Emersa dalla tradizione orale dei Sumeri nel terzo millennio a.C., e tramandata per migliaia di anni da molti popoli del Vicino Oriente su tavolette d’argilla scritte in caratteri cuneiformi, l’epopea di Gilgamesh si pone alle origini stesse della letteratura mondiale. Re di Uruk, Gilgamesh è infatti il primo eroe a partire in cerca di avventure, a uccidere mostri, sfidare gli dèi, viaggiare ai confini della terra deciso a conquistarsi con le sue gesta un nome imperituro. Ma quando la morte gli strappa Enkidu, il compagno per eccellenza, Gilgamesh, atterrito e ormai solo, affronta l’impresa che travalica ogni altra: la ricerca del segreto della vita eterna – un segreto che solo Utnapishtim, l’unico sopravvissuto al Diluvio Universale, può insegnargli. Farà infine ritorno a Uruk a mani vuote, ma ricco di una nuova consapevolezza: la morte è il destino ineluttabile che gli dèi hanno assegnato all’uomo, e nel godimento di questa vita effimera risiede la sua sola saggezza.
(dal risvolto di copertina di: "Gilgamesh". Edizione a cura di Andrew George. Traduzione di Svevo D’Onofrio. Biblioteca Adelphi, 724. 2021, pp. 308, € 24,00)
Alle origini di Gilgamesh
- L’epopea del re-semidio racconta la genesi delle civiltà. E la scoperta della morte -
di Sandro Modeo
All’apparire di una delle prime traduzioni moderne del Gilgamesh (1916), un estasiato Rainer Maria Rilke lo connotava come Epos der Todesfurcht, «l’epopea della paura della morte». Il riferimento era alla dorsale del racconto: lo shock depressivo provato dal re-semidio di fronte alla perdita dell’amico fraterno Enkidu e il successivo, lungo viaggio alla ricerca dell’immortalità, votato al fallimento e all’accettazione del limite biologico. Quello è, in effetti, il motivo dominante: per certi aspetti, anzi, sembra che una delle forme di scrittura più antiche del Sapiens (il cuneiforme inciso su tavolette d’argilla) si emancipi dall’uso amministrativo soprattutto per esprimere quel break di consapevolezza della specie. Un break, «la paura della morte», che emerge almeno col Neanderthal (ma probabilmente molto prima) e che una prospettiva neuro-evoluzionistica identifica come «effetto secondario» di acquisizioni adattative come la memoria: solo la possibilità di discriminare il tempo nel cervello (passato, presente, futuro) permette a un certo punto all’individuo di immaginare la propria fine.
Ma come ricorda l’eminente assiriologo Andrew George nella densa introduzione all’edizione più completa oggi disponibile del Gilgamesh (traduzione di Svevo D’Onofrio, appena uscita per Adelphi), molti altri motivi attraversano l’epos. Una polivalenza esaltata proprio da questa edizione, dal momento che George da un lato integra le lacune della «versione standard» posta in apertura (Colui che vide il profondo, il testo redatto dall’esorcista sciamano Sin-leqi-unninni fra il XIII e XI secolo avanti Cristo, la più parte arrivata attraverso le collezioni delle biblioteche ninivite di Assurbanipal, VII secolo) con altre anteriori, sempre in accadico; dall’altro, raduna poi i materiali di quelle e altre versioni (da Babilonia e da tutto il Medio Oriente), aggiungendo in un’ultima sezione i «cinque poemi» in sumerico, rimasta a lungo la lingua scribale per eccellenza anche dopo aver ceduto il passo all’accadico nel parlato; poemi ricchi di sequenze originali, tra cui l’elezione del «fantasma» di Gilgamesh (lì, Bilgamesh) a «governatore degli Inferi», in un’ironica acquisizione di immortalità negata dalle altre versioni. Il tutto rimarcando, attraverso un avvincente tour de force archeologico-filologico, come alle spalle dei testi incisi — sia in sumerico che in accadico — soffi il vento di plurisecolari narrazioni orali: canti di corte insieme ipnotici e didascalici, forse trascritti per la prima
volta durante la Terza Dinastia di Ur, sei secoli dopo la Prima, cui apparterrebbe lo stesso Gilgamesh «personaggio storico» (che avrebbe regnato intorno al 2750 avanti Cristo).
Restando in una prospettiva biologico-evoluzionistica, molti di quei motivi sono riconducibili al situarsi dell’epos sul finire della transizione neolitica, estesa all’incirca tra il XII e la metà del IV millennio a.C., di cui il testo rifrange ogni tratto: l’adozione di nuove tecnologie agrarie (l’aratro la domesticazione di piante e animali (orzo e grano, buoi e cani), e la stanzialità di vasti aggregati urbani come Ur, Uruk, Nippur. Di più, gli eventi si distendono lungo una dimensione borderline tra arcaismo e civiltà, anarchia e diritto, in ultimo tra natura e cultura, con cortocircuiti paradossali: il «selvaggio» Enkidu, l’uomo della steppa, il nomade che non conosce il pane, si ribella a Gilgamesh fino allo scontro fisico (prima di diventarne il «doppio» inseparabile), infuriato per lo ius primae noctis che il re-semidio esercita sulle spose del regno.
Quest’attenzione al contesto aiuta a ricondurre tanti passaggi decisivi del racconto alle loro ragioni soggiacenti (in generale naturalistico-materialistiche, nel dettaglio soprattutto socioeconomiche) senza che tale riconduzione scheggi minimamente la suggestione incessante del dettato, della trasposizione mitico-simbolica e letteraria di quelle ragioni, facendo dialogare il nostro sguardo con quello dei contemporanei dell’epos. Così è, ad esempio, per il «bisogno di legname» che spinge le genti di quelle aree verso i boschi dell’Amano, trasfigurato nell’attacco di Gilgamesh e Enkidu alla Foresta dei Cedri e al suo guardiano Humbaba, «enormità» «dai settuplici terrori», la cui uccisione verrà vissuta dagli dei come un peccato di hybris da far purgare con la morte di Enkidu. E così è per gli eventi climatologici sottesi alla lunga sequenza (pre-biblica) del Diluvio, vertice visionario dell’epos, in cui sempre gli dei scelgono l’inondazione tra altre opzioni (pestilenza, siccità, carestia) per tacitare il «baccano» degli umani e sfoltirne la demografia (secondo schema di altri epos, come il Popol Vuh), salvo poi pentirsene, presi a loro volta dal terrore, anche di perdere i loro «servitori»: all’abbattersi del «cataclisma» (in un’oscurità onninvadente), tutti i membri del Pantheon si ritirano nel loro cielo, «accucciandosi come cani rannicchiati all’aperto»; le dee che gridano «come una donna durante il parto», gli dei coi «volti rigati dal dolore», «le labbra secche e febbricitanti».
In questa e in altre sequenze emerge un altro aspetto della dimensione borderline del racconto, forse il più insinuante: la mescolanza armonizzata tra primordialità e raffinatezza. Tra una pulsionalità basica, spesso «panica» del diagramma affettivo-emotivo dei personaggi (in cui i sogni-presagi hanno il rilievo della veglia e la veglia una fluidità onirica) e il declinarsi di soluzioni espressive (di una retorica) con più di qualche tratto esiodeo o omerico, a partire da certi squarci di poesia cosmogonica («le alture presero forma, i cieli divennero luminosi») o da certi formulari iterativi («Al primo barlume dell’alba lucente»). La sintesi esemplare è forse il dispiegarsi del lamento di Gilgamesh per la perdita di Enkidu, in cui a piangere «giorno e notte» è tutta la natura (tutta la materia), dagli umani (aratori e pastorelli, birrai e prostitute) alle piante («il cipresso e il cedro») agli «alti picchi dei colli e dei monti».
Qui, più ancora che certi lamenti letterari, ne vengono in mente — per cadenza e intensità di pathos — alcuni musicali, come quelli di Arianna (Claudio Monteverdi) o di Didone (Henry Purcell).
In fondo, la letteratura origina anche dalla musica: e come la musica — come l’arte tutta — fin dalle origini non si limita a esprimere la dimensione del tragico (in ultimo: il lutto e la «paura della morte»); ma — con il modo di esprimerla, col suo uso specifico della parola — cerca di elaborarla; se possibile, di vincerla.
- Sandro Modeo - Pubblicato sul Corriere dell'11 novembre 2021 -
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