Zhuangzi. La conoscenza dei pesci
- di Carlo Rovelli -
Zhuangzi e Hui Shi passeggiavano sul ponte sopra il fiume Hao. Zhuangzi osservò: «Quei pesciolini che si aggirano rilassati e senza fretta, sono pesci felici!». Al che, Hui Shi obbiettò: «Tu non sei un pesce; come fai a sapere come sta un pesce?». Zhuangzi rispose: «Tu non sei me, come fai a sapere cosa so io di come sta un pesce?». Ma Hui Shi insistette: «Non sono te, ovviamente non so di te; ma tu non sei un pesce e questo è abbastanza per dedurre che non sai cosa piace a un pesce». Ma Zhuangzi concluse: «Torniamo al punto di partenza. Quando hai detto “come fai a sapere come sta un pesce?”, tu lo sapevi che lo sapevo. Lo sapevo, qui, sopra il fiume Hao».
Questo dialogo delizioso è un passaggio celebre di uno dei grandi testi dell’umanità: lo Zhuangzi, una collezione disuguale di scritti e detti attribuiti al «Maestro Zhuang», Zhuangzi appunto — o Chuang-tzu — figura centrale della filosofia del taoismo, vissuto nel IV secolo prima dell’era moderna, in uno dei periodo più fecondi del pensiero classico cinese.
È un libro unico: storielle e riflessioni vertiginose, divertenti e disorientanti, uno stile brillante e scapestrato, che sconcerta e mette alla prova il pensiero con sottigliezza e allegria. Pieno di ironia, paradossi e provocazione. Lontano dallo stile parruccone e moralista della scuola confuciana, quanto dalla freddezza dei testi della scuola maoista della filosofia classica cinese.
La filosofia di Zhuangzi non è facile da incasellare perché è sfuggente. È una specie di naturalismo che insiste sul relativismo dei giudizi e con una forte connotazione scettica talvolta radicale («Una volta, Zhuangzi sognò di essere una farfalla, che svolazzava felice e non sapeva nulla di Zhuangzi. Al risveglio, si chiese se era Zhuangzi e aveva sognato di essere una farfalla, oppure se era una farfalla che stava sognando di essere Zhuangzi»). La forza del testo è nella capacità di mettere in dubbio ciò che appare ovvio, ribaltare punti di vista e aprire prospettive. Nei secoli successivi, quando il buddhismo arrivò in Cina e poi in Giappone, l’influenza di Zhuangzi è stata considerevole sulla nascita delle versioni del buddhismo chan cinese e zen giapponese. Ma lo Zhuangzi è comunque sempre rimasto un testo amato dall’intero mondo intellettuale cinese.
Veniamo ai pesci. L’osservazione che apre il dialogo sembra innocua: Zhuangzi osserva che i pesci si aggirano felici nel fiume. Ma l’obiezione di Hui Shi la ribalta: come fa Zhuangzi a sapere che i pesci sono felici? Non è mica un pesce. Sembra convincente. È più che un’osservazione banale. Per esempio nel campo dell’etologia, lo studio del comportamento animale, è normale che uno studente si senta mettere in guardia da una facile letture antropomorfa dei comportamenti animali. Cosa ne sappiamo di cosa prova, che so, un pipistrello? La questione va tuttavia assai più a fondo che non lo studio degli animali. Uno degli articoli più citati e famosi nel campo della filosofia della coscienza si intitola "Cosa si prova ad essere un pipistrello?".
L’autore, Thomas Nagel, sostiene che la prospettiva soggettiva (di un pipistrello, un pesce, un essere umano) sia inaccessibile dall’esterno, ed è questo a rendere insolubile il problema della relazione fra mente e corpo. La natura della coscienza e la possibilità di comprenderla in termini naturalistici è uno dei dibattiti più attuali e vivaci nella cultura contemporanea.
Fin qui, dunque, Zhuangzi sintetizza mirabilmente una questione che oltre due millenni dopo stiamo ancora dibattendo. Ma il passaggio successivo, funambolico e geniale, è sconcertante. Con assoluto candore Zhuangzi obietta: «Tu non sei me, come fai a sapere cosa so io di come sta un pesce?». Di primo acchito, si resta senza parole. Poi si comincia a riflettere. Ci sono tre possibilità: o Hui Shi ha effettivamente modo di sapere cosa c’è nella testa di Zhuangzi, ma allora allo stesso modo perché Zhuangzi non può sapere che i pesci si stanno divertendo? Oppure Zhuangzi non può sapere che i pesci si stanno divertendo, e allo stesso modo Hui Shi non ha modo di sapere cosa c’è nella testa di Zhuangzi; ma se è così non può neanche sapere che Zhuangzi non sa come si sentono i pesci. O, infine, c’è una differenza fra i due casi, che permette a Hui Shi di sapere cosa c’è nella testa di Zhuangzi, ma non permette a Zhuangzi di sapere come si sentono i pesci.
La terza alternativa, a pensarci bene, è semplicistica e non tiene. Certo, gli esseri umani parlano e i pesci no, ma noi comprendiamo gli esseri umani anche dai comportamenti, non solo quando parlano. Certo, c’è più somiglianza fra Hui Shi e Zhuangzi che non fra Zhuangzi e un pesce. Ma è questione di grado. Non c’è vera differenza fra comprendere che un bimbo è triste e comprendere che un gattino è triste. L’argomento che non possiamo leggere i comportamenti animali in termini delle nostre emozioni, in realtà, non regge (e infatti l’etologia lo ha in parte superato negli ultimi decenni, per esempio negli straordinari risultati sui grandi primati, gorilla, scimpanzé e oranghi, ottenuti da donne come Jane Goodall, Dian Fossey e Biruté Galdikas).
Restano quindi le due possibilità radicali. La prima è una versione estrema dell’argomento di Nagel: la mente è inaccessibile dall’esterno. Hui Shi sembra andare in questa direzione: concede di non sapere cosa ci sia nella testa di Zhuangzi, e quindi può insistere che Zhuangzi non può sapere come stanno i pesci. Ha vinto, al caro prezzo di una generale incomunicabilità?
Niente affatto; l’ultimo commento di Zhuangzi è straordinario: sostanzialmente fa notare a Hui Shi che la sua domanda presupponeva che Zhuangzi avesse un certo pensiero. Zhuangzi sposta la questione dalla correttezza del suo pensiero sui pesci, al fatto semplice di avere questo pensiero. Uno scarto vertiginoso. Sposta l’attenzione dal contenuto del discorso al discorso in sé stesso come oggetto di conoscenza. L’intero dialogo, fa notare Zhuangzi, presuppone che Hui Shi possa parlare della conoscenza di Zhuangzi, ma questa stessa conoscenza è come la felicità dei pesci: o è accessibile dall’esterno o no.
Dove vuole arrivare Zhuangzi con tutto ciò? All’idea di una totale incomunicabilità? Tutt’altro, mi sembra: Hui Shi cavilla, come cavilla Nagel. La conoscenza, la mente, la felicità che sentono i pesci, non sono fuori dalla natura, nell’inaccessibile dominio dell’insondabile. Sono normali aspetti della natura, nomi che diamo a complesse configurazioni naturali, di cui noi siamo parte. Il nostro parlarne, la nostra conoscenza, sono aspetti di questa stessa natura. Zhuangzi demolisce la questione dell’impossibilità di conoscere altre menti e riporta il tutto nell’ambito del discorso comune. Hui Shi può magari obbiettare che Zhuangzi si sbaglia perché è poco esperto di pesci, che magari non è vero che i pesci sono felici, ma non può più obbiettare che la questione è insolubile, perché se lo fa mina la sua stessa obiezione. È la più acuta obiezione a ogni forma di dualismo che ho mai incontrato. E all’intera formulazione del problema della conoscenza in termini di radicale distinzione fra soggetto e oggetto. Formulata più di due millenni fa.
C’e un altro terreno, oltre alla questione della coscienza soggettiva, dove la questione è riapparsa recentemente: il problema di capire i fenomeni quantistici, messi in luce dagli esperimenti sulla materia dell’ultimo secolo. È la questione che affronto nel mio libro recente, Helgoland. La teoria che descrive questi fenomeni, la meccanica quantistica, lo fa facendo riferimento esplicito a come questi appaiono a un osservatore. La teoria sembra parlare della conoscenza che un osservatore può avere di questi fatti, invece che dei fatti in sé. Il padre spirituale della teoria, il danese Niels Bohr, ha formulato la questione così: «La fisica non riguarda il mondo, riguarda ciò che possiamo dire sul mondo». Non so se Bohr conoscesse Zhuangzi ma sono certo che se lo avesse conosciuto lo avrebbe adorato. Lo stesso spirito sornione pervade il vecchio filosofo cinese e il grande fisico del Novecento («La caratteristica di una profonda verità — ha scritto Bohr — è il fatto che la sua negazione è pure una profonda verità»). C’è implicita in Zhuangzi una risposta cruciale all’apparentemente sconsolata osservazione di Bohr che la fisica non riguarda il mondo, riguarda ciò che possiamo dire sul mondo. La risposta è nella domanda: «Dove sta la differenza?». Ciò che possiamo dire del mondo non è forse null’altro che uno degli aspetti del mondo stesso? Se sostituiamo i pesci con un atomo quantistico e Zhuangzi con l’osservatore di cui parla la teoria quantistica, il gustoso dialogo dell’antico libro va al cuore della questione quantistica: l’osservatore stesso è un sistema osservato, rispetto a un altro sistema. Come tale, non è sostanzialmente diverso dai sistemi che osserva.
In una piccola gemma di libro pubblicato nel 1923 e intitolato Ich und Du («Io e Tu»), il filosofo ebreo austriaco Martin Buber osserva che ci sono due attitudini con cui ci possiamo mettere in relazione al mondo. Una è quella che Buber chiama «Io» verso un «Esso», dove «Esso» è qualunque oggetto, idea o persona di cui possiamo parlare. La seconda attitudine è quella che chiama «Io» verso «Tu», caratterizzata dall’enfasi sulla relazione stessa, e soprattutto dal riconoscimento della eguale e complementare natura dei due termini. Gli interessi e il linguaggio di Buber sono teologici, etici e politici. Ma il cuore dell’idea mi sembra essenziale per una filosofia della scienza pienamente naturalista: il soggetto della conoscenza non è altro dal mondo, è parte del mondo.
Studiamo il mondo dall’interno del mondo, consapevoli di esserne parte. Il mondo per noi è quindi incontro, relazione. Delle cose della natura siamo fratelli, non giudici. La conoscenza non vive disincarnata fuori dal mondo: è una delle configurazioni del mondo stesso. «Quando hai detto “come fai a sapere come sta un pesce?”, sapevi che lo sapevo. Lo sapevo, qui, sopra il fiume Hao». La conoscenza abita lì, sopra il fiume Hao.
- Carlo Rovelli - Pubblicato su La lettura del 24/10/2021 -
Il personaggio e l’opera
Le poche notizie che abbiamo circa il filosofo cinese Zhuangzi (Chuangtzu secondo una diversa traslitterazione degli ideogrammi), uno dei fondatori del taoismo, derivano da un’opera dello storico Sima Qian, vissuto circa due secoli dopo. Pare che il nome del pensatore fosse Zhuang Zhou, mentre il temine zi, collegato alla prima parte del suo nome, significa maestro. Quindi Zhuangzi, che è anche il nome attribuito all’opera che raccoglie i suoi testi, significa «Maestro Zhuang». Lo studioso Ma Xulun, vissuto nel XX secolo, sostiene che Zhuangzi nacque nel 369 avanti Cristo e morì nel 286, ma su queste date precise non vi è concordanza tra i diversi autori. Esistono alcune edizioni italiane di Zhuangzi: la prima, a cura di Liou Kiahway, nella traduzione di Carlo Laurenti e Christine Leverd, è uscita da Adelphi nel 1982. Da ricordare anche quella pubblicata da Rizzoli nel 2009, con traduzione e cura di Leonardo Vittorio Arena, e quella uscita da Urra nel 2012, con traduzione e cura di Augusto Shantena Sabbadini
Bibliografia
Ich und Du di Martin Buber (1878-1965), con il titolo L’Io e Tu, è incluso nel libro Il principio dialogico e altri saggi (a cura di Andrea Poma, traduzione di Anna Maria Pastore, San Paolo Edizioni, 1993). Nato in Austria, Buber assunse poi la cittadinanza israeliana.
Helgoland di Carlo Rovelli è uscito nel 2020 da Adelphi. Infine si veda Il daoismo di Attilio Andreini e Maurizio Scarpari (Il Mulino, 2007).
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