L’Odissea di Telemaco
- di Mauro Bonazzi -
E se Ulisse non fosse mai tornato a Itaca? Un'ipotesi ardita, ma non impossibile per chi legge con attenzione il poema che dovrebbe cantare le sue gesta. Del resto, l’isola su cui regnò non era neppure Itaca, ma la vicina, e ben più importante, Cefalonia, sostiene Giovanni Kezich (Ulisse non è lui, Baldini+Castoldi). E Omero fu il figlio di Telemaco, come rivelò la Pizia delfica all’imperatore Adriano (il dettaglio tornerà utile più avanti). O forse non è neppure esistito, afferma perentoria Maria Grazia Ciani, già autrice di una bella traduzione del poema, nella sua lettura dell’Odissea, Tornare a Itaca, appena pubblicata da Carocci. Di certo, motivi di perplessità non mancano, ed è forse tempo di battere qualche pista nuova. Si pensi alla struttura, davvero ben organizzata, del poema: tutti ricordano le avventure fantasmagoriche di Ulisse — le sirene, Polifemo, Circe… — ma queste occupano una parte ridotta dell’Odissea. Il resto, i due terzi del poema, racconta un’altra storia, la vendetta e l’uccisione dei proci, i pretendenti al trono che si erano piazzati nella reggia del re assente. Una pratica non inusuale, al tempo, meno scandalosa di quanto non si pensi. Eppure la vicenda finisce in modo violentissimo, nel silenzio imbarazzato di troppi lettori.
Non sono soltanto i proci a essere massacrati. La furia di «Ulisse» colpisce tutti, in modo indiscriminato, dal pastore evirato alle ancelle impiccate, dopo essere state costrette a ripulire la casa: appese «come tordi», tutte insieme alla stessa corda, «scalciarono con i piedi, ma per poco tempo». Un dettaglio spaventoso che non sarebbe sfuggito a Theodor Adorno, uno dei pochi a non aver subito il fascino di Ulisse, e a Margaret Atwood, che immagina queste serve come in un incubo, sempre all’inseguimento del loro assassino, senza mai muovere le gambe, sollevate da terra, «tutte in fila». Subito dopo, circondati da questi cadaveri, «Ulisse» e i suoi compagni di congiura ballano e cantano, fingendo che si stia celebrando una festa: persino Omero lo deve ammettere, davvero uno «spettacolo orrendo a vedersi». Erano tempi bui, si dirà, cupi e violenti. Ma c’è un limite a tutto, e la resa dei conti si spinge davvero oltre, anche per chi sia abituato alla logica più barbara della vendetta di sangue.
Occorrono allora ipotesi alternative per spiegare una vicenda tanto cruenta. E se la storia del ritorno di Ulisse fosse un’invenzione, volta a giustificare e coprire la violenza di questa carneficina? Se questo straniero solitario (dove sono finiti i compagni?), che nessuno riconosce (perché nessuno lo riconosce, non il padre non la moglie, a parte una serva anziana e un cane che muore subito: non proprio due testimoni attendibili, e anche per loro Kezich ha una spiegazione) fosse un mercenario, arrivato apposta dalla terraferma per risolvere una volta per tutte il problema dei proci? È interessante, perché proprio sulla terraferma, a Pilo e Sparta, si era recato Telemaco all’inizio del poema. Gli studiosi, osserva Maria Grazia Ciani, si sono sempre chiesti il perché di un viaggio tanto rischioso quanto apparentemente inutile. La risposta è che Telemaco era andato in cerca di aiuto e nuove alleanze presso le altre casate, ben più potenti, che regnavano sulla terraferma. E come aiuto aveva avuto questo mercenario, Teoclimeno, con cui organizzare la congiura. Le tessere del mosaico iniziano a prendere forma. Depurata dalle avventure fantasiose di Ulisse, l’Odissea racconterebbe la storia umana, fin troppo umana, di un figlio, privo del padre, che combatte per affermare il suo potere, nel momento in cui tutto sta per crollare. È Telemaco il vero protagonista, non Ulisse. E Omero, ecco che il dettaglio acquista tutto il suo significato, è suo figlio, pronto a fare la propria parte. L’Odissea, la storia di Ulisse che torna e fa giustizia, sarebbe insomma una copertura, per nobilitare una vicenda tutt’altro che nobile, e difendere l’onore di una casata sotto accusa.
Del resto «Ulisse», questo «coatto» e «attaccabrighe» sempre pronto a mentire e che ben poco ha in comune con il paziente Ulisse «bello di fama e di sventura», improvvisamente sparisce, come improvvisamente era comparso. Dopo un’assenza di vent’anni, rimane a Itaca quattro (4!) giorni, e poi parte di nuovo, adducendo scuse improbabili (che Poseidone è arrabbiato e lui deve trovare un popolo che non conosce il mare e piantare un remo), così come improbabili erano state le storie che si era inventato per giustificare la lunga assenza (le sirene, il ciclope…). Davvero, siamo a metà tra il marito che esce a comprare le sigarette e John Belushi nei Blues Brothers con le sue cavallette. Lo aveva intuito anche Giovanni Pascoli, nel suo Ultimo viaggio, in cui i luoghi del mito ritornano nella loro desolante banalità: l’isola di Circe deserta, al posto dei ciclopi una famiglia gentile che nulla sa di mostri; le sirene sempre lì, ma ormai mute, simili a rocce… Fantasie, storie di un tempo mai esistito.
Così, mentre Ulisse si rivela sempre più evanescente, la figura di Telemaco inizia a stagliarsi con contorni sempre più netti e decisi. Seppure discretamente taciuto, al potere, alla fine del poema, questo capolavoro di ambiguità rimane proprio lui, in effetti. Un caso? Tutte assurdità? Forse, ma prima conviene leggere il libro: «C’è del metodo in questa follia», viene da dire con Shakespeare, e tanti spunti inattesi vengono alla luce. Come un parallelo con Orhan Pamuk e il suo La donna dai capelli rossi (Einaudi), un romanzo d’amore e di gelosia ambientato nella moderna Turchia. Perché anche Pamuk racconta di padri e di figli: o meglio del rinnovarsi del mondo attraverso il necessario sacrificio dei padri, evocando allo stesso tempo lo scenario opposto, quello dei padri che contrastano i figli, causandone la rovina, come accadde all’eroe persiano Rostam. È il tempo immobile dell’Oriente, sempre identico a sé stesso, con il passato che inghiotte il futuro, a cui si oppone l’ansia tutta occidentale per le rivoluzioni e le rotture. Come nel mito di Edipo, certo, e come anche nell’Odissea, con Telemaco pronto a conquistare un suo spazio nel mondo, contro tutto e tutti.
La storia non finisce qui, peraltro. Racconta un antico mitografo che Ulisse aveva avuto un figlio da Circe, Telegono. Il quale Telegono si era messo a sua volta in cerca del padre: e quando lo incontrò lo uccise per sbaglio (per sbaglio? qualche dubbio inizia a essere legittimo): «Dopo essersene accorto e aver levato alti lamenti, Telegono accompagnato da Penelope trasportò il morto da Circe; lì sposò Penelope e Circe invitò entrambi nell’isola dei beati». Non avevano certo bisogno di Freud gli antichi, per capire quanto è complicata la trama delle vite in famiglia.
- Mauro Bonazzi - Pubblicato su La Lettura del 24/10/2021 -
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