lunedì 15 novembre 2021

Guarire il mondo !??

Covid, l'ultima eredità del colonialismo
- di Rob Wallace -

Il SARS-CoV-2, il coronavirus che si trova dietro il Covid-19, sta avanzando. In tutto il mondo, infetta centinaia di migliaia di persone al giorno. In quei paesi dove non sono riusciti ad affrontare in maniera adeguata l'epidemia - tra cui gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Brasile - la retorica del governo ha spesso suggerito, all'inizio e prima del vaccino, di lasciare che il coronavirus «faccia il suo corso». Con poco supporto scientifico, politici come Donald Trump hanno dichiarato che una mitica immunità di gregge - lasciando nella sua scia milioni di morti - ci avrebbe salvato. L'agro-business proclama inoltre che l'industria, che ha contribuito a scatenare molte delle epidemie letali del secolo, è proprio la via che dev'essere seguita. Le grandi aziende e i cartelli ci dicono che la biosicurezza, la tecnologia e le economie di scala - più è grande è meglio è - sarebbero l'unico modo per proteggerci da un'altra pandemia. Senza considerare che la produzione agroalimentare (e il land grabbing effettuato in suo nome) si è dimostrata responsabile della comparsa di diversi agenti patogeni negli ultimi due decenni. Come siamo arrivati a questo momento storico, in cui le cause stesse della crisi in corso continuano a essere presentate come se fossero la sua soluzione?
L'agricoltura moderna è emersa di concerto con il capitalismo, insieme al commercio globale degli schiavi e alla scienza. I paesi europei impiegarono i primi scienziati imperiali al fine di poter decodificare i nuovi paesaggi e i popoli che le loro navi incontravano durante i viaggi di conquista. La scienza imperiale ha anche permesso di ricodificare queste terre e questi popoli ai fini dell'accumulazione del capitale. Dall'Europa e dall'Africa, le successive fasi del capitalismo si sono espanse passando attraverso le Americhe, per il Caucaso e i tropici, trasformando quei paesaggi alimentari che allora venivano coltivati localmente in prodotti di esportazione. Dal 1700 al 2017, le aree coltivate e pascolate su larga scala si sono quintuplicate, fino ad arrivare a 27 milioni di km2. Dopo la seconda guerra mondiale, la pratica di industrializzare la produzione di bestiame e le colture, ha raggiunto nuove vette. Al giorno d'oggi, il 40% della superficie terrestre libera dai ghiacci è dedicata all'agricoltura, e rappresenta il più grande bioma del pianeta. Entro il 2050, verranno messi in produzione molti milioni di ettari in più, soprattutto nel Sud del mondo, dove i pochi terreni agricoli "vergini" rimasti si troveranno a essere separati dalle ultime foreste tropicali e dalle savane. Gli uccelli e il bestiame, oggi viventi, rappresentano il 72% della biomassa animale globale, superando di gran lunga la biomassa totale della fauna selvatica vertebrata. Gli animali industrializzati stanno cominciando a diffondersi nel mondo, diventando vere e proprie città di maiali e polli. Quello che una volta era il Pianeta Terra, ora è diventato un «Pianeta Fattoria». Queste espansioni sono interconnesse attraverso i circuiti di capitale e di consumo. Tali circuiti generano un volume, sempre più crescente, di commercio di animali vivi, di prodotti, di alimenti lavorati e di germoplasma. Le aree crescenti di monocoltura, sono caratterizzate dal declino della diversità animale e vegetale, ciò poiché gli interventi tecnici selezionano alcune varianti genetiche rispetto a tutte le altre. La diversità si perde anche nel momento in cui le aziende si consolidano. Questi cambiamenti determinati dall'economia, hanno un impatto profondo sia sulla nostra ecologia che sulla salute pubblica. La produzione limitata di ceppi di specie mono-gastriche (con un unico stomaco), soprattutto suini e pollame, causa il dislocamento in dei paesi non industriali, di quelle che sono razze di una grande varietà di animali che si sono adattate localmente. Tendenze simili, le possiamo trovare nelle piantagioni che alimentano le popolazioni umane, e negli animali industriali. Mentre l'agricoltura avanza, l'habitat naturale primario e le popolazioni non umane si contraggono a tassi record, distruggendo nel processo le terre indigene insieme a quelle dei piccoli proprietari - e i loro mezzi di sussistenza.
La deforestazione e lo sviluppo stanno aumentando il tasso - e la portata tassonomica - del trasferimento di patogeni dall'ambiente naturale agli animali che producono cibo e ai loro custodi umani. Il Covid-19 rappresenta solo uno dei numerosi nuovi ceppi di patogeni che sono emersi, o improvvisamente riemersi nel 21° secolo, come minacce per l'umanità. Queste epidemie - influenza aviaria e suina, Ebola Makona, febbre Q, Zika, tra le tante - sono tutte legate a dei cambiamenti nella produzione, o nell'uso del suolo in associazione con l'agricoltura intensiva, così come al disboscamento e all'estrazione mineraria.
Gli agenti patogeni si presentano in maniera diversa a seconda del luogo e della merce prodotta. Ma sono tutti interconnessi nella stessa rete di danni ambientali e di espropriazione globale; il che spiega la natura intercontinentale di questi nuovi patogeni. SARS in Cina. MERS in Medio Oriente. Zika in Brasile. H5Nx in Europa. L'influenza suina H1N1 in Nord America. In che modo la produzione porta a queste epidemie? A un estremo, all'inizio della catena dei prodotti di una regione, la complessa diversità della foresta primaria sopprime gli agenti patogeni "selvatici". I potenziali ospiti emergono in modo irregolare. Ma il disboscamento transnazionale, l'estrazione mineraria e l'agricoltura intensiva cambiano questa dinamica. Semplificano drasticamente la complessità naturale. Mentre molti patogeni si estinguono insieme alle loro specie ospiti, un sottoinsieme di infezioni che prima si esauriva in maniera relativamente rapida nella foresta, ecco che può improvvisamente diffondersi molto più ampiamente. L'ebola ne è un classico esempio. Dalla metà degli anni '70, le epidemie di solito colpiscono uno o due villaggi sub-sahariani, prima di estinguersi. Nel 2013-15, il ceppo Makona è emerso lungo una frontiera di monocoltura di palma da olio, in un paesaggio africano occidentale sempre più espropriato e globalizzato. Anche se poco differenziato nella sua genetica o nel corso clinico rispetto alle precedenti epidemie di Ebola, il ceppo Makona avrebbe infettato 35.000 persone, uccidendone improvvisamente migliaia di quelle che vivevano in grandi città, a un volo di distanza da tutto il resto del mondo.

La selezione naturale della letalità
La riduzione dell'età della macellazione può favorire agenti patogeni ancora più letali che possono uccidere i giovani volatili. All'altra estremità della catena di produzione, appaiono altre malattie. L'influenza aviaria e quella suina, mortali e adattatasi all'uomo, generalmente sorgono in aziende intensive, situate vicino alle grandi città del nord e del sud. Dal 1959 in poi, di quelle che sono state 39 transizioni documentate dell'influenza aviaria - e che sono state di una letalità che andava da bassa a molto alta -  tutte tranne due, si sono verificate in aziende commerciali di pollame, tipicamente di decine o centinaia di migliaia di polli. Le operazioni industriali intensive, sono state così inondate dalla circolazione dell'influenza aviaria e suina, che ora svolgono la funzione di veri e propri serbatoi per i nuovi ceppi. E le popolazioni di uccelli acquatici selvatici, ora non sono più l'unica fonte. Cosa c'è in queste fattorie industriali che le porta a generare simili infezioni?
I polli industriali vengono allevati in gabbie con 15.000 volatili. Le galline ovaiole industriali vivono schiacciate in coop che contengono fino a 250.000 uccelli. L'allevamento di animali in monocolture, rimuove gli accettori immunologici che normalmente eliminerebbero i focolai nelle più diverse popolazioni. Abitualmente, gli agenti patogeni si evolvono in base ai genotipi comuni e immunitari dell'ospite dell'allevamento industriale. Il sovraffollamento e la scarsa igiene inducono un forte stress in questi animali, che può deprimere la loro risposta immunitaria e renderli più vulnerabili alle infezioni. L'alloggiamento di alte concentrazioni di bestiame e di pollame favorisce i ceppi patogeni che possono diffondersi più rapidamente in mezzo a loro.
Gli animali vengono macellati in età sempre più giovani. Macellare i polli a solo 6 settimane, e i maiali a 22 settimane, può selezionare una maggiore letalità dei patogeni, ivi comprese quelle infezioni che sono in grado di sopravvivere a sistemi immunitari più giovani e robusti. La produzione «all-in all-out» - un tentativo di controllare le epidemie allevando il bestiame in lotti - può finire per selezionare inavvertitamente le infezioni che si allineano con i tempi di vita che l'industria stabilisce per le proprie mandrie. Vale a dire, i ceppi di maggior successo sviluppano una durata di vita specifica, che uccide gli animali d'allevamento adulti quando si arriva vicino alla macellazione, cioè, quando lo stock ha maggior valore. Con l'eliminazione dell'allevamento locale e con la dislocazione delle inseminazioni al di fuori della mandria - questo principalmente per quei mercati che richiedono più carne e una crescita veloce - le popolazioni di bestiame non sono in grado nemmeno di sviluppare resistenza agli agenti patogeni in circolazione. Dal momento che i sopravvissuti non si riproducono, ecco che allora non sono in grado neanche di trasmettere la loro resistenza. Fuori dai cancelli dell'allevamento, la distanza sempre maggiore che gli animali vivi percorrono nel loro trasporto ha ampliato la diversità dei segmenti genici che gli agenti patogeni si scambiano, aumentando la proporzione e le combinazioni con cui le malattie sfruttano le loro possibilità evolutive. Maggiore è la variazione nella loro genetica, più velocemente si evolvono gli agenti patogeni. In breve, industrializzando la produzione di carne, l'agro-business globale industrializza anche gli agenti patogeni che circolano tra le mandrie e il pollame. Le origini del Covid-19 sono una sorta di miscela di queste due estremità dei nostri circuiti di produzione, la foresta e la fattoria industriale. In tutto il pianeta i coronavirus sono ospitati dai pipistrelli. Ma il ceppo ospitato dai pipistrelli in Cina, sembra colpire gli umani ancora più duramente allorché salta con successo tra le specie. Anche l'ambiente in cui vivono questi pipistrelli è cambiato radicalmente. Con la liberalizzazione economica post-Mao, la Cina si è mossa lungo la via dello sviluppo dei BRICS [Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica], intenzionata a nutrire il suo popolo con le proprie risorse naturali. Milioni di persone sono state allontanate dalla povertà. Milioni di persone sono state lasciate indietro. Con i suoi pro e contro, nel fare questo percorso, l'agro-business cinese, unitamente a un settore alimentare selvaggio sempre più capitalizzato attraversano insieme il paesaggio della Cina centrale e meridionale, sede di molte di queste popolazioni di pipistrelli. Come è successo con Ebola, le interfacce tra pipistrelli, bestiame, fauna selvatica, agricoltori e minatori, su questa frontiera delle merci, sono diventate sempre più numerose, aumentando così il traffico di vari coronavirus simili alla SARS. L'aumento delle applicazioni di pesticidi, su una scala molto più grande anche di quella già esagerata degli Stati Uniti, potrebbe aver ridotto le popolazioni di insetti che alimentavano questi pipistrelli. Tutto ciò può aver aumentato l'interfaccia degli ospiti del coronavirus condivisa con le popolazioni umane, dal momento che i pipistrelli hanno dovuto ampliare il loro raggio in cerca di cibo. Con i cibi selvatici e con le linee di produzione agricola che aumentano in estensione e velocità, molti coronavirus simili alla SARS e che si sono diffusi con successo negli animali usati per il cibo o negli esseri umani, possono ora farsi strada in breve tempo attraverso il paesaggio urbano periferico, verso capitali regionali come Wuhan - per poi entrare nella rete globale di viaggio.

Le possibili vie d'uscita
A quanto pare, siamo caduti in una trappola. C'è qualcosa che si può fare? Per prima cosa, dobbiamo rifiutare quel mondo "normale" che ci ha portato in questo casino. Coltivare cibo non vuol dire produrre oggetti. Il cibo non è un elettrodomestico. L'agricoltura deve smettere di essere un'economia industriale, per diventare qualcosa di più simile a un'economia naturale. Dobbiamo di nuovo assimilare il rispetto per il contesto del cibo - il suolo, l'acqua, l'aria, la matrice ecologica e il benessere della comunità da cui dipende sia il cibo che le persone che lo mangiano. Per eliminare gli agenti patogeni più letali, dobbiamo preservare la complessità delle foreste (e delle zone umide) mantenendo barriere ecologiche tra pipistrelli, oche e altri serbatoi naturali di malattie e gli animali allevati per il cibo. Dobbiamo reintrodurre l'agro-biodiversità nel bestiame e nel pollame, per servire da barriera immunitaria contro gli agenti patogeni mortali, sia nelle fattorie che in interi territori. Dobbiamo tornare a permettere al bestiame di riprodursi naturalmente, in modo che le mandrie possano proteggersi dagli agenti patogeni senza bisogno di antibiotici. Questi interventi richiedono il ripristino del luogo di controllo nelle comunità rurali, e lontano dall'agro-business. Cioè, prima di tutto, per evitare che scoppino le peggiori epidemie, dobbiamo rivolgerci a una qualche pianificazione statale che si concentri sull'autonomia degli agricoltori, sulla resilienza socio-economica delle comunità, sulle economie circolari, sulle reti di approvvigionamento cooperative integrate e sui risarcimenti. Dobbiamo annullare il trauma profondamente storico della razza, della classe e del genere situato nel cuore del land grabbing e dell'alienazione ambientale. Sulla scena mondiale, dobbiamo porre fine agli scambi ecologicamente diseguali tra Nord e Sud. Guarire la spaccatura metabolica che è emersa al centro dell'agricoltura moderna - quell'abisso tra ecologia ed economia che determina l'emergere di patogeni e danni climatici - richiede la diffusione di una diversa filosofia politica. Scommettere sul fatto che l'agro-business, la fonte principale della crisi pandemica, fornirebbe la soluzione, nel migliore dei casi è vano e futile. È possibile fare le cose diversamente, se siamo di nuovo disposti a tornare a pensare e ad agire .

- Rob Wallace - Pubblicato su blogdaconsequencia il 29/3/2021 -

Nessun commento: