una fase di invecchiamento, è difficilmente identificabile in quelle condizioni sociali» [*6].
Egli sottolinea come sia particolarmente essenziale che: «Non sembra esserci stata alcuna norma che incoraggiasse le persone in età avanzata a ritirarsi dalle attività economiche. Per le persone anziane sembrano esserci state delle opportunità favorevoli a organizzare in modo flessibile la loro situazione familiare e le loro attività professionali, in base alle diverse esigenze (se non si tiene conto degli effetti dovuti alle minacce di guerra, fame ed epidemie, tutte cose che non potevano essere controllate individualmente e localmente)» [*7]. Non esisteva quindi alcuna separazione tra età e lavoro [*8], o tra età e attività produttiva, e pertanto, in senso stretto,non esisteva alcuna fase realmente identificabile della vecchiaia.
In breve, a quel tempo non esisteva l'età come la conosciamo noi. Tutto ciò, sarebbe cambiato solo in virtù delle premesse storicamente assai specifiche del lavoro salariato astratto e capitalista, vale a dire, nelle condizioni di esistenza del lavoratore salariato moderno. Ed è solo qui che la vecchiaia prende forma, come fase cronologicamente definibile della vita, sottraendosi così alla sfera del lavoro. Lo stesso vale anche per le fasi della vita come l'infanzia [*9], o come i giovani [*10]; fasi che, anche queste, nelle società premoderne non si manifestavano ancora, nella coscienza sociale, come fasi distinte della vita.
Tale situazione sarebbe cambiata solo quando l'educazione dei giovani, volta a farli diventare cittadini affidabili della società capitalista, insieme alla loro formazione al lavoro sono state entrambe inserite nell'agenda sociale [*11]. Anche il sociologo della vecchiaia Martin Kohli, fa riferimento a questa specificità storica in cui ci sono fasi cronologicamente distinte della vita, e in questo caso soprattutto della vecchiaia con la sua nozione di «percorso di vita istituzionalizzato», che per l'appunto ci rimanda proprio a questa costituzione specificamente moderna della vecchiaia, vista nel senso di una vita post-lavorativa senza obblighi: «L'ordine delle epoche moderne risulta strettamente legato all'organizzazione sociale moderna (capitalista o industriale) del lavoro e ai suoi rapporti con le altre sfere della società. Questo costituisce il dato strutturale di base, a partire dal quale anche le età più avanzate (come la "pensione") vanno intese oggi» [*12]. Naturalmente, questo non significa che la vecchiaia sia una "invenzione" puramente capitalista.
È noto che nelle società premoderne, la vecchiaia era già una categoria sociale strutturale molto importante, la quale determinava in maniera decisiva le relazioni sociali, e alla quale era legata l'attribuzione di status sociali e di posizioni di potere. Analogamente, anche i dibattiti filosofici e letterari sulla vecchiaia possono essere fatti risalire all'antichità, ad esempio con Platone, Aristotele o Cicerone, laddove le interpretazioni negative della vecchiaia, nel senso del declino fisico e mentale, così come sono prevalenti ancora oggi, possono anche basarsi su una lunga tradizione della storia intellettuale e culturale europea [*13]. Inoltre, il pensionamento ha però anche delle radici premoderne, ad esempio quelle delle "bäuerlichen Ausgedinge" [*14], o come quelle che si sono sviluppate in Europa centrale nel tardo Medioevo, a partire dal XIII secolo circa [*15]. Anche gli antichi romani conoscevano già delle forme di pensionamento di cui, ad esempio, i membri del senato o dell'aristocrazia urbana potevano godere in età avanzata (anche se non erano, come oggi, associate al diritto a una pensione [*16]. Tuttavia, è necessario riconoscere e analizzare teoricamente la nuova qualità della formazione della società capitalista, e soprattutto lo svilupparsi di una pensione di vecchiaia generalizzata: Essa, a mio avviso, consiste soprattutto nel fatto che le persone anziane si ritirano dal lavoro astratto. Questa tendenza a smettere di impegnarsi nel lavoro astratto non ha assunto fin dall'inizio la forma di una pensione di vecchiaia, ma si è sviluppata in misura assai diversa, a seconda di quelle che erano le fasi di sviluppo del capitalismo, e ha quindi così assunto delle forme storiche anch'esse molto diverse. Nelle prime fasi dello sviluppo della società capitalista, le persone (soprattutto i lavoratori) non raggiungevano ancora un'età molto avanzata o - il che spesso significa la stessa cosa - venivano integrate nel processo lavorativo, praticamente fino alla fine della loro vita. In simili condizioni, difficilmente si poteva rinunciare al lavoro a causa dell'età avanzata, però questo significava anche che la vecchiaia non si trovava ancora a essere strettamente separata in termini strutturali dalle altre fasi della vita. Si può dire che, in linea di principio, perché potesse aver luogo la nascita storica della "vecchiaia", erano necessarie le premesse del capitalismo industriale , di modo che un numero considerevolmente importante di persone raggiungesse un'età più elevata. Ciò si deve al successivo progressivo aumento del «tenore di vita» e ai progressi che ci sono stati nella lotta contro le malattie.
Ad esempio, alla fine del XIX secolo l'aspettativa di vita media nell'Impero tedesco era ancora di soli 35 anni per gli uomini e 38 anni per le donne [*17]. In Austria, gli uomini nati intorno al 1910 (1 secolo fa) avevano un'aspettativa di vita di 44 anni e le donne di 47 anni [*18] [*19]. Di conseguenza, è solo a partire dal XX secolo che si può parlare di uno sviluppo significativo di un gruppo di una popolazione di «vecchi». Tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, appena il cinque per cento della popolazione tedesca aveva più di 65 anni [*20], mentre oggi la loro quota di popolazione è più che quadruplicata (secondo Eurostat, nel 2017 è pari a circa il 21%). Oltre al fatto che a quell'epoca l'aspettativa di vita delle persone era ancora significativamente più bassa, bisogna anche ricordare che, soprattutto in paesi come la Germania e l'Austria, si è dovuto aspettare il XIX secolo perché la maggior parte della popolazione fosse pienamente integrata nel mondo del lavoro retribuito. Di conseguenza, le strutture di sussistenza locali e regionali delle società agricole hanno continuato a esistere per molte persone per molto tempo.
La situazione è cambiata nel corso del XIX secolo, con l'affermazione definitiva del sistema delle fabbriche, nel capitalismo industriale ad alta tecnologia. In un certo senso, è stato solo allora che la separazione della vecchiaia dal lavoro, e l'emergere della vecchiaia vista come fase della vita raggiungessero una sorta di soglia storica. L'industrializzazione ha rappresentato un punto di svolta importante, a partire dal fatto che la progressiva meccanizzazione della produzione ha reso il lavoro - degli anziani in particolare - sempre più superfluo: «Gli studi sulle condizioni di lavoro nell'industria in vari Paesi europei, rispetto a tutta la seconda metà dell'Ottocento, indicano l'età avanzata come come uno dei motivi di esclusione. Il quarantesimo o il cinquantesimo anno di vita, viene sovente menzionato come il punto di svolta critico a partire dal quale diventa sempre più complicato mantenere il vecchio lavoro, e difficilmente si riesce a trovarne uno equivalente. La diminuzione della forza fisica, della velocità e della reattività vengono tutte citate come motivi per cui un lavoratore anziano "deve lavorare il doppio per riuscire a tenere il passo dei colleghi più giovani e più forti" [...]. La pressione della concorrenza e la sete di profitto, hanno spinto i datori di lavoro ad aumentare l'intensità del lavoro, allontanando così i lavoratori più anziani. L'utilizzo delle macchine e la crescente importanza della produzione di massa, hanno permesso di poter più facilmente fare a meno della loro esperienza e delle loro competenze» [*21].
Fino a quando i sistemi di sicurezza sociale e pensionistici non sono stati istituzionalizzati in maniera generale, questa «rinuncia» alla forza lavoro degli anziani, insieme alla conseguente esclusione dalla sfera dell'occupazione, significava che essi venivano lasciati nella miseria della disoccupazione. In questo modo cadevano nella povertà assoluta della vecchiaia, che ben presto è diventata parte integrante della normale vita quotidiana sotto il capitalismo [*22].
Malgrado tutti gli altri fattori, che possono aver giocato un ruolo in questo caso [*23], è stata probabilmente questa massa crescente di anziani non più «utilizzabili», ma ancora vivi e per quanto possibile da gestire in qualche modo, a contribuire in maniera sostanziale allo sviluppo dei sistemi generalizzati pensionistici pubblici. Di conseguenza, il sancire l'uscita dal lavoro e l'età stessa hanno assunto una forma diversa. Solo quando è stata istituzionalizzata in questo modo, ed è stata garantita giuridicamente (e, nella seconda metà del XX secolo, la cosa è andata sempre più oltre lo stadio della mera sussistenza), la vecchiaia ha assunto quel significato che ha ancora oggi, vale a dire, quello di una vita dopo il lavoro senza obblighi. Ed è stato solo a questo punto che l'uscita degli anziani dal lavoro astratto - e pertanto anche dalla «vecchiaia» vista come fase della vita - viene pienamente istituzionalizzata.
Le persone anziane superflue
La relazione tra quella che chiamo la «dissociazione della vecchiaia» e l'ostilità strutturale delle società capitaliste nei confronti della vecchiaia, si basa sulla constatazione che sancire l'esclusione degli anziani dall'occupazione equivale, sostanzialmente, a renderli superflui per il processo di valorizzazione/sfruttamento. I lavoratori salariati più anziani, vengono rimpiazzati per mezzo di una nuova generazione di giovani lavoratori, a causa della loro reale o presunta minore produttività ed efficienza. Sono pertanto superflui per il lavoro in quanto mezzo di sfruttamento da parte del capitale. È questa la logica interna della moderna dissociazione della vecchiaia, sebbene di solito non sia immediatamente riconoscibile come tale, vista nel contesto dei sistemi pensionistici pubblici. Di norma, il pensionamento (tranne nel caso di pensionamento anticipato a causa di malattia o di invalidità) non è legato all'incapacità, da parte delle persone interessate, a erogare prestazioni, ma avviene a partire da un'età pensionabile definita per legge. Il pensionamento viene spesso associato anche a una cosiddetta «libertà ritardata» [*24], ovvero a un «fine vita» [*25], e spesso è espressamente desiderato dalle persone. La logica sopra descritta, è evidente e percepibile nel caso dei disoccupati più anziani, dal momento che la loro età li ha resi praticamente impossibili da collocare sul mercato del lavoro. Allo stesso tempo, essi sono ancora troppo giovani per avere diritto a una pensione. Inoltre, il pensionamento svolge anche una funzione sociale, nel senso di un contratto tra generazioni, che consiste nel fornire dei posti di lavoro sufficienti alle coorti successive. La transizione dei lavoratori anziani verso il pensionamento, ha perciò lo scopo di liberare dei posti di lavoro per i lavoratori più giovani, mentre in cambio, nel caso dei sistemi pensionistici retributivi, come avviene attualmente (soprattutto in Europa), il pensionamento viene finanziato dai contributi dei lavoratori più giovani. Il contratto intergenerazionale in tal modo concepito, si trova quindi intrinsecamente legato a una specifica relazione di scambio: gli anziani fanno spazio ai giovani, mentre in cambio i giovani finanziano gli anziani. Questo è un altro motivo per cui il pensionamento non si trova a essere direttamente collegato a uno status di «superfluo». Del resto, è proprio questa impostazione intergenerazionale quella che adesso sta diventando sempre più problematica. A causa dell'evoluzione della struttura demografica legata all'età, la popolazione anziana da mantenere sta gradualmente sempre più aumentando, mentre la popolazione attiva che contribuisce al sistema tende a diminuire; il che obbliga sempre più gli Stati a immettere somme di denaro sempre più elevate nei sistemi pensionistici [*26]. I rappresentanti politici e i governanti, stanno rispondendo facendo degli sforzi più o meno intensi per aumentare l'età pensionabile, e ridurre così gradualmente i livelli pensionistici. L'attuale discorso a proposito del cosiddetto «invecchiamento attivo» [*27], va visto anche in questo contesto. In Germania, ad esempio, dal 1990 i livelli pensionistici sono diminuiti, passando nel 2015 dal 55% della retribuzione media annua al 47,7%. Secondo i piani del governo federale tedesco, le pensioni, queste retribuzioni verranno ulteriormente ridotte per arrivare al 43% entro il 2030 [*28]. In un tale contesto di crescente difficoltà di finanziamento dei sistemi pensionistici pubblici, da un lato, e di diminuzione dei livelli pensionistici, dall'altro, si registra anche una tendenza allo sviluppo di vari fondi pensione privati, sempre più incoraggiati dallo Stato, come ad esempio la cosiddetta «pensione Riester» in Germania [*29]. Una problematica fondamentale per la politica pensionistica pubblica, è rappresentata dal fatto che in molti Paesi l'età pensionabile prevista dalla legge spesso non viene raggiunta, e una percentuale considerevole della popolazione va già in pensione anticipata. Prima di aumentare l'età pensionabile legale, i politici devono perciò risolvere il problema dell'allineamento dell'età pensionabile effettiva con l'età pensionabile legale in vigore finora; cosa che i singoli Stati stanno raggiungendo con diversi gradi di successo [*30]. In simili condizioni di finanziamento, sempre più problematico, dei sistemi pensionistici, lo status di «improduttività» e di «superfluità» nel quale gli anziani vengono collocati dall'istituzione pensionistica, appare assai più evidente anche nel momento in cui questi sviluppi vengono presentati sui media e in pubblico a partire da parole chiave quali «invecchiamento sociale», e mentre i discorsi sul crescente «costo della vecchiaia» diventano sempre più egemoni [*31].
La militarizzazione demografica [*32] del discorso sulla vecchiaia, vale a dire, la crescente intensità con cui l'invecchiamento viene presentato come un problema sociale causato dai cambiamenti nella piramide delle età, rende molto chiaro che lo status di «superfluo» degli anziani, in quanto percettori di reddito sostitutivo, è costitutivamente (per quanto in modo piuttosto latente) presente nell'istituzione del pensionamento, e può quindi - in determinate condizioni politico-economiche, ad esempio quando è in gioco il finanziamento dei sistemi pensionistici - tradursi in corrispondenti allusioni discriminatorie, e in discorsi apertamente ostili alla vecchiaia.
Questo status di «superfluo» - determinato dalla logica capitalistica del valore che, tanto strutturalmente quanto simbolicamente, significherebbe il pensionamento, nel quale tale logica colloca le persone anziane, separandole dal lavoro - impedisce pertanto una visione esclusivamente positiva del pensionamento e dei sistemi pensionistici, in quanto «conquiste sociali». La generalizzazione del pensionamento, avvenuta nel XX secolo, ha migliorato notevolmente la situazione socio-economica delle persone anziane. Sebbene non abbia sradicato completamente la povertà, essa ha portato a una riduzione significativa della povertà, soprattutto in paesi come la Germania e l'Austria [*33]. Ma per il processo di sfruttamento capitalistico, questa maggiore sicurezza sociale per gli anziani è rimasta legata alla definitiva istituzionalizzazione sociale del loro status di «superflui», persino per quanto la pensione di vecchiaia venga socialmente considerata un «diritto meritato» che i pensionati si sono «onestamente guadagnati».
Infatti, per quel che riguarda il lavoro, la pensione significa che non si è più utili in quanto mezzo di sfruttamento del capitale. E in una società in cui nulla è così tanto glorificato come il lavoro, proprio per la sua funzione costitutiva della società, lo stato di non necessità diventa, socialmente e moralmente, quasi insostenibile. Nessuno lo sa meglio degli anziani stessi, i quali non si lamentano di nulla, se non della sensazione di non essere più necessari e che, in vista della loro «inutilità», per quanto avvenga per delle buone ragioni, non temono nulla se non di essere un fardello per le loro famiglie e per la società (si veda il successivo capitolo 5).
Oltre che nel pensionamento, la superfluità capitalistica delle persone anziane trova il suo equivalente istituzionale in un'altra istituzione, sviluppatasi nella società moderna in materia di «gestione della vecchiaia»: la casa di riposo [*34]. La casa di riposo ha le sue radici, simili (e fondamentalmente comuni) ai moderni sistemi pensionistici, nel sistema militare del primo moderno Stato assolutista:
«La creazione dell'esercito permanente ha reso un problema urgente il prendersi cura dei soldati anziani e disabili. Le prime forme di sistemi pensionistici relativi al pubblico impiego erano direttamente legate alle esistenti tradizioni di assistenza ai poveri. Consistevano nella creazione di enormi istituzioni, concepite come ospedali, case di riposo e talvolta, in alcuni casi, case di lavoro dove collocare i soldati disabili. L'istituzione dell'Hôtel des Invalides a Parigi nel 1674, segnò l'inizio di questo sviluppo, che venne poi seguito dall'Inghilterra nel 1682 e dalla Prussia, con istituzioni simili, nel 1705. In Austria, nel 1728 si decise di istituire case per disabili a Pest, a Praga e a Vienna» [*35]. La «nascita» della casa di riposo coincide storicamente con l'emergere di una moltitudine di altre istituzioni che la società capitalista, nella sua fase di costituzione e di perfezionamento, ha proposto la fine di mantenere e disciplinare i suoi elementi improduttivi e superflui. Michel Foucault, com'è noto, ha descritto questo processo utilizzando l'esempio delle carceri e dei manicomi [*36]. La casa di riposo è - sia cronologicamente che nella sua razionalità e logica funzionale - un prodotto diretto di questa «formazione storica della società disciplinare» [*37], e dell'allineamento dell'accumulazione degli esseri umani con l'accumulazione del capitale ad essa associato [*38]. Ciò è dimostrato dal fatto che all'epoca, negli istituti, un gran numero di persone anziane veniva allo stesso tempo anche sottoposto a dei lavori forzati a scopo disciplinare. All'inizio, ciò avveniva «nell'ambito di una selezione confusa» [*39] con altre persone improduttive come i poveri, i mendicanti, i vagabondi o i pazzi. Lo storico sociale Peter Borscheid descrive questo sviluppo nella sua storia della vecchiaia come «la casa di detenzione e correzione»: «abbastanza sintomatico che nel pensiero contemporaneo venisse vista come la panacea per insegnare alle persone la gioia del lavoro, e convincerle della necessità della laboriosità. Nessuna fascia d'età ne era esclusa. Anche gli anziani dovevano contribuire con le loro forze fisiche residue al rafforzamento dello Stato. Anche loro dovevano essere educati al lavoro» [*40].
Fu solo quando altri gruppi di persone - soprattutto quelli definiti «malati» e «bisognosi di cure» - vennero internati separatamente in nuovi istituti appositamente creati, che la casa di riposo cominciò a cristallizzarsi come istituzione specificamente concepita per gli persone anziane. In un certo senso, si potrebbe dire che le persone anziane siano in qualche modo «rimaste» in questo processo storico di differenziazione. Da allora in poi, i pazzi vennero messi in manicomio, vennero costruiti degli ospedali per gli ammalati [*41], e così via. Quello che rimaneva da amministrare, in quanto «gruppo problematico», erano gli anziani bisognosi [*42]. Così, verso l'inizio del XIX secolo, vennero create per la prima volta:
«Case appositamente progettate per, e solo per, coloro che vengono considerati bisognosi e anziani. Di norma, si tratta delle vecchie istituzioni, però senza gli altri residenti. La divisione esterna e l'ordine interno di queste case, non possono negare la loro "parentela" con le altre istituzioni dell'epoca, il loro carattere può essere descritto con precisione dal termine "caserma"» [*43].
Isolando le persone anziane che non sono più in grado di lavorare e che sono bisognose, vengono eliminate anche le misure disciplinari legate al lavoro a cui erano stati sottoposti in precedenza, come tutti gli altri "improduttivi" degli istituti. Invece di essere disciplinati per mezzo del lavoro, ora venivano semplicemente depositati nelle case di riposo. Fino agli anni '60, la semplice assistenza agli anziani e alle persone non autosufficienti è stata, come ammettono anche i gerontologi, il modello per le case di cura e per gli istituti di assistenza [*44]. Ciò che nella maggior parte dei casi dovrebbe essere compreso solo in quanto punto di partenza di una storia di progressi nell'assistenza agli anziani nel corso del XX secolo, è rimasto in realtà ancora l'essenza delle case di riposo, anche se nel frattempo sono diventate molto più accoglienti, grazie a un calendario di attività «orientate all'esperienza». Si tratta infatti di una segregazione spaziale e di un confinamento sociale degli anziani e delle persone non autosufficienti.
Non è certo per caso che la logica profonda dell'assistenza agli anziani nelle case di riposo continui a tornare fuori come uno stigma. La cosa si riflette in quelli che sono i diversi «scandali delle case di cura», che riguardano casi di totale incuria (fino alle piaghe da decubito), di sedazione e altre forme di violenza organizzata contro gli anziani e le persone non autosufficienti. In molte case di riposo e di cura, la loro reclusione è ancora all'ordine del giorno. La cosa non si limita a impedire ai residenti di lasciare l'istituto, ma comprende anche le pratiche di legare e immobilizzare le persone dipendenti. Secondo studi comparativi internazionali, fino al 66% delle case di cura utilizzano «misure di contenzione» [*45]. Queste misure includono varie forme di restrizione meccanica, elettronica e medicinale. Esempi di contenzione meccanica sono le entrate e le uscite bloccate, le porte delle stanze chiuse a chiave e tutti i tipi di immobilizzazione. Sono compresi i letti a gabbia, i letti a rete, che bloccano il paziente nel letto. Le restrizioni elettroniche comprendono le barriere luminose, i dispositivi di tracciamento, la videosorveglianza o i braccialetti elettronici che vengono attivati nelle aree riservate. Le restrizioni farmacologiche includono la somministrazione di sedativi, soprattutto psicofarmaci come i neurolettici, gli antidepressivi e i tranquillanti, ma anche i farmaci non psico-farmaceutici, come oppioidi e sonniferi. Il fatto che non si tratti di eccezioni alla regola, di pratiche esercitate da quelle che tra i badanti costituirebbero solo delle singole «pecore nere» tra i badanti, si traduce anche nel fatto che l'uso di misure di restrizione della libertà, in linea di principio è legale e regolato dalla legge, come in Austria, ad esempio, dalla «Heimaufenthaltsgesetz» (la legge sull'assistenza istituzionale). Nella migliore delle ipotesi, alcune forme di restrizione della libertà sono illegali, ma non lo è l'uso di misure di restrizione della libertà in sé. Le discussioni sull'ammissibilità di misure concrete di restrizione della libertà, conducono regolarmente a un'oscillazione giuridica, che viene poi indirizzata alle corti supreme: in Austria, ad esempio, l'uso dei letti a rete è stato vietato nel 2015, mentre molte altre misure continuano a essere ancora considerate accettabili [*46]. Il criterio che stabilisce l'ammissibilità o l'inammissibilità delle restrizioni della libertà, spesso non riguarda il grado di restrizione provocato da una misura concreta, ma piuttosto la capacità che hanno i residenti in questione di aiutare sé stessi e di prendere decisioni. Pertanto, in alcune circostanze, se una persona non può muoversi in modo indipendente e volontario non viene considerata una restrizione legale della libertà, anche senza misure appropriate. Pertanto, non è la misura restrittiva in sé a costituire una restrizione della libertà, ma piuttosto il grado di libero arbitrio, autonomia e capacità decisionale che può essere attribuito a un residente. Questa pratica giuridica, è particolarmente rivelatrice dal punto di vista dei diritti umani, e dovrebbe far riflettere soprattutto i gerontologi i quali sperano di risolvere il problema della discriminazione in base all'età, e della violenza contro gli anziani, sulla base dei diritti umani. Davanti alla legge, l'anziano non autosufficiente, o addirittura affetto da demenza, in assenza di autonomia e di capacità decisionale, sembra non essere più un essere umano, quanto piuttosto un «mucchio di ossa», come hanno detto bene Jaber Gubrium e James Holstein circa la percezione sociale delle case di riposo in quanto guardiane [*47], le quali vengono viste in qualche modo come se fossero una sorta di biomassa, per mezzo della quale l'istituzione può agire, secondo quelle che sono le esigenze della routine sanitaria quotidiana, che dev'essere organizzata nel modo più armonioso ed efficace possibile. L'attivazione dei residenti, che oramai è l'aspetto più importante del lavoro delle case di riposo, e che viene giustamente considerata come un'indicazione del nuovo carattere «più amichevole» dei residenti della casa, a un'analisi più attenta rivela un volto estremamente bifronte.
Stephen Katz (2000), in uno studio ispirato a Foucault, ha dimostrato che le pratiche di attivazione dei residenti delle case di cura contribuiscono a migliorare il controllo e la disciplina e sono particolarmente efficaci nel fornire l'assistenza quotidiana nel modo più semplice ed efficiente possibile. Data l'eterogeneità dei residenti e la diversità dei comportamenti e delle situazioni che caratterizzano la vita quotidiana nelle case di riposo, Katz ritiene che un mezzo efficace di «gestione del comportamento» sia quello di tenere i residenti costantemente occupati attraverso una varietà di programmi di attività. Secondo Katz, la vita quotidiana in una casa di riposo funziona solo se i residenti della casa «funzionano» a sufficienza. Lo fanno meglio quando sono attivati, cioè quando il loro corpo è «in azione» [*48]. Da questo punto di vista, l'attività serve soprattutto a organizzare efficacemente la vita quotidiana nelle case di riposo, tenendo occupate le persone non autosufficienti. Vista così, questa strategia di mobilitazione appare complementare alle strategie di immobilizzazione e confinamento degli anziani e delle persone non autosufficienti. La logica dell'assistenza istituzionale agli anziani potrebbe quindi essere riassunta in breve: attivazione di coloro che possono (ancora) essere attivati, immobilizzazione di coloro che non possono più essere attivati, ovvero le persone allettate e i pazienti affetti da demenza. Entrambe le cose hanno la funzione di rendere il processo di assistenza tecnica il più agevole e semplice possibile, come dettato dalle leggi del mercato e dall'efficienza dei tempi e dei costi nelle case di cura, imposte dalla razionalità economica [*49]. In termini di pensioni e case di riposo - due istituzioni capitalistiche chiave della vecchiaia - lo status di «superfluo» degli anziani si presenta in linea di principio sotto due forme: da un lato, gli anziani che hanno lasciato il mondo del lavoro astratto sono improduttivi, e quindi privi di valore per la valorizzazione del capitale dominante, e sono considerati fini a se stessi. D'altro canto, però beneficiano di sistemi pensionistici e di assistenza finanziati dallo Stato, ovvero del valore aggiunto della società nel suo complesso. Gli anziani non sono quindi solo improduttivi, ma costituiscono anche un fattore di costo considerevole.
In una società con un'etica del lavoro così profondamente radicata nella storia, infiltratasi fin nelle profondità sottocutanee della soggettività moderna, per cui chi non lavora non dovrebbe nemmeno mangiare [*50], le persone anziane devono sempre aspettarsi di vedersi negato il diritto alla vita, ed essere letteralmente sussunte sotto la categoria di «vita indegna di essere vissuta». Non sto esagerando, e la seguente citazione di Mary Warnock, una famosa filosofa bioetica medica britannica, lo dimostra. In un'intervista rilasciata al Sunday Times nel 2004, ha dato agli anziani la seguente raccomandazione, quasi socio-etica: «Le persone fragili e anziane, per evitare di diventare un peso finanziario per le loro famiglie e la società, dovrebbero prendere in considerazione il suicidio» [*51]. Per adesso, finora, si tratta ancora di un esempio estremo, poiché raramente posizioni così disumane vengono espresse in modo così aperto ed esplicito [*52]. Tuttavia, tenuto conto dello sviluppo demografico, questo esprime una logica che ispira i discorsi sulla «società che invecchia», sulla «bomba demografica» o sul «fardello dell'età» che circolano da anni nella sfera pubblica. Ciò dà un'immagine delle persone anziani che vivono in modo improduttivo e a spese dei giovani.
In un tale contesto, probabilmente non è più un caso che, dal suo primo picco culminato nella discussione demografica all'inizio di questo millennio, il discorso sulla morte assistita e sull'eutanasia sia diventato sempre più socialmente accettabile, Soprattutto perché non si limitano esclusivamente all'eutanasia dei malati terminali, ma a volte si riferiscono anche al suicidio assistito degli anziani, anche se non sono malati terminali o soffrono in modo intollerabile, ma basta che abbiano appena superato i 70 anni ed ecco che hanno «chiuso con la vita» [*53]. La misura in cui il discorso sull'eutanasia è nel frattempo penetrato nella società, appare evidente anche a partire dal fatto che l'eutanasia e le relative possibilità di porre fine alla vita vengono sempre più accettate da quelle stesse persone anziane allorché la vita non sembra loro più «degna di essere vissuta» (ad esempio, in caso di necessità, di perdita dell'indipendenza e della capacità di auto-assistersi legate all'età, alla demenza, ecc.) [*54].
L'«improduttività» e il «costo dei costi», visti come temi chiave nel discorso moderno sull'età
In fin dei conti, l'improduttività e il costo della vecchiaia costituiscono anche quelle che sono le due componenti principali del discorso moderno sull'invecchiamento. Si tratta, per così dire, della dimensione culturale-simbolica della dissociazione della vecchiaia, in cui la «superfluità» materiale-economica degli anziani si va a depositare nel bagaglio di conoscenze della società sotto forma di una sottovalutazione simbolica e di una subordinazione della vecchiaia a immagini negative dell'età, a stereotipi e a etichette discriminatorie.
Oltre alle caratteristiche qui descritte circa la «superfluità» capitalista delle persone anziane, istituzionalizzata dal pensionamento e dalla casa di riposo, l'«improduttività» assume anche due significati diversi.
Il primo ha a che fare non tanto gli anziani quanto con i lavoratori anziani. In questo ambito, per «improduttività» assume soprattutto il significato di una minore produttività del lavoro, e di una minore capacità di rendimento da parte dei lavoratori anziani rispetto a quelli più giovani. Lo status di anziano inefficiente, lento e improduttivo è insito nella vecchiaia fin da quando il lavoro salariato si è affermato come forma di attività umana per eccellenza, il cui luogo paradigmatico è la fabbrica.
È stato soprattutto durante l'industrializzazione del XIX secolo e la graduale meccanizzazione della produzione, accompagnata da una notevole intensificazione del lavoro, che hanno iniziato a circolare discorsi sulla relativa improduttività e sul rendimento insufficiente dei lavoratori anziani; discorsi che servivano soprattutto a legittimare la pratica sempre più consolidata di licenziare o non assumere più i lavoratori anziani, a favore di quelli più giovani [*55]. Questa immagine è cambiata nel «turbo-capitalismo» digitalizzato e basato sulla conoscenza dell'epoca attuale, ma solo nella misura in cui l'etichetta della presunta improduttività è stata adattata e differenziata di conseguenza. Ragion per cui, l'attuale «improduttività» non costituisce tanto una mancanza di forza, resistenza, velocità, ecc. quanto piuttosto una mancanza di creatività, innovazione e flessibilità da parte dei lavoratori più anziani, rispetto a quelli più giovani. Lo fanno perfino coloro che criticano quella che è la svalutazione contemporanea dell'età, e che a partire dal mercato del lavoro finiscono per confermare involontariamente questo schema, ad esempio quando cercano di indicare delle caratteristiche specifiche che i lavoratori più anziani avrebbero rispetto a quelli più giovani. L'attenzione si concentra preferibilmente su delle caratteristiche come l'esperienza, la lealtà o l'etica del lavoro. In questo modo, gli anziani vengono privati di tutti gli attributi dinamici che il mercato del lavoro di oggi richiede con tanta veemenza [*56]. In questo modo, in un certo senso, perfino agli occhi di chi sostiene l'esatto contrario, le stesse persone anziane finiscono per rivelarsi «vecchi», e irrimediabilmente obsoleti per il mercato del lavoro. Se il discorso dell'«improduttività» e del «rendimento insufficiente» si riferisce esclusivamente ai lavoratori anziani e alla loro situazione nel mercato del lavoro, la seconda variante di quelli che sono i moderni discorsi sull'improduttività della vecchiaia, riguarda invece il ruolo e la situazione degli anziani in quanto pensionati. Qui, «improduttività» significa un contributo negativo all'insieme del lavoro sociale complessivo che avviene per mezzo di un beneficio che non viene corrisposto. In altre parole, i lavoratori anziani verrebbero finanziati dai prodotti del lavoro della comunità attiva. Il discorso dell'«improduttività» e del «rendimento insufficiente» possiede una sua specificità capitalistica, nella misura in cui, storicamente, è venuto al mondo solo insieme al lavoro salariato: «La distinzione tra le persone “produttive” e quelle “dipendenti”, è possibile solo se separiamo il lavoro salariato da tutte le altre forme di attività umana, e ha senso solo in condizioni sociali che attribuiscono le funzioni produttive e di creazione di valore esclusivamente al lavoro salariato. Storicamente, questo è il caso della comparsa dei rapporti di produzione capitalistici» [*57]. È solamente sotto le condizioni capitalistiche che i discorsi sull'improduttività della vecchiaia possono prendere forma, ma in quel caso sorgono per necessità sociale. Quando la «produttività» diventa un valore sociale centrale, e l'etichetta di «produttività» viene applicata soltanto a quelle attività che comportano il dispendio di lavoro nel processo di valorizzazione del capitale, ecco che allora la persona che non è più in grado di lavorare, non può avere altro status se non quello di «improduttivo», e quindi di «inutile» e socialmente «superfluo».
I discorsi sul «costo» della vecchiaia appaiono essere strettamente legati all'«improduttività», vista nel senso di non lavoro e di reddito senza prestazioni. L'«improduttività» e il «peso» della vecchiaia, vanno di pari passo, nella misura in cui i due discorsi fanno costantemente riferimento l'uno all'altro: dal momento che gli anziani sono «improduttivi», ecco che allora essi rappresentano un «peso» per la società. Al contrario, il discorso sul «fardello sociale della vecchiaia» ha sempre implicato la percezione degli anziani come «improduttivi», sia nel senso di una ridotta capacità di prestazione e di lavoro, sia nel senso di essere «bocche inutili da sfamare» e «fattori di costo» sociale. L'attuale discorso sociale sull'invecchiamento/vecchiaia - visto soprattutto nelle attuali condizioni di cambiamento demografico - illustra assai chiaramente il perché la società moderna consideri la vecchiaia come un peso [*58].
Ci sono due aspetti che rendono problematico l'invecchiamento in condizioni capitalistiche, e che, data la crescente percentuale di anziani nella popolazione, si riflettono anche nei discorsi scientifici, politici e mediatici a proposito del cambiamento della struttura senile, e lo fanno con una monotonia stereotipata e stancante. In primo luogo, a causa del costante aumento dei costi, causato dalla «società che invecchia» [*59], ciò significa che i sistemi di sicurezza sociale, storicamente sviluppati, verranno sovraccaricati. Nel mondo di lingua tedesca, il dibattito sull'invecchiamento della popolazione è stato alimentato soprattutto dal best seller di Frank Schirrmacher "Il complotto di Matusalemme" (2004), che in pochissimo tempo è stato ristampato più di dieci volte. Da allora, le discussioni sul cambiamento demografico e sul suo potenziale di crisi sociale hanno registrato un'impennata nei media. L'accento è stato messo sui costi sociali associati. Ad esempio, la crescente percentuale di anziani nella società sta portando a un crescente spostamento del rapporto tra popolazione attiva e quella non attiva. A medio termine, ciò metterebbe in discussione la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico, e pertanto anche il «contratto intergenerazionale» (che in linea di principio è solo fittizio) nel suo complesso [*60]. In ambito scientifico, questo problema si riflette in particolare nei discorsi sulla «giustizia intergenerazionale» [*61], la quale si concentra in particolare sulla questione del finanziamento sostenibile dei sistemi pensionistici. La soluzione politica viene ricercata nell'estensione del lavoro per le persone. Il forte aumento dell'aspettativa di vita rende così necessario e giudizioso lavorare più a lungo e rimanere «attivi».
Il cambiamento demografico ha degli effetti similari anche sul moderno sistema sanitario e assistenziale, che si riflette chiaramente anche nel discorso della società sull'invecchiamento: il rapido aumento del numero di persone anziane sta portando a un incremento permanente della spesa sanitaria e assistenziale, la quale nel prossimo futuro supererà di gran lunga le capacità finanziarie e umane del sistema [*62]. Si discute seriamente persino sull'opportunità di escludere le persone da alcuni trattamenti e terapie mediche, a causa dell'età avanzata e dei costi che ne derivano, e se i servizi di assistenza sanitaria per gli anziani debbano o meno essere razionati in base agli aspetti di efficienza dei costi [*63]. Perfino anche quando ciò avviene in modo subliminale e ammantato di discorsi socio-etici, in questi discorsi viene sempre evidenziata la potenziale disumanità del calcolo capitalistico dei costi-benefici. Tali considerazioni non equivalgono ad altro che a rifiutare un trattamento medico. Se venissero effettivamente attuate, risponderebbero quindi perfettamente ai criteri di «eutanasia senile passiva» [*64], e si tratterebbe di un geronticidio [*65]. I summenzionati discorsi sul suicidio socialmente giustificato degli anziani non autosufficienti, e l'attuale diffondersi dei discorsi sull'eutanasia, devono essere visti in questo contesto. Anche questi discorsi si riferiscono principalmente al «costo sociale» a causa del numero crescente di anziani malati e dipendenti. Lo scarso valore della vita degli anziani e delle persone non autosufficienti nelle condizioni capitalistiche, difficilmente può essere illustrato in maniera più chiara di quanto faccia questo discorso quotidiano, che sottomette ogni diritto umano alla vita a una riserva di fattibilità finanziaria, e lo valuta esclusivamente sulla base di considerazioni economiche di costo-beneficio. Ciò è in contrasto con tutta la retorica sulla «dignità umana» e sulla «qualità della vita» che eclissa queste affermazioni disumane, facendolo spesso nello stesso respiro [*66].
L'Io senza età, il il Giovanilismo e l'Anti-età
In ultima analisi, questa moderna «cultura dell'età», così profondamente negativa con i suoi continui riferimenti agli svantaggi della vecchiaia, e con i suoi discorsi ostili alla vecchiaia, si riflette in quella che è una psicologia sociale altrettanto negativa e ostile. È la terza dimensione della «dissociazione dell'età», la quale assume la propria forma nella produzione di soggetti anziani o invecchiati. Ed è in questa dimensione che la dissociazione si manifesta soggettivamente attraverso atteggiamenti, pratiche e identità legate all'età.
Probabilmente, il modo più chiaro in cui viene espresso il costituirsi negativamente della soggettività moderna in relazione alla vecchiaia, risiede nel fatto, assai spesso riconosciuto, secondo cui alla maggior parte delle persone piace invecchiare, ma quasi nessuna di esse vuole essere vecchia. Questo modello di pensiero legato all'età, che è già in sé logicamente impossibile e semplicemente schizofrenico, si spinge fino alle emozioni più intime, arrivando all'immagine di sé e alla fisicità dei soggetti moderni, la quale prende forma soprattutto in quella che è una radicale separazione tra il corpo vecchio, o invecchiato, e l'Io. I segni fisici dell'invecchiamento sembrano incompatibili con questo sé, e si vengono a trovare in una contraddizione inconciliabile con esso. Nella dimensione socio-psicologica, la dissociazione della vecchiaia assume il suo pieno significato nel momento in cui colpisce i soggetti con tutta la sua forza, e diventa costitutiva di ogni pensiero e azione legati all'età e di ogni identità nella vecchiaia.
Esiste tutta una serie di studi gerontologici che forniscono materiale assai istruttivo, oltre che prove empiriche quasi schiaccianti, relative alla dissociazione socio-psicologica della vecchiaia. Uno studio di Sharon Kaufman (1986), su quello che lei chiama il «sé senza età» è diventato particolarmente noto, così come è avvenuto con un saggio di Mike Featherstone e Mike Hepworth (1991), dove è stato coniato il termine di «maschera dell'invecchiamento». Sostanzialmente, le due nozioni fanno riferimento alla stessa cosa, vale a dire, al fenomeno del corpo che invecchia e si separa da un immaginario sé senza età. In una certa misura, si tratta di modelli interpretativi legati all'età, che si esprimono soprattutto nel fatto che, ad esempio, i racconti biografici delle persone anziane contengono spesso l'idea di un io quasi senza età, cioè di un'identità che non è influenzata dall'età e che, nonostante i cambiamenti fisici e sociali associati all'età, si caratterizza a partire dal sentirsi di «non essere veramente vecchio». Il corpo invecchia, ma il sé, la persona stessa, non invecchia. Nelle descrizioni di sé, il corpo appare come un mero guscio nel quale cui risiede il sé; e dal momento che con l'invecchiamento fisico la differenza tra il corpo che invecchia e il sé senza età aumenta, ecco che questo guscio assume la forma di una maschera dietro la quale si nasconde il sé, e nei casi estremi persino la forma di una prigione in cui la persona si trova rinchiusa. Si arriva addirittura persino a percepire l'età e il corpo che invecchia come un qualcosa di profondamente patologico [*67].
Si potrebbero citare molti altri studi simili che portano a risultati comparabili, e che evidenziano un bisogno e una pratica che rimangono inascoltati - da parte delle persone che invecchiano - di non percepirsi come «vecchie» e di negare e sopprimere l'età, soprattutto quelli che sono i segni fisici dell'invecchiamento [*68]. L'aspetto rilevante di questi studi, è che la maggior parte di essi non esamina in modo critico la separazione osservata tra il «sé senza età» e il corpo che invecchia, ma spesso interpreta il «sé senza età» in termini di identità anagrafica «di successo» e positiva. Per Kaufman, ad esempio, il «sé senza età» si riferisce semplicemente al fatto che gli individui in questione sono riusciti a mantenere una certa continuità nel passaggio alla fase di vecchiaia della vita. Visto sotto quest'angolatura, l'età non segna un'interruzione nello sviluppo della personalità. Queste persone sono apparentemente riuscite a mantenere la propria identità durante i cambiamenti sociali e fisici provocati dall'età (Kaufman 1986: 7). Featherstone e Hepworth, invece, interpretano il fenomeno della «maschera dell'età» - in maniera assai vicina alla tradizione delle teorie postmoderne - come l'indicazione di una crescente fragilità di quelle che sono le norme tradizionali sull'età, insieme a una corrispondente «liquefazione» delle identità, per cui le immagini sociali negative dell'età e gli stereotipi contraddicono sempre più l'immagine di sé che hanno le persone anziane. Lo schema di riferimento della «maschera dell'età» è pertanto quello di «un ulteriore segnale dei tentativi di minare le tradizionali categorie legate all'età» [*69]; vale a dire che si tratta proprio di un riferimento a un atto potenzialmente emancipatorio con cui le persone si libererebbero sempre più dalle etichette di età obsolete e orientate ai costi.
Ovviamente, tali interpretazioni neutralizzano completamente i momenti critici che appaiono contenuti nei risultati empirici. Del resto, in un contesto socio-critico e socio-teorico, si potrebbe anche giungere a una conclusione diversa, già evidente a prima vista, proprio sulla base della ricchezza dei dati: Il «sé senza età» e la «maschera dell'età», come modelli interpretativi legati all'età, non si riferiscono affatto a un'identità positiva dell'età, bensì al suo esatto contrario, vale a dire, all'impossibilità di sviluppare un'identità dell'età. Pertanto non sono delle rappresentazioni di un'identità anagrafica positiva, ma piuttosto un atto di «autodifesa» psicologica. In una società in cui tutto ciò che non è integrato sulla logica dello sfruttamento capitalistico viene svalutato come inferiore e carente, e in cui le persone vengono giudicate esclusivamente in base alla loro intercambiabilità ai fini dello sfruttamento del capitale, la vecchiaia non può rappresentare un periodo di identificazione dell'esistenza umana. Colui il quale vuole mantenere il proprio status di soggetto del valore, ha perciò tutto l'interesse a non essere identificato come «vecchio», sia non diventando mai vecchio, sia (dato che non diventarlo è biologicamente impossibile, a meno che non ci si suicidi abbastanza presto) non apparendo vecchio. In questo senso, l'«Io senza età» e la «maschera dell'età» si rivelano come strategie di adattamento, o piuttosto come una repressione psicologica di persone che, pur volendo «invecchiare», non sono autorizzate a «essere vecchie». Pertanto combattono la vecchiaia con tutti i mezzi a loro disposizione, al fine di mantenere un'identità soggettivamente e socialmente accettabile, e per non essere considerati da loro stessi e dalla società come esseri umani di seconda classe, nella migliore delle ipotesi. Pertanto, tutto ciò che indica che la persona ha una certa età va bandito dall'ego e dev'essere separato dalla persona stessa. In altre parole: l'uomo moderno deve letteralmente dissociarsi dalla sua età e quindi da una parte di sé e della sua esistenza fisica. Da questo punto di vista, il «sé senza età» del soggetto moderno, rappresenta la conseguenza socio-psicologica più estrema e visibile della dissociazione capitalistica della vecchiaia. La costruzione di un «Io senza età», nel suo sforzo psicologico, esige dalle persone una capacità di repressione che non va sottostimata. In questi ultimi anni, si è concretizzata in un'ossessione per la giovinezza che è diventata grottesca. Ne tre profitto un'industria dell'anti-invecchiamento con un fatturato annuo di centinaia di miliardi. L'arsenale spazia dalle creme antirughe alle terapie ormonali, al fitness, al benessere, ai preparati vitaminici, al Viagra, al Botox e alla chirurgia plastica: tutto al servizio del moderno Io «senza età». Come è stato dimostrato, negli ultimi anni, da numerosi studi di scienze sociali sui discorsi biomedici che riguardano l'invecchiamento [*70], la medicina anti-invecchiamento è coinvolta attivamente nella produzione di questo culto sociale della giovinezza. Essa trasforma sempre più l'invecchiamento, o gli effetti dell'invecchiamento, in una malattia curabile. Per fare questo, trova il terreno, e una corrispondente predisposizione psicologica, nei soggetti socializzati capitalisticamente, i quali possono essere trasformati in clienti solo su tale base. In questo senso, la medicina anti-invecchiamento diventa la logica conseguenza dell'ostilità del soggetto moderno nei confronti della vecchiaia, dal momento che egli non può concepire un'esistenza più indegna di essere vissuta di quella della vecchiaia.
La «lotta» contro la vecchiaia comincia sempre più presto. Per molte persone, la prima soglia critica del processo di invecchiamento viene raggiunta già all'età di 30 anni. Questo è particolarmente vero per le donne, che, come sappiamo, ricevono gran parte del riconoscimento sociale proprio grazie al loro bell'aspetto, e per le quali la vecchiaia è quindi doppiamente minacciosa, e diversa rispetto agli uomini. Il trattato di Simone de Beauvoir sulla vecchiaia illustra assai bene questo contesto legato al genere: «Un uomo virile non è preda dell'età; non gli viene richiesta né freschezza, né dolcezza, né grazia, ma la forza e l'intelligenza del soggetto conquistatore; capelli bianchi, rughe, non contraddicono questo ideale virile» [*71].
Susan Sontag (1975) ha poi trasposto questo concetto in quello di «duplice standard di invecchiamento». Secondo questo studio, le donne, a causa del loro orientamento identitario verso valori effimeri come la bellezza e l'attrattiva sessuale - a differenza degli uomini, il cui status sociale si basa su valori duraturi come il potere e la prosperità - sono esposte a una doppia emarginazione e discriminazione, sia sessista che legata all'età. Per loro, la perdita della bellezza giovanile è quindi praticamente sinonimo di perdita della femminilità. Non è un caso che le donne siano le principali clienti dell'industria della bellezza e dell'anti-invecchiamento, per quanto sempre più uomini si rivolgano ai suoi servizi [*72]. Spesso, alle donne, non correggere e abbellire il proprio corpo invecchiato sembra: «... una capitolazione morale e fisica alle ingiurie del tempo, e costituisce una gestione senza grazia del processo di invecchiamento. Il corpo che invecchia, e che non è stato migliorato dalla tecnologia [viene] considerato poco attraente, se non addirittura discutibile, oltre che ericoloso alla luce delle realtà sociali e fisiche dell'invecchiamento» [*73].
Le rughe sono probabilmente il più grande stigma dell'età delle donne, che le affrontano intensamente e precocemente. Non appena intorno agli occhi diventano visibili le prime «zampe di gallina», è il momento e il segnale per molte donne di applicare una serie potenzialmente più estesa ed elaborata di tecniche di camouflage e di antirughe per contrastare il cedimento della pelle del viso nel modo più efficace possibile. L'industria dell'anti-età e della bellezza fornisce i mezzi, i prodotti e i servizi appropriati per queste tecniche, graduati in base all'intensità del trattamento richiesto (make-up, creme antirughe, iniezioni di Botox, lifting chirurgico). Anche il mantenimento del peso e della forma, gioca un ruolo essenziale nella cura della bellezza femminile, sebbene il raggiungimento di questo standard in età avanzata si trovi ancora una volta associato a problemi e sfide molto specifici: le donne anziane che non prestano attenzione al proprio peso, si lasciano andare; le donne che prestano troppa attenzione, sono vanitose in modo inappropriato per la loro età [*74]. Per gli uomini, invece, l'accento viene generalmente posto meno sull'estetica che sulla funzionalità fisica. Anche in questo caso, i ruoli e le norme corporee specifiche del genere costituiscono la base, soprattutto perché nella società moderna i corpi maschili sono visti soprattutto come strumenti di azione, e gli uomini sono quindi tradizionalmente valutati soprattutto in base alla loro forza e alle loro prestazioni. L'incarnazione della performance maschile è la «virilità», la cui perdita segna quasi il culmine dell'incapacità, e rappresenta perciò il più temuto di tutti i disturbi maschili della vecchiaia. Negli ultimi decenni, in particolare, la «disfunzione erettile», comunicata attraverso il discorso medico e mediatico, è diventata la malattia della vecchiaia per eccellenza. Si tratta di un discorso legato a un enorme e crescente complesso medico-industriale [*75]. All'inizio di agosto 1999, l'azienda americana Pfizer aveva venduto solo in Germania 3,8 milioni di pillole di Viagra a circa 400.000 pazienti [*76]. Per cui, ciò significa per le donne la conservazione compulsiva della bellezza e della giovinezza, fino alla vecchiaia attraverso la cosmesi, il botox e la chirurgia plastica, e per gli uomini la possibilità di ottenere un'erezione in età avanzata, che viene fornita dal Viagra e compagnia. La forma estrema di questa lotta, progressiva e crescente, delle persone contro la vecchiaia (che la medicina anti-invecchiamento ora chiama apertamente «guerra») [*77], è rappresentata da quelle persone che si sono sottoposte a ripetuti interventi di chirurgia plastica, liftate al di là di poter poi essere riconosciute, lipo-scolpite, riempite di silicone e di altre protesi, come si può vedere periodicamente sulla stampa scandalistica, in vari talk show e nei «social media». Sebbene il soggetto medio «senza età», altrimenti disposto a fare qualsiasi cosa per combattere l'invecchiamento, spesso non può che voltarsi dall'altra parte con orrore. Questi personaggi, appaiono alla maggior parte delle persone semplicemente come «inautentici», «bizzarri», «esempi di estrema vanità, falsità e superficialità», i quali possono essere guardati solo «con un misto di orrore e pietà» [*78]. Eppure, nelle figure senza età dell'industria anti-invecchiamento, quel che prende vita è solo il «sé senza età» del soggetto moderno. In essi, la separazione tra il corpo che invecchia e il sé senza età raggiunge la sua forma più evidente di espressione. L'io è ridotto esclusivamente al corpo e il corpo deve essere ridotto, nel bene e nel male, all'«eternità», dal momento che il capitalismo richiede all'essere umano sempre più efficienza, produttività, attività, forma fisica e giovinezza.
La psicologia sociale del superfluo
Parallelamente alla crescente tendenza al «senza età» e alle relative tendenze anti-invecchiamento, l'etichetta di «superfluità» attribuita agli anziani, istituzionalizzata dalle case di riposo e trasmessa culturalmente e simbolicamente dai discorsi negativi sulla vecchiaia, si esprime in modo impressionante e sconvolgente a livello psicologico sociale. La caratterizzazione capitalistica della vecchiaia vista come superflua, è in genere la forza trainante della dissociazione socio-psicologica dalla vecchiaia. Per questo motivo, le persone rifiutano con veemenza e determinazione la vecchiaia, e non vogliono che essa diventi a tutti i costi parte della loro persona e della loro identità. Allo stesso tempo, questo senso di superfluità ha un impatto drammatico ed esistenziale sull'immagine di sé che quelle persone hanno, e si lasciano prendere dall'età (cosa inevitabile a lungo termine), ma che non hanno modo di reprimerla. Non esiste quasi alcuna conversazione, o intervista qualitativa con gli anziani sulla loro situazione di vita, in cui essi non ripetano e insistano sul fatto che non possono immaginare nulla di peggio che essere un peso per gli altri a causa della loro età, sia dal punto di vista finanziario che da quello della dipendenza [*79].
Si tratta di un'espressione della superfluità dell'età, che è penetrata nel soggetto e si manifesta nella paura della «bocca inutile da sfamare che sa che la società la tollererà solo con delle riserve». Queste persone, addirittura non possono nemmeno aspettarsi una solidarietà illimitata dalle proprie famiglie. Per questo motivo, percepiscono la casa di riposo soprattutto per quello che è: un magazzino dove vengono depositati coloro che, a causa del declino fisico e mentale dovuto all'età, rappresentano un peso eccessivo per i loro parenti. La casa di cura è spesso associata a una privazione della libertà, da parte di coloro per i quali la «deportazione» diventa una possibilità che viene anticipata con orrore. Lo stesso non si può dire per gli internati stessi. Qui il superfluo sembra finalmente essersi integrato nella loro identità, e queste persone non possono pertanto fare altro che essere grate per ogni cura e attenzione occasionale, impersonale e freddamente professionale che ricevono nel settore dell'assistenza, sempre più commercializzato e monetizzato [*80]. Al contrario, il mantra per gli anziani che sono ancora sufficientemente in grado di aiutarsi da sé soli e che vivono a casa è quello di: «Non andare in una casa di riposo» [*81]. La sensazione di essere «superflui», e il timore di essere percepiti come un peso dalla famiglia o dalla società, spesso raggiungono una profondità tale che gli anziani preferiscono morire, o porre fine alla propria vita. Ciò si riflette, ad esempio, in un forte aumento del tasso di suicidi tra gli anziani [*82].
In particolare, gli uomini anziani ricorrono al suicidio con una frequenza superiore alla media, con un tasso di suicidio tra gli uomini di età superiore agli 85 anni che è di gran lunga il più alto: in Austria, ad esempio, è cinque volte superiore a quello di tutti gli uomini austriaci [*83]. Ciò che rende per gli uomini la vecchiaia così insostenibile è che, a causa della loro socializzazione e individuazione specifica di genere, essi si caratterizzano attraverso la loro professione e carriera. Pertanto, la loro auto-percezione è alimentata principalmente dalla loro posizione durante la lunga fase lavorativa. Per gli uomini in età avanzata è particolarmente difficile affrontare il fatto di non essere «più necessari». Ragion per cui sono soprattutto gli uomini a soffrire particolarmente per il loro pensionamento [*84]. A ciò si aggiunge l'alto valore attribuito alla funzionalità fisica nell'immagine di sé che hanno gli uomini. Oltre all'incapacità di soffrire, indotta loro dalla società, gli uomini sono molto più predisposti delle donne a suicidarsi in età avanzata. Ancor più che nei casi di suicidio, la sensazione della «superfluità», legata alla vecchiaia che si impossessa del soggetto, si manifesta attraverso quella che viene chiamata «estinzione»: le persone anziane smettono semplicemente di mangiare e bere. Anche in questo caso, le persone agiscono spesso per «stanchezza, disperazione o demotivazione: "Non sono più necessario, sono superfluo - preferisco andarmene!"» [*85]. «Non essere più un peso» costituisce una forte motivazione per porre fine alla propria vita, sebbene nel "«digiuno di morte» gli anziani non si suicidano attivamente, ma cercano una via d'uscita «naturale» e non violenta. In tale contesto vanno menzionate anche le forme di morte psicogena, quando le persone anziane muoiono per la rottura della volontà di vivere. In questi casi è, per così dire, la «superfluità» stessa a uccidere gli anziani. In questi casi «i bisogni e le possibilità di sviluppo dell'individuo [...] sono limitati a tal punto che egli non ha alcuna speranza di cambiare la situazione e di condurre una vita soddisfacente». Si trova in una situazione di tunnel o di gabbia, e cerca la redenzione in una morte che viene scelta a partire dalla pura immaginazione [...]» [*86].
Quanto detto finora sulla sensazione di «non essere più necessari» e sulla paura degli anziani di «diventare un peso», è in linea di principio generalmente noto, e gode dello status di evidenza empirica anche in gerontologia. L'abbondanza di materiale empirico e l'evidenza dei tanti riferimenti alla soggettività spezzata degli anziani, vista come conseguenza della loro superfluità socialmente condizionata, sono proporzionali alla massa delle definizioni di quei problemi gerontologici che neutralizzano scientificamente i momenti critici e i fatti contenuti nel materiale empirico. In questo modo, la possibilità di raggiungere una comprensione più profonda e una critica adeguata dei fenomeni corrispondenti viene negata fin dall'inizio. Bisognerebbe che prima si constatassero gli stati di sofferenza corrispondenti, identificati in quanto tali e presi in considerazione nella loro condizionalità sociale. Invece, nell'ambito della gerontologia, i risultati ottenuti vengono utilizzati come opportunità al fine di prescrivere delle attività significative (e quindi, soprattutto, socialmente utili) per gli anziani e/o per chiedere alla «società» di creare le adeguate opportunità di «partecipazione sociale» per gli anziani, in modo che essi abbiano di nuovo la «sensazione di essere utili» [*87]. La sensazione di «essere necessari» viene addirittura proclamata come se fosse una parte quasi naturale della loro «struttura dei bisogni», e viene fatto a partire dalla schiacciante evidenza empirica con cui i sentimenti corrispondenti possono essere osservati nelle persone anziane [*88]. Per anni, in gerontologia, sono stati usati questi e altri argomenti simili, ad esempio, per legittimare la diffusione dell'«impegno civico» degli anziani in pensione, il quale in questo modo - come si dice - non solo ha un beneficio sociale diretto, ma offre anche, agli anziani in particolare, la possibilità di sviluppare il loro potenziale di attività e di poter continuare ad essere coinvolti nella società [*89]. In tal modo, invece di mettere in discussione criticamente le aspettative sociali in materia di produttività, prestazione e utilità su cui si basa la rappresentazione socio-psicologica del «superfluo» riferito alle persone anziane, quest'ultime dovrebbero, per così dire, essere ricondotte, almeno in parte, all'interno del principio sociale della performance e del lavoro. O per dirla in modo ancora più preciso: si dichiara che la causa della sofferenza psicologica, ossia la dissociazione della vecchiaia imposta sui soggetti - vale a dire, dover essere necessari e non essere un peso per poter essere così considerati membri a pieno titolo della società - sarebbe il rimedio a tutto questo. E in questo senso. la gerontologia non ha nemmeno torto, se si considera che la situazione psicologica delle persone anziane dimostra che è proprio la mancanza del senso di utilità a ridurre notevolmente il loro «benessere». L'insaziabile desiderio di essere utili (in particolare per quel che riguarda funzioni sociali quali il lavoro, il volontariato, ecc.) sembra comunque richiedere qualche spiegazione. Se viene fatto passare per la premessa, irriflessa, della ricerca, allora si nascondono sistematicamente le vere cause del problema. La stessa cosa vale per molti altri comportamenti e affermazioni di persone anziane, le quali si riferiscono direttamente alle conseguenze socio-psicologiche derivanti dalle pressioni identitarie del lavoro e della performance sotto il capitalismo, che richiedono, quasi gridando, di venire analizzate in maniera critica. Un esempio classico è quello dello «shock pensionistico». Qui si fa riferimento al fenomeno per cui a volte, dopo il pensionamento, le persone sembrano come cadere nel vuoto, talvolta persino nella depressione, e questo a causa della perdita di una vita strutturata che decenni di vita lavorativa aveva garantito loro, e che spesso costitutiva un elemento centrale della loro vita. Questo problema, così come lo è la vita in generale quando si è in pensione, rappresenta uno dei temi principali della ricerca gerontologica (sociale). Tuttavia, in una visione positivista-empirica del problema, come lo è quella della gerontologia, un tale fenomeno non viene visto come se fosse un oggetto da esaminare criticamente, a causa del condizionamento sociale, ma serve, al contrario, come prova empirica della funzione significativa del lavoro, e della necessità di continuare un'attività anche quando si è in pensione [*90]. Alcuni gerontologi arrivano persino addirittura de pensionamento come se fosse un «Vergesellschaftungslücke» [ un «gap di socializzazione»]. Insieme al lavoro scomparirebbe una struttura essenziale, che fino ad allora aveva avuto un'influenza decisiva sulla vita, e grazie alla quale le persone sono «stimolate, sollecitate, e pertanto "coinvolte" nell'azione» [*91]. In una simile prospettiva, cosa c'è di più ovvio se non chiedere che il divario venga colmato per mezzo di nuove «strutture e programmi sociali»? [*92]. Quel che si suggerisce, è di prolungare la carriera lavorativa, o l'impegno civile durante la pensione. Da un punto di vista gerontologico, il tempo liberato dal pensionamento viene automaticamente visto - dal momento che le persone stesse non sono ovviamente in grado di farlo - come un «compito che deve essere definito dalla società» [*93]. E la concezione che la società ha della vecchiaia e del pensionamento implica, come prima cosa, la creazione di strutture che diano agli anziani l'opportunità e la possibilità di identificarsi come socialmente utili, attraverso attività socialmente utili, in modo che possano così continuare a essere membri a pieno titolo della società. L'aspetto potenzialmente scioccante di questo punto di vista, secondo cui le persone private del proprio lavoro spesso non sanno più cosa fare di sé stesse e del proprio tempo, essendo disgregate nella loro personalità, è il fatto che il problema viene eliminato in maniera coerente, sorvolando su di esso grazie a questo modo di porre il problema. Anche in questo caso, lo schema è sempre il solito: alla fine, ciò che spinge le persone oltre il limite e le riduce a delle mere «maschere di carattere» (Marx) dello sfruttamento del capitale - la performance, la produttività e l'attività in quanto valori centrali e requisiti ineludibili del lavoro astratto - viene ancora una volta segretamente dichiarato come l'incarnazione di un'identità anagrafica globale per avere successo. Ciò evidenzia come la modesta identità personale che viene concessa alle persone in base alle premesse capitalistiche del lavoro astratto, in realtà sia ritenuta la forma più naturale e più alta di identità che le persone possono raggiungere, anche in quella che è l'età «senza oneri». Ciò si esprime in particolare in quei concetti di «invecchiamento attivo» e di «invecchiamento produttivo», che la gerontologia diffonde e propaganda incessantemente da anni e che vengono presentati come nuovi modelli positivi di vecchiaia che offrirebbero agli anziani opportunità di vita completamente nuove [*94]. Tuttavia, il «pensionato attivo» e il «pensionato irrequieto», tanto invocati dalla gerontologia odierna, che riempiono il loro tempo libero di pensionati con un'attività ininterrotta, possono essere visti più come la prova vivente del fallimento di un'identità pensionistica «di successo», che come l'antitesi del pensionato «sconvolto dalla pensione». Chi è che nel capitalismo incarna meglio, e in modo più impressionante, l'alienazione e il vuoto della vita e dell'invecchiamento, se non il «pensionato attivo», colui per il quale l'attività incessante e l'etica del lavoro dell'esistenza basata sulla valorizzazione del mercato, sono diventate talmente parte della sua carne e del suo sangue che egli non riesce più a liberarsene, anche quando da tempo si è liberato dai suoi vincoli?
La motivazione e l'inquietudine con cui molti pensionati vivono la loro vita quotidiana, è soprattutto il segno dell'incapacità di definire sé stessi e la propria vita al di fuori della dominante e pervasiva etica del lavoro acquisita nel corso della propria vita (professionale). E le stesse attività che le persone anziane svolgono durante il pensionamento, di solito, ne sono già di per sé la prova. O la struttura di queste attività è semplicemente un'estensione del lavoro alla pensione, oppure la funzione di queste attività, fin dall'inizio, è quella di compensare l'assenza di un'occupazione individualmente e socialmente significativa. L'organizzazione della vita quotidiana in pensione assume spesso la forma di «terapia occupazionale».
«Il pensionato e la pensionata possono finalmente cominciare a realizzare i propri sogni di gioventù che sono stati rimandati, e le opportunità di vita non sfruttate, ma di solito questo si riduce a un'eccessiva attività di pulizia e in un altrettanto eccessivo bricolage. Tutto il resto viene sepolto» [*95]. Negli anni '80, il sociologo David Ekerdt (1986) ha considerato questa strana propensione a rimanere attivi che hanno gli anziani, usando il termine appropriato di «etica», una sorta di etica dell'attività della vecchiaia, che è un derivato, o un'estensione alla pensione, dell'etica del lavoro capitalista . L''«etica dell'occupazione» è l'etica del lavoro che nasce nella pancia delle persone, della quale, dopo una lunga vita lavorativa, non ci si può più liberare, per quanto ci si sia già socialmente affrancati da essa, come persone anziane o come pensionati. Rappresenta la conseguenza immediata, logica e pertanto necessaria di una società nella quale le persone - per dirla con Adorno - vengono ridotte a essere delle funzioni nel processo di sfruttamento del capitale e imparano a essere riconoscenti, finché hanno tale funzione [*96]. Ed è questo il motivo per cui quando perdono la loro funzione sociale rimangono praticamente privi della loro identità.
Riflessione finale
L'obiettivo di questo testo, era quello di presentare in forma estremamente sintetica e approssimativa una teoria critica della vecchiaia e dell'invecchiamento a partire dalle premesse della socializzazione capitalista. Ma ci sono molte cose che possono essere discusse solo in modo molto superficiale, mentre alcuni aspetti rilevanti devono essere tralasciati per motivi di spazio, e dovranno essere trattati in dettaglio altrove. Oltre all'improduttività e all'onere finanziario della vecchiaia, c'è un altro aspetto centrale che non è stato ancora affrontato. Nel discorso moderno sull'invecchiamento, la vecchiaia viene vista come una malattia. E questa è la componente divulgativa della medicina anti-invecchiamento, la quale ora sta ridefinendo la vecchiaia come una «meta-malattia biologica molecolare curabile» [*97]. Anche la paura della morte, che fa parte della condizione umana e che favorisce il rifiuto dell'età o delle età, e che è strettamente legata ad essa, è stata esclusa dalla presentazione. Questa paura, tuttavia, nella modernità e nella postmodernità assume forme estreme di repressione della morte, nelle quali sono compresi anche gli sforzi scientifici per sconfiggere la morte e creare l'immortalità [*98]. Pertanto, anche questo aspetto potrebbe essere teoricamente collegato alla forma storicamente specifica di socializzazione capitalistica. Nella "Dialettica negativa", ad esempio, Adorno attribuisce la tendenza dei moderni a reprimere la morte, al fatto che nelle società capitalistiche la morte viene ridotta a mero agente di scambio, cosa che già di per sé vieta sistematicamente una vita autodeterminata e felice:
«Quanto meno i soggetti ormai vivono, tanto piú è improvvisa, terribile la morte. Dal fatto che essa li trasforma letteralmente in cose, essi si accorgono della loro morte permanente, la reificazione, la forma da loro concausata delle loro relazioni. [...] Viene annientata una nullità in sé e forse anche già per sé. Da qui il panico permanente davanti alla morte. Non lo si può piú placare se non con la rimozione di essa» [*99].
In altre parole, è il vuoto incolmabile dell'esistenza basata sulla produzione di plusvalore - l'integrazione delle persone nelle funzioni di un processo egoistico e intrinsecamente «insensato» di sfruttamento del capitale - a rendere il pensiero della morte così insopportabile. L'idea che l'esistenza determinata dal lavoro, dal consumo e dalla lotta quotidiana per la carriera e per le opportunità di vita possa essere forse tutto,vale a dire, l'intera vita che viene concessa a una persona nelle condizioni sociali date, fa sì che le persone sentano la propria finitezza come un enorme sforzo che può essere sopportato solo grazie a una massiccia rimozione. Questo, insieme alle pressioni identitarie specificamente capitalistiche incentrate sul lavoro, e derivanti da esso, come la produttività, l'attività, la forma fisica e l'indipendenza, sono alla base della tendenza sociale e individuale a posticipare e a allontanare la vecchiaia/l'invecchiamento.
Questo contributo teorico, si concentra sulla tesi secondo cui le società capitaliste sono, per loro stessa natura, società strutturalmente ostili alla vecchiaia. I fenomeni di ostilità e di discriminazione legati all'età, devono pertanto essere considerati criticamente e vanno teorizzati e visti come effetti necessari della socializzazione capitalista. Questo era anche l'obiettivo del concetto di dissociazione della vecchiaia, il quale è stato concepito come modo di definire quello che è un principio attivo a tutti i livelli della società, sia materiale-strutturale che culturale-simbolico e socio-psicologico. Esso produce uno status profondamente negativo e inferiorizzante della vecchiaia. Lo status di inferiorità deriva principalmente dalla «superfluità» delle persone anziane per il lavoro, il quale nelle società capitaliste, non è solo strutturalmente, ma anche normativamente centrale. Con i suoi standard di rendimento e produttività, costituisce il criterio principale per misurare il «valore» sociale di una persona.
L'inferiorità sociale viene espressa anche a partire dai discorsi negativi sulla vecchiaia (connotazione predominante della vecchiaia con «improduttività» e «peso» sociale) e attraverso la necessità soggettiva di negare e allontanare la vecchiaia/l'invecchiamento. Sono proprio i fenomeni a livello socio-psicologico, come l'attuale crescente tendenza alle pratiche anti-invecchiamento, o la diffusa sensazione tra gli anziani di «non essere più utili», a rendere particolarmente evidente la radicata negazione e l'inferiorità della vecchiaia nelle società capitalistiche: «Essere vecchi» è una condizione nella quale, con le premesse del capitalismo, non si può vivere. Per i «vecchi», in particolare, questo status è accettabile solo nella misura in cui riescono a tenere la vecchiaia, con tutte le sue implicazioni, lontana da sé e dalla propria persona. In generale, il concetto di «dissociazione» dalla vecchiaia, adottato in questo contributo alla spiegazione teorica della negazione specificamente moderna della vecchiaia, raggiunge il suo vero significato solo sul piano socio-psicologico in una radicale rimozione dell'invecchiamento. Infatti, il bisogno profondo dei soggetti di rimuovere l'età o l'invecchiamento indica, per così dire, una tendenza a «dissociarsi» dalla vecchiaia; cosa che, in quanto processo, è inseparabile dall'esistenza fisica dell'uomo. La vecchiaia viene così «separata da sé stessi», una strategia che, data la finitezza della vita umana, non solo è destinata al fallimento, come si vede nelle forme estreme di anti-invecchiamento, ma è altamente autodistruttiva.
- Andreas Stückler [***] - 1 novembre 2020 - FONTE: LAVAMEDIA
[***] - Andreas Stückler è un sociologo austriaco che si occupa di teoria sociale critica. Dal 2016 ha pubblicato articoli su "Invecchiamento attivo" e "Mondo del lavoro", e i suoi lavori sono apparsi in varie riviste tedesche e austriache. Il presente articolo viene pubblicato per la prima volta su Kritiknetz [ https://www.kritiknetz.de/soziologie/1464-die-dissoziation-des-alters ] e si basa sul suo progetto di tesi sullo sviluppo di una teoria critica della vecchiaia e dell'invecchiamento.
NOTE:
[*1] . Cette théorie est élaborée de manière beaucoup plus détaillée dans mon projet de thèse actuel. La présente contribution n’est qu’une esquisse très sommaire de ce travail théorique.
[*2] - Cf. par exemple Adorno 2003a.
[*3] - Horkheimer 1937 : 261.
[*4] - Cf. Phillipson 1982 ; Kohli 1985 ; Conrad 1994 ; Laws 1995 ; Göckenjan 2000 ; Scherger 2015.
[*5] Sull'«invecchiamento attivo» visto come «modo di pensare la vecchiaia» attualmente dominante (Göckenjan 2000 : 362), si veda l'esempio di Walker 2002 ; OMS 2002 ; Boudiny 2013 ; Critically Dyk 2007 ; Lessenich 2009 ; Denninger et al. 2014 ; Stückler 2016, 2017.
[*6] - Ehmer 1990 : 26.
[*7] - Ivi. : 27.
[*8] - Questa definizione storica è, a rigore, imprecisa, dal momento che per le società premoderne si può già parlare di "lavoro" in senso moderno - cioè nel senso di lavoro salariato o "lavoro astratto" - o per niente o solo in una forma molto grossolanamente sovraccarica e in un uso del termine insensibile alle differenze storiche. Una discussione più dettagliata di questo problema sarebbe tuttavia eccessiva in questa fase. Ciò che è importante per il contesto in questione è che la vecchiaia come fase della vita nasce solo attraverso l'esclusione degli anziani dal lavoro salariato capitalista.
[*9] - Cf. Ariès 1984.
[*10] - Eisenstadt 1966.
[*11] - Cf. Gruschka 2004: 260.
[*12] - Kohli 1992 : 238.
[*13] - Cf. Rosenmayr 1978 ; Brandt 2002 ; Hermann-Otto 2004.
[*14] - Piccola casa nell'aia della fattoria, per i contadini anziani che avevano lasciato l'edificio centrale della fattoria.
[*15] - Cf. Gestrich 2004 : 65.
[*16] - Cf. Hermann-Otto 2004 : 11f.
[*17] - Hradil 2012 : 43.
[*18] - Weigl 2011 : 117.
[*19] - In questo caso, ovviamente, bisogna tenere conto anche del tasso di mortalità infantile, che nel XIX e all'inizio del XX secolo era ancora piuttosto elevato. Se si escludono statisticamente i bambini, la differenza rispetto all'aspettativa di vita prevalente oggi (nei Paesi industrializzati occidentali) non sembra più così drammatica, anche se è ancora notevole. Nella sua descrizione dell'aspettativa di vita in Austria intorno al 1910, Weigl riporta anche l'aspettativa di vita aggiuntiva delle persone di 15 anni e oltre, che era di circa 45 anni per gli uomini e di circa 47 anni per le donne. Ciò significa che chi è sopravvissuto all'infanzia aveva una buona probabilità statistica di raggiungere i 60 anni in Austria all'inizio del XX secolo.
[*20] - Borscheid 1989 : 7.
[*21] - Ehmer 1990 : 65.
[*22] - Cf. Nipperdey 1994: 291-334.
[*23] - Le lotte del movimento operaio per il riconoscimento e il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita, grazie alle quali erano già stati ottenuti miglioramenti in molti altri settori, come i salari, gli orari di lavoro, il divieto del lavoro minorile, ecc. D'altra parte, l'introduzione dell'assicurazione pensionistica generale sembra aver avuto anche un certo effetto stabilizzante sulla classe dirigente, come dimostra la seguente affermazione di Otto von Bismarck, il primo cancelliere tedesco e "padre" del sistema pensionistico tedesco: "Chi ha una pensione per la sua età è molto più contento e molto più facile da trattare", disse [Bismarck, A. S.], e in particolare una pensione statale avrebbe insegnato "anche all'uomo comune" a "considerare il Reich come un'istituzione caritatevole"" (Ehmer 1990: 93). Va aggiunto che l'introduzione da parte di Bismarck dell'assicurazione pensionistica obbligatoria, all'insegna del motto "bastone e carota", andò di pari passo con una legislazione che mirava deliberatamente a schiacciare il movimento operaio (ad esempio la cosiddetta "legge socialista" del 1878 "contro gli obiettivi socialmente pericolosi della socialdemocrazia"), mentre con le concessioni sociali come l'assicurazione pensionistica "la classe operaia doveva allo stesso tempo essere conquistata allo Stato monarchico" (Kohlmeier 2009: 5).
[*24] - Rosenmayr 1983.
[*25] - Göckenjan 2000 : 331.
[*26] -In Austria, ad esempio, questa cifra sta aumentando (tenendo conto delle pensioni dei dipendenti pubblici) di circa 20 miliardi di euro all'anno, cfr. Kucsera/Nagl 2019.
[*27] - Ciò si evince, ad esempio, dalle "Linee guida per l'invecchiamento attivo" pubblicate dal Consiglio dell'Unione Europea, che mirano principalmente a mantenere le persone al lavoro più a lungo (cfr. Consiglio dell'Unione Europea 2012).
[*28] - Stückler 2017: 92.
[*29] - Voir Wehlau 2012 ; Ebbinghaus 2018.
[*30] - In Austria, ad esempio, l'età effettiva di pensionamento è ancora relativamente ben al di sotto dell'età legale di pensionamento di circa 60 anni.
[*31] - Cf. Messerschmidt 2015 ; Stückler 2019 : 5-11.
[*32] - « demographische Aufrüstung » Kondratowitz 2009: 257.
[*33] - Anche nei tempi migliori della previdenza per la vecchiaia, le donne in particolare erano molto più a rischio di povertà in età avanzata e oggi, in tempi di precarizzazione neoliberista, sono di nuovo particolarmente colpite dalla povertà in età avanzata (cfr. Butterwegge/Hansen 2012).
[*34] - Pour plus de détails, voir Urban 2020. .
[*35] - Ehmer 1990 : 40.
[*36] - Foucault 1994, 2013.
[*37] - Foucault 1994 : 279.
[*38 - Foucault 1983 : 168.
[*39] - Foucault 2013 : 487.
[*40] - Borscheid 1989 : 438.
[*41] Per la storia dell'ospedale, si veda Foucault 1976.
[*42] - Voir Conrad 1994 : 179 ; Heinzelmann 2004 : 17f.
[*43] - Heinzelmann 2004 : 18.
[*44] - Cf. l’exemple de Marx 2012.
[*45] - Wurm 2016 : 199.
[*46] - Ibid. : 207 et suivants.
[*47] - Gubrium/Holstein 1999 : 521.
[*48] - Ibid. : 142.
[*49] - Questa logica non è negata nemmeno dalle badanti impegnate che certamente esistono e che, contro tutte le aspettative di un sistema di assistenza, si sforzano sempre più onestamente, in ogni singolo caso, di trattare con calore e umanità le persone non autosufficienti loro affidate. Spesso, però, anche in questo caso, il risultato finale è la costruzione di un'etica del lavoro idealizzata che permette di affrontare la difficile attività quotidiana di assistenza senza essere completamente disperati e senza annegare completamente in essa come badanti (Kersting 2011).
[*50] - Cf. Eisenberg 1999
[*51] - « Better for old to kill themselves than be a burden, says Warnock », The Times, 12 décembre 2004.
[*52] - Ad esempio, una dichiarazione dello scrittore inglese Martin Amis, pubblicata sul Guardian del 24 gennaio 2010, è risultata decisamente grottesca quando ha suggerito che, alla luce degli sviluppi demografici, dovrebbero essere installate negli spazi pubblici delle "cabine per l'eutanasia", ovvero una sorta di cabina telefonica in cui gli anziani possano suicidarsi per non diventare un peso per la società. L'attuale crisi della Corona genera chiaramente anche discorsi molto rivelatori sullo status "senza valore" degli anziani in una società del lavoro capitalista dominata da criteri di utilità e redditività economica (cfr. Stückler 2020). Negli Stati Uniti, il coronavirus viene addirittura cinicamente descritto come un "estrattore di baby boom", cioè come un gradito "risolutore di problemi" in vista del cambiamento della piramide delle età (nella percezione della società) causato in particolare dall'invecchiamento della generazione del baby boom. Qui, quindi, i discorsi attuali nel contesto della crisi COVID-19 si fondono con i discorsi demografici nel senso di una "società che invecchia".
[*53] - Voir aussi Loenen 2014 : 106ff.
[*54] - Voir Lamers/Williams 2016.
[*55] - Cf. Ehmer 1990 : 65.
[*56] - Voir Dyk et al. 2010.
[*57] - Ehmer 1990: 209s. A rigore, l'idea di una "funzione di formazione del valore" ha senso solo nel contesto delle premesse capitalistiche. Infatti, il "valore" attribuito alle attività umane come "lavoro salariato" è attribuito non tanto dalla produzione di beni di consumo utili, quanto dalla loro funzione di produrre ricchezza monetaria astratta (espressa in termini economici, ad esempio, come "prodotto nazionale lordo" o "crescita economica"). Si tratta di una funzione caratteristica esclusivamente delle condizioni di produzione capitalistiche che sarebbe del tutto incomprensibile per l'uomo pre-moderno e apparirebbe del tutto folle.
[*58] - Per maggior dettagli su ciò che segue, vedi Stückler 2019, en particulier les pages 5-11.
[*59] - Schimany 2003.
[*60] - si veda OCDE 2000 ; Walker 2002 ; Walla et al. 2006 ; Bauernberger et al. 2009 ; Börsch-Supan 2009 ; Sachverständigenrat 2011.
[*61] - Kohli 2008 ; Tremmel 2009 ; Torp 2015.
[*62] - Cf. Niehaus 2006 ; Breyer 2014 ; Bosbach/Bingler 2008.
[*63] - Cf. Critical Moody/Sasser 2015 : 167ff.
[*64] - Pousset 2018 : 33.
[*65] - Nel suo trattato sul gerontocidio, Pousset distingue tra forme attive e passive di "senio-eutanasia", intendendo con ciò l'uccisione di persone anziane da parte di altri (ad esempio parenti o badanti). L'"eutanasia passiva" si differenzia dall'eutanasia "attiva" in quanto non provoca attivamente e deliberatamente la morte dell'anziano (come, ad esempio, nel caso delle forme attive di eutanasia), ma si limita ad accettarla, ad esempio, per omissione, interruzione delle cure, negligenza o esposizione mediatica (ad esempio, morire di fame e/o di sete).
[*66] - Non è un caso che la legittimazione utilitaristica dell'uccisione di persone anziane, malate e bisognose, non solo sulla base di interessi sociali, ma anche e soprattutto sulla base della dignità umana e dell'autonomia delle persone interessate, faccia direttamente parte della natura dei moderni discorsi sull'eutanasia.
[*67] - Ibid. : 379.
[*68] - Par exemple Thompson et al. 1990 ; Öberg 1996 ; Graefe 2013.
[*69] - Featherstone/Hepworth 1991 : 382.
[*70] - Cf. Vincent 2006 ; Fish- man et al. 2008 ; Spindler 2009.
[*71] - Beauvoir, 1970, p315.
[*72] - Voir Ginn/Arber 1993 ; Öberg 2003 ; Hurd Clarke/Griffin 2007 ; Hurd Clarke 2010 ; Höppner 2011 ; Holstein 2015 ; Denninger 2018.
[*73] - Hurd Clarke/Griffin 2007: 198.
[*74] - Cf. Hurd Clarke 2002.
[*75] - Cf. Marshall/Katz 2002 ; Calasan- ti/King 2005.
[*76] - Schroeter 2012 : 206.
[*77] - Cf. Grey 2004 ; critiqué par Vincent 2007.
[*78] - Hurd Clarke/Griffin 2007 : 198.
[*79] - Cf. exemple Pleschberger 2005.
[*80] - Anche i valori di soddisfazione delle case di cura, studiati scientificamente, sono elevati, cfr. Cott/Fox 2001; Albrecht 2003.
[*81] - ÖPIA 2015 : 191.
[*82] - Cf. Kapusta 2012 ; Lindner/Fiedler 2014 ; Fiske et al. 2015.
[*83] - Kapusta 2012 : 10.
[*84] - Voir Gutmann 1972 ; Böhnisch/Winter 1993 ; Clemens 2012 ; Damman et al. 2015.
[*85] - Pousset 2018 : 29.
[*86] - ibid. : 31.
[*87] - Voir Lehr 1993 ; Stevens 1993 ; Gottlieb/Sevigny 2016.
[*88] - Heyl et al. 1997.
[*89] - Cf. Kohli et al. 1993 ; BMFSFJ 2006 ; Generali Deutschland AG 2017.
[*90] - Cf. Baltes/Montada 1996 ; Staudinger/Schindler 2002 ; Weiss/Bass 2002 ; Mergenthaler et al. 2019.
[*91] - Kohli et al. 1993 : 35.
[*92] - Ibid.
[*93] - Bröscher et al. 2000.
[*94] - Cf. Walker 1999, 2002 ; cErlinghagen/Hank 2008 ; Boudiny 2013.
[*95] - Eisenberg 2019.
[*96] - Adorno 2003a : 10.
[*97] - Spindler 2009 : 382.
[*98] - Cf. exemple Shostak 2002; Immortality Institute 2004; Welsch 2015. In questo contesto si inserisce anche l'ideologia del transumanesimo, sempre più diffusa negli ultimi anni, che mira a ottimizzare e perfezionare l'essere umano con l'aiuto di tecnologie biologiche e informatiche (in particolare Becker 2015).
[*99] - Adorno 2003b : 363.
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