mercoledì 3 novembre 2021

Cercando una via d'uscita...

La forma del valore, la reificazione e la coscienza del lavoratore collettivo
- di Alan Milchman (Mac Intosh) 1940-2021 -

La teoria critica di Marx ha svelato un modo di produzione, una civiltà, basata sul valore, che egli ha descritto come una «forma squilibrata» o «perversa» [verrückte Form], nella quale i rapporti sociali tra le persone sono invertiti e appaiono come relazioni tra cose. A produrre e riprodurre questa forma squilibrata, è il lavoro astratto della classe operaia. Come sostiene Max Horkheimer nel 1937, in "Teoria tradizionale e teoria critica": «Attraverso il proprio lavoro, gli esseri umani riproducono [erneuern] una realtà che li rende sempre più schiavi» [*1] È stato Georg Lukács, nel suo saggio "Reificazione e coscienza del proletariato", che fa parte della collezione "Storia e coscienza di classe" (1923), a elaborare per primo una teoria della reificazione attraverso cui gli effetti della forma valore - quella forma perversa - e il feticismo della merce che ne è parte integrante, si impadroniscono della società. La conclusione cui arriva Lukács, ancora prima che fossero stati pubblicati molti dei vasti manoscritti "economici" di Marx, è una svolta teorica, su cui il marxismo, in quanto critica negativa del capitalismo, è ancora basato. Come ha sostenuto Lukács, in maniera convincente: «Come il sistema capitalistico si produce e riproduce continuamente ad un grado sempre più alto, così nel corso del suo sviluppo, la struttura della reificazione si insinua sempre più a fondo, in modo denso di conseguenze, nella coscienza degli uomini fino a diventare suo elemento costitutivo.» [*2] Tuttavia, il concetto di reificazione di Lukács implicava anche la pretesa che il proletariato, in quanto identico soggetto-oggetto, avrebbe potuto sfuggire alla schiavitù della reificazione; cosa che Horkheimer avrebbe in seguito sottolineato. Per Lukács, mentre la coscienza della borghesia si trova «imprigionata» nelle forme reificate imposte dal capitale, in grado solo di cogliere l'immediatezza della propria situazione sociale, l'operaio invece può diventare «consapevole di sé stesso in quanto merce», e in tal caso «le forme feticistiche del sistema della merce cominciano a dissolversi: nella merce l'operaio riconosce sé stesso e quelle che sono le sue relazioni con il capitale.» [*3] In breve, per Lukács, nonostante la reificazione cui l'operaio è soggetto, la possibilità di fuga per la classe operaia è inerente allo stesso processo lavorativo capitalista. In definitiva, Lukács sostiene che il proletario è obbligato a «superare l'immediatezza della propria condizione» [*4].

Ma cos'è, allora, che può realmente permettere al proletario di sfuggire a una simile coscienza reificata? La risposta di Lukács, una risposta teoricamente e sociologicamente insoddisfacente, a mio avviso, è: «Per il proletariato, diventare cosciente dell’essenza dialettica della propria esistenza è una questione che può condurre al suo successo o alla sua rovina, mentre la borghesia occulta nella vita quotidiana, con le astratte categorie riflessive della quantificazione, del progresso all’infinito, ecc., la struttura dialettica del processo storico, per vivere poi come catastrofi immediate i momenti della conversione.» [*5] Ma la "necessità" di essere consapevoli della natura dialettica della propria esistenza, riesce davvero a spiegare come mai il proletariato possa sottrarsi agli effetti della reificazione? In effetti, la "spiegazione" di Lukács sembra più un atto di fede - quasi una scommessa pascaliana - piuttosto che un resoconto teoricamente rigoroso del potenziale esistente all'interno del processo lavorativo capitalista e che si concretizza nel «lavoratore collettivo», il Gesamtarbeiter. Quasi un secolo dopo che Lukács ha scritto il suo saggio, la domanda se e come il lavoratore collettivo possa sfuggire a quella schiavitù - cosa a cui Horkheimer puntava - possa superare le tendenze reificanti del capitalismo, se davvero possa spezzare le catene del feticcio della merce e - attraverso la sua prassi - abolire la forma del valore, richiede urgentemente una risposta; e ancora una volta questa domanda è diventata la preminente questione teorica e pratica che il marxismo deve affrontare. Mi sembra che la base per una risposta a questa scottante domanda, possa trovarsi nei manoscritti economici di Marx, i quali al tempo di Lukács erano per la maggior parte inediti: ad esempio i Grundrisse, la bozza del Capitale del 1861-1863 (la quale includeva le "Teorie del plusvalore"), i "Risultati del processo immediato di produzione", e il primo capitolo insieme alle appendici e ai supplementi alla prima edizione tedesca (1867) del Capitale; dove viene spiegata la doppia natura della merce (valore astratto e valore d'uso), e del lavoro che la produce (lavoro astratto e lavoro concreto). È lì che si analizzano le basi di ciò che Lukács avrebbe più tardi denominato reificazione [Verdinglichung], laddove gli effetti della reificazione sulla coscienza del «lavoratore collettivo», il suo impatto sulla soggettività del lavoratore, si rivelano attraverso la spiegazione del feticcio della merce, che è a sua volta parte integrante delle relazioni sociali del capitalismo. Tutte queste questioni, sono state elaborate teoricamente dai teorici della forma-valore, come Hans-Georg Backhaus, Helmut Reichelt, Werner Bonefeld, Moishe Postone e Anselm Jappe. Jappe ha posto la questione in un modo che sfida e rimette direttamente in discussione proprio le stesse affermazioni di Lukács, quando, discutendo le prospettive che la classe operaia ha di liberarsi dalla sua soggettivazione da parte del capitale, ci dice che: « Per avere libertà di decisione, i soggetti devono trovarsi al di fuori della forma merceologica... Ma in una società feticizzata, non ci può essere un simile soggetto autonomo e cosciente... Il valore non si limita ad essere solo una forma di produzione; esso è anche una forma di coscienza... [È] una forma a priori in senso kantiano. È uno schema di cui i soggetti non sono coscienti, perché appare come "naturale" e non storicamente determinato. Detto altrimenti, tutto ciò che i soggetti [plasmati dal] valore possono pensare, immaginare, volere o fare si presenta già sotto forma di merce, denaro, potere statale, diritto [legale].» [*6] Ciò che nell'analisi di Jappe appare chiaro, è che - in contrasto con Lukács - non esiste un soggetto, ivi compreso il proletariato, che «in sé» sia ontologicamente opposto al capitalismo, al quale sarebbe sottomesso solo in modo esterno.

Ma se Jappe lancia una potente sfida alle affermazioni di Lukács circa l'impatto che ha la coscienza reificata sul proletariato, simultaneamente, egli ha anche teoricamente precluso alla classe operaia di poter mai sviluppare quella coscienza necessaria per rovesciare la forma sociale capitalista; distruggendo così i rapporti sociali feticizzati che la forma merceologica ha imposto? Il feticismo della merce non è solo una mistificazione, una questione di «falsa coscienza», un velo che il lavoratore, spontaneamente o grazie al partito, può semplicemente strappare. Il feticismo delle merci è una sfaccettatura dell'essere sociale nella società capitalista, una determinante della realtà sociale stessa, degli attuali rapporti sociali capitalisti. Il feticcio non si limita a distorcere o a occultare la forma del valore, ma è parte integrante dei processi di astrazione reale che avvengono nell'essere sociale stesso, nell'effettivo processo di produzione capitalista, attraverso il quale il lavoro concreto si trasforma in lavoro astratto. Il feticismo delle merci, quindi, consiste nel "vedere" le proprietà socialmente costruite delle merci come se fossero naturalmente pertinenti alle cose, e, in quanto loro proprietà o caratteristica, quindi a-storiche. Nella misura in cui il feticismo delle merci implica che il lavoratore "veda" i rapporti sociali [Verdinglich] come "oggettivi", anzi addirittura "naturali" - e quindi non sociali e non storicamente specifici - allora quale base può mai esserci per lo sviluppo di quella coscienza necessaria ad abolire la forma valore? E una tale conclusione non può essere altro che il risultato logico di un'analisi della forma-valore del capitale? All'interno della teoria del valore-forma, quando vengono analizzati gli effetti dei rapporti sociali feticizzati del capitalismo, e le sue tendenze reificanti, sulla classe operaia, sembra esserci una chiara divisione. Jappe e Postone articolano una visione nella quale il lavoro salariato - una classe di lavoratori salariati - e la sua lotta di classe, è «...un elemento trainante dello sviluppo storico della società capitalista», ma dove le sue lotte sono «forme d'azione che costituiscono il capitale, piuttosto che trascenderlo» [*7]. Infatti, sia per Jappe che per Postone, il capitale stesso è un «soggetto automatico», e il lavoro salariato, la classe operaia, sono costituiti e intrappolati in esso. Per loro, la lotta di classe può produrre cambiamenti e modifiche all'interno dei rapporti sociali capitalistici, influenzando le sue specifiche forme economiche e politiche, ma non può rovesciarli. Una simile visione sembra riecheggiare un rischio che può emergere anche dall'analisi di Adorno a proposito della traiettoria del capitalismo: una visione totalizzante di un mondo dal quale sembra non esserci uscita.

Tale visione raggiunge dimensioni mitiche nell'opera di Günther Anders, per il quale, nel quadro del capitalismo, la tecnologia ha portato alla perfezione il rischio di rendere l'umanità, compresa la classe operaia, superflua, desueta [*8]. Nei suoi due volumi "Die Antiquiertheit des Menschen" [L'uomo è antiquato ], non sono solo le creazioni, le tecnologie e i rapporti sociali dell'umanità ad aver assunto una vita propria, e sono diventati Verdinglich, sfuggendo al controllo umano, ma esse ora minacciano l'annientamento stesso della specie umana, sotto forma di distruzione ecologica e/o nucleare. Per quanto riguarda il processo di lavoro capitalista, Anders sostiene che l'operaio non è solo derubato dei frutti del suo lavoro, ed escluso da qualsiasi controllo sul processo di produzione, ma afferma anche ce l'operaio collettivo ora manca di qualsiasi senso di ciò che sta facendo, o realizzando, poiché il processo di produzione è diventato tanto frammentato, nel tempo e nello spazio, quanto subordinato agli imperativi delle macchine e della tecnologia - esse stesse al servizio del valore astratto - e il processo di lavoro è diventato completamente opaco ai lavoratori, nel senso che esso ora avviene, per così dire, alle loro spalle. Infatti, per Anders, oggi l'operaio non "usa" la macchina, ma viene usato dalla macchina, è subordinato alle sue esigenze e soggetto ad essa. Il risultato, per Anders, è che il lavoratore collettivo del capitalismo moderno si è trasformato in un «uomo-massa» [Massenmensch], incapace di un'azione autonoma. Mentre la filosofia negativa della storia, di Anders, non lascia alcuno spazio per una fuga dalla catastrofe, la sua analisi dell'attuale processo lavorativo e della relazione che il lavoratore ha con la macchina e con la tecnologia, non può essere semplicemente ignorata solo in quanto troppo pessimista. Ma non può nemmeno essere confutata facendo semplicemente ricorso a una filosofia positiva della storia, secondo la quale la classe operaia rompe inevitabilmente le catene, fisiche e mentali, del capitalismo. Per "confutare" il pessimismo andersiano, è necessaria un'analisi concreta delle reali possibilità che si trovano racchiuse nel lavoratore collettivo e nel moderno processo lavorativo capitalista [*9].
Ma per Jappe, la via d'uscita da una simile totalizzazione, se così deve essere, non risiede nelle lotte del lavoratore collettivo, ma piuttosto in altri due fattori. Per prima cosa, mai prima d'ora nella storia dell'umanità la perpetuazione di forme sociali feticizzate aveva «minacciato l'esistenza stessa della specie umana» [*10]. Questa affermazione somiglia in maniera inquietante all'affermazione di Lukács secondo cui la consapevolezza del fatto che ciò che viene continuamente posto in gioco dalla continua esistenza del capitalismo, è diventato una «questione di vita o di morte». In secondo luogo, la società della merce «è la prima società ad aver riconosciuto l'esistenza di forme feticizzate in quanto tali», e ad avere una simile coscienza: che è un prerequisito per superare il feticismo, «pour sortir du fétichisme» [*11]. Quest'ultima affermazione però non decide su chi, su quale classe sociale, possegga tale coscienza. In realtà, entrambi questi argomenti non riescono a localizzare la coscienza necessaria per abolire la forma-valore secondo una prassi effettiva di un soggetto, per esempio, nel mondo-vita del Gesamtarbeiter e nelle sue lotte. Come tali, queste affermazioni mancano della concretizzazione storica e sociale che sarebbe necessaria per renderle convincenti di fronte all'impatto esercitato dalle forme sociali reificate generate dal regno del capitale.

Questo è anche il caso dell'analisi di Postone, nonostante la potenza della sua critica del «marxismo tradizionale». Per Postone, «...nell'analisi di Marx, il proletariato non è il rappresentante sociale di un possibile futuro non capitalista»[*12]. Questo perché Postone vede il proletariato solo «come fonte di valore, ma non di ricchezza materiale» [*13]. In tal modo, l'abolizione della forma di valore comporta anche l'abolizione del lavoro proletario, sebbene la negazione definitiva del capitalismo, per Postone, non sia rappresentata da «nessuna formazione sociale esistente». [*14] Pertanto, per Postone, «... lungi dal costituire quelle forze produttive socializzate che entrerebbero in contraddizione con i rapporti sociali capitalistici, e che quindi indicherebbero la possibilità di un futuro post-capitalistico, la classe operaia, per Marx, è l'elemento costitutivo essenziale di quegli stessi rapporti sociali [capitalistici]» [*15]. La classe operaia, a dire il vero, produce e riproduce quegli stessi rapporti sociali, ma li produce soltanto, oppure è il Gesamtarbeiter che crea anche, e quindi «produce», la possibilità di sovvertire quegli stessi rapporti sociali? Infatti, secondo Postone, questa possibilità «dipende ... dalla contraddizione di fondo della società capitalista» [*16]. E per Postone, questa soggiacente contraddizione di fondo risiede nella disconnessione tra la creazione di valore astratto e la produzione di ricchezza reale o materiale, essendo la prima la «base fondamentale del modo di produzione capitalistico.... » [*17]. Postone qui si riferisce a quel punto seminale dei Grundrisse di Marx dove viene mostrato che: «La ricchezza reale si manifesta invece — e questo è il segno della grande industria — nella enorme sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa fra il lavoro ridotto ad una pura astrazione e la potenza del processo di produzione che esso sorveglia [...] Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso.» [*18]

Marx ha mostrato che mentre per un'intera epoca storica la forma valore è stata una condizione per l'enorme sviluppo della ricchezza reale - a prescindere dalle forme alienate in cui si è manifestata e gli orrori a cui l'accumulazione primitiva e lo stesso processo di produzione capitalista hanno condotto - sarebbe stata la traiettoria stessa del capitale che avrebbe inevitabilmente portato a una contraddizione tra il processo di valorizzazione e l'espansione della ricchezza reale. Ora viviamo in un'epoca in cui questa contraddizione diventa sempre più acuta ogni giorno che passa, in cui il perdurare della forma valore condanna l'umanità sia alla distruzione massiccia della ricchezza reale sia a limiti sempre più rigidi che si impongono alla sua ulteriore creazione. La forma del valore è passata, da tempo, dall'essere una condizione per la creazione della ricchezza reale a diventare un ostacolo insormontabile ad essa [*19]. L'attualizzazione del «must» di Marx, un "must" politico, richiede però un'azione umana, insieme a un soggetto umano che possa concretizzare la possibilità storica cui Marx punta; ed è proprio qui che Postone non riesce a coniugare con tale soggetto la possibilità e la necessità storica dell'abolizione della forma del valore. Ma la negazione del capitalismo può attuarsi senza una determinata forma sociale? La contraddizione di fondo del capitalismo non deve forse avere un'espressione in una forza sociale effettiva? E questa forza sociale non è forse la potenza produttiva della classe - il lavoratore collettivo - che produce non solo valore, ma ricchezza materiale o reale? Backhaus, Reichelt e Bonefeld - al contrario - si concentrano su ciò che sembra mancare a Jappe e Postone: l'azione umana e il lavoro - per citare Bonefeld - visti «come potenza costituente», in cui «il lavoro esiste contro sé stesso nella forma del mondo pervertito del capitalismo» [*20]. Questi pensatori, pertanto, spiegano quegli aspetti della "vita" del lavoratore collettivo, che indicano la sua capacità di far esplodere le forme sociali feticizzate nelle quali vive. Che l'azione umana, compresa quella del lavoratore collettivo, produca e riproduca le forme sociali feticizzate del capitale sembra chiaro. Come Bonefeld mostra in diversi punti, il capitale non si auto-valorizza; in quanto valore valorizzante, esso viene prodotto dal lavoro del lavoratore collettivo. Ma l'azione umana, la prassi del lavoratore collettivo, non è forse anche produttiva in un altro senso, non possiede forse anche delle possibilità creative che possono distruggere i rapporti sociali capitalisti e trasfigurare il Gesamtarbeiter? Sono queste possibilità, questi aspetti del lavoro, e il lavoratore collettivo che li incarna, ad avere la prospettiva di far esplodere la forma merceologica insieme al mondo reificato che essa ha creato. Quella forma e quel mondo, prodotti dal lavoro astratto, possono essere distrutti - se devono essere distrutti - solo sulla base delle proprietà conchiuse nel lavoro sociale [gesellschaftliche Arbeit] stesso. La doppia natura della merce, valore e valore d'uso, corrisponde a un duplice carattere del lavoro: un valore d'uso che è l'oggettivazione [Vergegenständlichung] del lavoro concreto; mentre il valore è l'oggettivazione del lavoro astratto. Come ci fa vedere Marx nella prima edizione tedesca del Capitale (Volume I), ciò non significa che «... ci sono due diversi tipi di lavoro che si nascondono annidati nella merce, ma piuttosto è lo stesso lavoro, specificato in modo diverso e persino contraddittorio - a seconda che esso sia legato o meno al valore d'uso della merce in quanto prodotto del lavoro, oppure legato al valore-merce in quanto sua espressione meramente oggettiva.[*21] Alla questione circa come il lavoro produca e riproduca il rapporto di capitale - la forma di valore, in cui è imprigionato - per la teoria marxista si aggiunge un'altra questione scottante, la questione legata alla coscienza di classe: come può, nel capitalismo, la potenza produttiva storicamente specifica del lavoro infrangere concretamente i modi reificati in cui il capitale l'ha imprigionato. Questa non è una questione metafisica circa una presunta essenza umana, o una questione di antropologia filosofica; non è una questione ontologica, a meno che non si rifondi l'ontologia come un'ontologia storica. Per Reichelt: «L'essenza umana, l'unità dell'individuo con il suo stato di specie, esiste solo in forma invertita, la quale dev'essere eliminata attraverso la prassi rivoluzionaria» [*22]. L'essenza umana e la sua natura di specie che Reichelt qui indica, non è un dato a-storico o una natura umana fissa, ma si tratta piuttosto di un progetto da attualizzare attraverso la prassi del lavoratore collettivo; è prospettico. E questa prassi, concretizzata nel lavoro sociale, non è più trans-storica del lavoro che produce valore. Data la storicità del capitalismo e della forma-valore, allora, quali sono le potenze assopite nel lavoro sociale che produce sia il valore astratto che il valore d'uso contenuto nella forma-merce, e che hanno il potenziale di farlo esplodere? Dobbiamo guardare a quegli elementi della prassi umana, alla prassi del lavoratore collettivo, che il capitalismo richiede, tanto per la sua valorizzazione quanto per la produzione di «ricchezza reale», e che sono elementi indispensabili al processo di accumulazione, ma che contengono anche la prospettiva di distruggerlo.

Nel 1970, Hans-Jürgen Krahl ha sollevato una questione a cui il marxismo, e la teoria della forma-valore in particolare, deve ancora dare una risposta teorica: Può «la dialettica del lavoro, cioè il lavoro sociale, essere non solo una disgrazia, quanto al suo utilizzo da parte del capitale, ma anche una forza produttiva negatrice di capitale [kapitalnegatorische] e per l'emancipazione?»[*23] Per Bonefeld, «la contraddizione fondamentale del capitale consiste nella sua dipendenza dal lavoro»[*24]. Ma mentre il capitale dipende dal lavoro, per Bonefeld la relazione che il lavoro sociale ha con il capitale è assai più complicata: «Il capitale non può rendersi autonomo dal lavoro vivo; l'unica autonomizzazione possibile è dalla parte del lavoro. .... Il lavoro esiste, nel e contro il capitale, mentre il capitale, in ogni caso, esiste solo nel e attraverso il lavoro... La pratica sociale del lavoro esiste contro il capitale e anche come momento dell'esistenza di quest'ultimo»[*25]. L'affermazione di Bonefeld, secondo cui la pratica sociale del lavoro esiste contro il capitale, è un'intuizione fondamentale, ma rimane solo un primo passo per poter rispondere alla sfida di Krahl, la quale richiede poi un livello di concretizzazione che è molto più dettagliato, e al quale il mio testo può fare poco più che accennare. Nel Capitale, Marx ci ha fornito gli elementi chiave per tale risposta: «Il lavoro è, innanzitutto, un processo tra uomo e natura, un processo per mezzo del quale l'uomo, attraverso le proprie azioni, media, regola e controlla il metabolismo tra sé stesso e la natura. Egli, in quanto forza naturale, si pone in relazione con i materiali della natura. Mette in moto quelle forze naturali che appartengono al suo corpo, le sue braccia, gambe, testa, e mani, al fine di appropriarsi dei materiali della natura in una forma che sia adatta ai suoi bisogni. Attraverso tale movimento, egli agisce sulla natura esterna e la cambia, e in questo modo allo stesso tempo, simultaneamente, cambia anche la propria natura» [*26].
Ed è proprio l'affermazione di Marx - secondo cui il lavoro sociale come modalità di prassi non ha semplicemente un obiettivo esterno a se stesso, ma è sia un'azione significativa in sé stessa che una modalità di auto-creazione, vale a dire,  la produzione di una propria soggettività - che deve aver stimolato la linea di pensiero di Krahl. Un altro punto di partenza, è la potente affermazione di Marx secondo cui il lavoro non produce solo valore, ma è un «fuoco vivente che dà forma» [*27], sebbene ciò sia anche criticamente importante. Dobbiamo indagare i modi specifici che vengono assunti da questo «fuoco che dà forma», riferiti a quelle che sono le condizioni del dominio reale del capitale; e che sono modi che contengono la prospettiva di minacciare la forma stessa del valore, e non possono essere semplicemente sottomessi ai bisogni del solo capitale. Quelle che sono le facoltà e i processi creativi, per esempio - non riducibili alla razionalità strumentale - che scatenano i poteri produttivi del lavoro, sono necessari non solo nelle lotte competitive tra le entità del capitale, ma, anche potenzialmente, esse sfuggono alla riduzione agli imperativi del capitale. Tutte le facoltà creative, inclusa l'immaginazione del lavoratore collettivo, sono essenziali per l'innovazione che le entità di capitale richiedono in quella che è la loro lotta contro i rivali; si tratta di un'innovazione attraverso la quale i profitti in eccesso si accumulano a partire dalla loro capacità di produrre le loro merci al di sotto del tempo di lavoro medio socialmente necessario che viene richiesto in ogni dato ramo della produzione. Questa stessa capacità di immaginare nuove forme e nuovi modi di azione umana, costituisce un potenziale pericolo per un mondo capitalista che è anche sempre più spinto da un bisogno di svalorizzazione, e motivato dall'espulsione di masse di lavoratori dai processi di creazione del valore, vista come un mezzo per assicurare la continuazione del processo di accumulazione. Ma quella creatività e quell'immaginazione, che possono potenzialmente far esplodere la forma di valore, non risiede nelle forme di creatività e immaginazione attraverso le quali il capitale ha storicamente trasformato il mondo. Non risiede nelle forme di creatività e di immaginazione che sono legate alle forme di scienza e tecnologia, e che sono state parte integrante dello sviluppo stesso della forma di valore negli ultimi secoli: forme legate esclusivamente alla quantificazione, alla ragione strumentale; a ciò che Ernst Bloch chiamava Kalkül-Natur, la natura come oggetto di calcolo. Si tratta di esplorare le possibilità di collegare il «fuoco vivente e generatore di forme» di Marx, nella  prassi del lavoro sociale, a un progetto che miri a quella che Bloch chiamava una «tecnologia dell'alleanza» [Allianztechnik], basata su una concezione assai diversa della scienza, una «scienza delle tendenze» [Tendenzwissenschaft] che possa espandere il metabolismo tra l'umanità e la natura, in contrasto con la scienza legata al capitale. Questa scienza, integralmente legata alla forma del valore, minaccia questo metabolismo e fa presagire catastrofi ecologiche su una scala senza precedenti.

A essere in gioco qui, non è l'ideologia del neo-Luddismo, non si tratta di una qualche versione aggiornata della demolizione delle macchine, o della nostalgia di un mondo pre-capitalista. La posta in gioco è molto più profonda e complessa. Non sono le macchine o le tecniche ad essere in questione, nel mentre che contempliamo la minaccia all'ecosistema da cui dipende la vita umana. È piuttosto il modo in cui la natura, la realtà, si «mostra» agli esseri umani. Il capitalismo e la sua scienza e tecnologia si basano sull'esclusiva quantificazione e strumentalizzazione dell'intera realtà al servizio della produzione, e della sua espansione vista come fine a se stessa. L'astrazione reale del valore e del lavoro, i cui segreti Marx ha cominciato a penetrare, hanno le loro basi negli stessi modi in cui la realtà si manifesta per la scienza e la tecnologia moderna, cioè capitalista. Bloch ha stabilito questo legame tra la produzione capitalista come accumulazione senza fine di valore astratto e la scienza e la tecnologia che la sostengono: «La produzione è naufragata su una razionalità astrattamente compartimentalizzante, che divide il lavoro; questa artificialità è tanto distaccata dall'interezza vivente dell'essere umano, quanto lo è dal contesto «naturale» del lavoro in questione... Le macchine sono state costruite seguendo una forma talmente alienata di comprensione, e spinte assai lontano in uno stato di artificialità - e in parte, anche al di là della categoria degli oggetti - al punto che hanno cominciato a popolare quello che è un nuovo regno degli spiriti... Il soggetto si trova a camminare in bilico sull'orlo del nichilismo assoluto; e se una tale meccanizzazione, con o senza scopo, se questo impoverimento universale del significato, dovesse giungere a compimento, allora il vuoto futuro potrebbe rivelarsi identico a tutte le ansie di morte della tarda antichità e a tutte le ansie medievali sull'inferno» [*28].
Contro tutto ciò, tuttavia, Bloch pone un «principio di speranza», oggi concretizzato sia nell'attuale incarnazione del lavoro sociale - quello del lavoratore collettivo - sia nella possibilità di una tecnologia dell'alleanza e di un nuovo rapporto dell'uomo con la natura. Un simile rapporto ha come presupposto che la natura, la materia, non sia più concepita come un oggetto morto, inerte, sulla quale l'uomo opera semplicemente la propria volontà; ciò che Bloch chiama Klotzmaterie, vale a dire, un blocco o un grumo. Egli postula invece una «co-produttività» dell'umanità e della natura, dove le potenzialità contenute nella natura e nella materia possono essere sbloccate per mezzo di un rapporto dialettico tra la materia, come intrinsecamente processuale, e la prassi umana; laddove il punto di vista di una nuova scienza non è quello di controllare, di "spiegare" la natura, bensì di relazionarsi alla natura ermeneuticamente (attraverso ciò che Bloch chiama una «ermeneutica oggettiva-reale») il cui compito è quello di interpretarla, comprenderla, e non di dominarla. In effetti, una relazione dell'umanità con la natura basata sulla quantificazione e la matematizzazione, e il modo di razionalità che la propugna, risulta in una crisi, una crisi ecologica, allo stesso modo in cui le relazioni sociali basate sullo sfruttamento del lavoro vivo, risultano in crisi socio-economiche. Ed è la stessa razionalità, la quale tratta la natura come un oggetto, a tentare anche di oggettivare il lavoratore collettivo e trasformarlo in una «cosa». Se, sulla base di un'analisi della forma-valore, riconosciamo che non esiste alcuna economia politica marxista, non esiste nessuna economia marxista, ciò è perché il progetto di Marx era una critica dell'economia politica, una critica dell'economia e della sua pretesa di essere una «scienza». Come ha sostenuto Hans-Georg Backhaus: «La cecità degli economisti "moderni" rispetto a quella che era l'intenzione di base della critica di Marx, si fonda sulla medesima comprensione scientista e strumentale della scienza, secondo la quale la qualità deve essere ridotta alla quantità, e che considera la "verità" e la "realtà" come dei concetti "metafisici" che devono essere espulsi dalla scienza» [*29]. Ma non sono solo le scienze sociali, come l'economia, a soffrire di quello che Backhaus chiama qui «pregiudizio scientista»[*30]; ma ciò riguarda anche tutto l'insieme delle scienze naturali. Ed è qui che la rivendicazione di Bloch di una scienza e una tecnologia diversa di fronte alla devastazione - sociale e naturale - operata dal capitalismo, assume la sua importanza. Le possibilità di una tale tecnologia e scienza devono essere cercate nell'attuale mondo in cui vive il lavoratore collettivo, se si vuole realizzare il progetto di un Gemeinwesen umano. Un aspetto di ciò è il ri-conoscimento che si trova sotto l'apparente oggettività delle relazioni economiche su cui si basa l'economia politica, e le sue categorie economiche, si trova nelle relazioni tra esseri umani, sebbene siano in forma alienata. Perché esploda la forma del valore, quindi, implica riuscire a vedere attraverso, o oltre i modi estraniati in cui appare la realtà immediata delle relazioni sociali, per trovare quelle che sono delle forme create dall'uomo, pervertite [verrückte], di relazioni tra gli esseri umani: modi di auto-alienazione. Ho sottolineato come la totalizzazione verso cui si muove il capitale, un mondo completamente reificato, e in cui, come ha detto Günther Anders, l'uomo diventa "obsoleto", può avere un limite proprio nel bisogno che il capitale stesso ha della creatività e dell'immaginazione del lavoratore collettivo, a cui aggiungerei anche l'impatto che sul lavoratore hanno le catastrofi sociali e naturali prodotte dalle stesse contraddizioni insolubili del capitalismo. Questi sono temi che devono essere portati avanti, così come il ruolo della memoria rivoluzionaria che si trova insediata nel lavoratore collettivo: l'eredità delle passate lotte di classe e degli sconvolgimenti rivoluzionari, le cui tracce non sono andate perse e potrebbero essere riattivate.

L'essere umano ha un'esistenza paradossale: egli si presenta allo stesso tempo come determinato e determinante. Le relazioni sociali ed economiche, e le oggettivazioni culturali si materializzano attraverso forme determinate, frutto di traiettorie storiche specifiche, per quanto contingenti. Nella civiltà capitalista, è attraverso la forma del valore che si materializzano i rapporti sociali e le oggettivazioni culturali determinanti. Il modo di soggettivazione dell'essere umano nel capitalismo, quindi, viene determinato dalla forma del valore. In effetti, la traiettoria storica del capitalismo ha comportato la penetrazione della forma valore in tutti i campi dell'esistenza umana. Il compito della rivoluzione comunista, allora, ha il suo punto di partenza in un contro-movimento, da parte di un determinato portatore sociale o di classe [Träger], il lavoratore collettivo, il Gesamtarbeiter di Marx, rispetto alla reificazione istanziata dalla forma-valore e dalla sua logica totalizzante: un contro-movimento che si fonda sulla realtà esperienziale, sui processi di vita effettivi di quel lavoratore collettivo. Un tale contro-movimento deve avere una base nel processo lavorativo contemporaneo stesso, e la sua indagine è oggi un compito teorico urgente. Un compito primordiale della teoria marxista, pertanto, è quello di localizzare proprio dove si trova quella scintilla di rivoluzione, rispetto alla vita esperienziale del lavoratore collettivo di oggi; dov'è che il «fuoco che dà forma» di Marx può esplodere in una fiamma rivoluzionaria. Se, come sostengo, la categoria modale della possibilità [Möglichkeit] ha la priorità sull'attualità [Wirklichkeit], allora dobbiamo chiederci dove possiamo trovare, nei processi di vita del lavoratore collettivo, la possibilità di far esplodere la forma del valore, la possibilità di rovesciare il mondo reificato del capitalismo e creare ciò che Marx ha definito una comunità umana [Gemeinwesen], dove fare il salto da «è» [Sein] a «deve» [Sollen]? Il compito, allora, è quello di localizzare quel «dovrebbe» - il comunismo - e trovare dove si trovano le condizioni per la sua comparsa all'interno delle possibilità immanenti all'«è» prevalente, il capitalismo; localizzare la possibilità della negazione del capitalismo, la possibilità dell'abolizione del lavoro proletario, nelle contraddizioni attuali di quell'ordine e in un determinato soggetto della rivoluzione. Tale è la questione con cui Georg Lukács ed Ernst Bloch si sono confrontati per la prima volta all'alba di quella che Lukács ha definito l'«età del peccato assoluto», provocata dallo scoppio della prima guerra mondiale, e con cui ci confrontiamo ancora oggi all'inizio del secondo decennio del ventunesimo secolo.

- Alan Milchman (Mac Intosh) 1940-2021 - Pubblicato su  "Internationalist Perspective", Issue 57: Fall/Winter 2010 -

NOTE:

[*1] - Max Horkheimer, “Traditionelle und kritische Theorie” in Max Horkheimer, Gesammelte Shriften, Band 4 (Fischer Taschenbuch Verlag, 1988), p. 186.
[*2] - Georg Lukács, History and Class Consciousness: Studies in Marxist Dialectics (Cambridge, Massachusetts: The MIT Press, 1971), p. 93.
[*3] - Ibid., p. 168.
[*4] - Ibid., p. 166.
[*5] - Ibid., p. 164-165.
[*6] - Anselm Jappe, Les Aventures de la marchandise: Pour une nouvelle critique de la valeur (Denoël, 2003), p. 170.
[*7] - Moishe Postone, Time, Labor, and Social Domination: A Reinterpretation of Marx’s Critical Theory (Cambridge University Press, 1993), pp. 319 and 371.
[*8] – Diversamente da Adorno, Anders non è stato un marxista. Ma la sua analisi dell’impatto avuto dall’industria e dalla tecnologia rispetto al capitalismo e al soggetto umano non può essere isolato dal pensiero marxista.
[*9] -Nel quadro del presente testo, questo è un compito urgente al quale posso solo accennare.
[*10] - Jappe, Les Aventures de la marchandise, p. 234.
[*11] - Ibid.
[*12] - Postone, Time, Labor and Social Domination, p. 355.
[*13] - Ibid., p. 357.
[*14] - Ibid., p. 358.
[*15] - Ibid., p. 357.
[*16] - Ibid.
[*17] - Ibid., p. 25.
[*18] - Karl Marx, Grundrisse, (Penguin Books, 1973), p. 705.
[*19] - Per un'analisi dei modi in cui la crisi del valore si manifesta oggi, si veda Sander, “A Crisis of Value.
[*20] - Werner Bonefeld, “Capital as Subject and the Existence of Labour” in Open Marxism, Volume III, Emancipating Marx, Edited by Werner Bonefeld, Richard Gunn, John Holloway, and Kosmas Psychopedis (Pluto Press, 1995), p. 184.
[*21] - Value: Studies by Marx (New Park Publishers, 1976), p. 16.
[*22] - Helmut Reichelt, “Social Reality as Appearance: Some Notes on Marx’s Conception of Reality” in Human Dignity: Social Autonomy and the Critique of Capitalism (Ashgate, 2005), p. 38.
[*23] - Hans-Jürgen Krahl, Konstitution und Klassenkampf: Zur historischen Dialektik von bürgerlicher Emanzipation und proletarisher Revolution (Verlag Neue Kritik, 1971), p. 387.
[*24] - Bonefeld, “Capital as Subject and the Existence of Labor,” p. 204.
[*25] - Werner Bonefeld, “Human Practice and Perversion: Beyond Autonomy and Structure” in Revolutionary Writing: Common Sense Essays in Post-Political Politics (Autonomedia, 2003), p. 78.
[*26] - Karl Marx, Capital: A Critique of Political Economy, Volume I (Penguin Books, 1976), p. 283
[*27] - Marx, Grundrisse, p. 361.
[*28] - Ernst Bloch, “The Anxiety of the Engineer” in Ernst Bloch, Literary Essays (Stanford University Press, 1998), pp. 306-308.
[*29] - Hans-Georg Backhaus, “Some Aspects of Marx’s Concept of Critique in the Context of his Economic-Philosophical Theory” in Human Dignity: Social Autonomy and the Critique of Capitalism, p. 15.
[*30] - Ibid.

fonte: Internationalist Perspective

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