mercoledì 17 novembre 2021

E due: certo, la classe non è acqua, ma …

In questa seconda parte, in cui prosegue - a cura della rivista "Stoff" -  la critica della "critica del valore" (la cui prima parte è stata qui tradotta e pubblicata sul blog), viene affrontata  - come temevo, ed era tale timore il motivo per cui in un primo momento avevo abbandonato il lavoro di traduzione del testo, giudicandolo oltremodo noioso e inutile (cosa su cui invece sono ora ritornato per amor di ... "completezza") - e portata avanti a colpi di «la lotta di classe deve continuare»; dove, a mio avviso, l'unica spiegazione di un simile  "dovere" risiede nel fatto che, per fare la rivoluzione non si riesce a trovare neanche un succedaneo di questa fantomatica classe, ridotta sempre più a suoi minimi termini di difesa concorrenziale dei propri interessi (che poi formano l’interesse di “continuare a essere classe”, e non certo ad auto-abolirsi). Come avevo già scritto prima, Astarian mi continua a essere simpatico, e trovo non poco interessanti quelle che sono le sue intuizioni critiche, ma usare, tra queste intuizioni, quella che nega uno statuto di «teoria della rivoluzione» alla teoria del valore non credo possa servire a dimostrare la necessità dell’utilizzo dello strumento della «lotta di classe» al fine di un conseguimento della «demolizione del realismo capitalista»; anzi!

Sostanza del capitale e lotta di classe (parte 2)
- da "Stoff" - Novembre 2021

Un punto è di particolare interesse per noi: la questione dell'emancipazione. Chi ci libererà dal capitalismo, e come? - Continuazione e fine della prima parte.
Parte seconda - Ritorno alla lotta di classe

Per quanto ci riguarda, riteniamo che un'emancipazione promossa e portata avanti dagli strati dei lavoratori salariati (di cui noi siamo sicuramente parte) - così come dalle loro sottocategorie più o meno volontariamente emarginate - verrebbe ben presto sopraffatta in seguito al crescente imbarbarimento dei rapporti sociali. Il momento di gloria di una piccola borghesia culturale insorta, in effetti noi la immaginiamo come se si trattasse di una rete di isole assediate, nelle quali la riproduzione manterrebbe un aspetto umano, e dove l'alternativa è infatti la caduta tendenziale di tali lotte. Quella che viene vista come un'emancipazione, funzionerebbe tutt'al più come una tattica temporeggiatrice. Oppure come l'ultimo sotterfugio del capitale dal volto umano - giustamente criticato dalla WK [Critica del Valore - WertKritik] - nel momento in cui tutte le altre soluzioni (reddito di base, salario universale, ecc.) avranno mostrato tutti i loro limiti. Del resto, contrariamente a quanto pensava Kurz, noi riteniamo che la lotta di classe non sia stata - e lo sarà sempre meno - un movimento che ha sempre portato alla modernizzazione dell'apparato produttivo, e più in generale alla modernizzazione del rapporto sociale. La fine del movimento operaio non è la fine della lotta di classe, la fine dell'identità di classe non è la fine della classe, e le condizioni di soggettivazione del capitale variabile assomigliano sempre più a quelle che oggi sono le stagioni: sono tutte piuttosto sballate. A volte inclinano all'integrazione, soprattutto nelle fasi di espansione del capitale (l'ultima fase del genere, ha coinciso con il compromesso fordista): in quel caso, verrà ricordata come una fase di modernizzazione. Le dimensioni della torta crescono, e le fette diventano più grandi, anche per i più piccoli. Allora, si trattò dell'ascesa della società dei consumi, e in quel modo la merce arrivò così ad occupare quasi tutta la vita sociale. La lotta di posizione, sostituiva ufficialmente la lotta di classe. Poi, subito dopo, ecco che arriva la crisi, che porta alla recessione, al ripiegamento e a delle nuove forme di solidarietà escludente. Si perde la fiducia. La storia non lavora più per noi. Allora ci si guarda, e ci si dice che potremmo condividere ciò che rimane della torta solo con colo i quali sono come noi. Bisogna escludere gli altri, quelli troppo ricchi o quelli troppo poveri, quelli che non sono abbastanza bianchi o che sono troppo cosmopoliti. A meno che i criteri di questa similitudine non vadano a loro volta a cadere sotto i colpi di una storia che si dirige verso la parte sbagliata; dal momento che la necessità di garantire la sopravvivenza ci costringerebbe a costruire sul territorio delle solidarietà trasversali, delle pratiche che dovrebbero fondare un'altra relazione sociale capace di annientare le divisioni ideologiche. O per riattivarle fino al fanatismo. Nessuno lo sa. Si tratta di prospettive inedite e inesplorate. 

Le avventure della lotta
Insurrezione o meno, è comunque a partire dalla produzione di surplus - in quanto risultato, oppure come tendenza - che nasce la lotta di classe, insieme a quelle che sono le sue nuove condizioni di soggettivazione. La WK ha individuato correttamente quelli che sono alcuni limiti relativi alle lotte di "pasticceria" (superficiali e "tronche", politiche, modernizzanti), ma essa però pone tali limiti come se fossero un assoluto, come se non fossero essi stessi, allo stesso tempo, anche soggetti al processo contraddittorio che ci porta tutti verso l'imbarbarimento dei rapporti sociali. Li presenta come se fossero un assoluto, a partire dal fatto che crede di avere la teoria giusta, e immagina quindi che tutte le lotte debbano per forza seguire tale giusta teoria, mentre invece in realtà la stragrande maggioranza delle lotte se ne fregano della teoria, delle categorie, dei concetti, e possono essere comprese solo a partire dalla situazione specifica in cui tali lotte nascono. E ed è così che il teorico della Critica del Valore vede ovunque la «critica tronca», e non vede mai che questo invece lo porta a una posizione priva di qualsiasi base, e idealista.  Surrettiziamente, in maniera subdola,  alla luce della critica categoriale, le sconfitte di un solo giorno diventano le sconfitte di tutta una vita. Bisogna concedere alla WK che, in una certa misura, già in partenza, ogni lotta si inscrive in un quadro nel quale si riproduce lo scontro proletariato/borghesia. Ma solo fino a un certo punto. Perché? Perché una lotta per una migliore integrazione nel processo di valorizzazione del capitale - allorché questa integrazione non è più possibile - è costretta necessariamente a trasformarsi:  o cessa, oppure si rivolta contro se stessa, contro i suoi stessi presupposti. Il più delle volte, cessa. Non fa nemmeno a tempo a incominciare, che già è cessata. Una serie interminabile di sconfitte. E poi arriva il giorno in cui non cessa più, e da categoricamente acritica si trasforma in negazione delle categorie.
Forse conoscete la storia della zucca che si trasforma in carrozza. Vista a partire da una soggettività strutturata dalla razionalità moderna, può sembrare una magia, ma non c'è niente di magico. La lotta per il lavoro e per il riconoscimento attraverso il lavoro non può continuare ad vitam aeternam in un mondo che è impegnato a sopprimere il lavoro e a spingere i superflui nella discarica. Anche a livello individuale, perfino il più gretto degli adoratori del lavoro si rende conto che non basta uscire in strada per trovare un vero lavoro, vale a dire un lavoro che permetta di vivere in una casa decente e di vivere bene. Lavoro sottopagato se ne riesce a trovare ancora. Ma il «vero lavoro» è un tutto un altro paio di maniche. Una lotta continua, cioè imbattuta, non può che rompere con quello che è il corso abituale del capitalismo, con quello a cui siamo stati abituati e che non ha portato da nessuna parte: il perpetuo ammodernamento, imbarcare tutti quanti sulla crociera consumistica che si è poi trasformata in un regime di esclusione. Le lotte della classe operaia si trovano ora davanti al proprio limite, e devono trovare qualcos'altro per riuscire a ottenere, non quello che volevano (lavoro, diritti, garanzie) ma quello che sono obbligati a volere ora (i mezzi per vivere senza essere costretti a lavorare, visto che a questo punto il lavoro remunerativo non esiste più). In altre parole, sulla testa dei lottatori aleggia la potenzialità della rottura .Ma non tutti entrano nella lotta nelle medesime condizioni, poiché non tutti sono anche dei lottatori di classe in grado di arrivare alla rottura. Per i proletari, vale a dire, per coloro che sono i più duramente sottoposti ai rischi del lavoro salariato nella sua forma attuale, questa potenzialità è di primario interesse.  Comunque, Astarian ha ragione, la teoria del valore non reca in sé una teoria della rivoluzione. Nei paragrafi seguenti parleremo perciò della rivoluzione, mostrando come l'importanza della lotta di classe non viene presupposta a partire da un «Soggetto metafisico trascendente» (il Proletariato), ma che può essere compresa sulla base di alcuni elementi di analisi che ci vengono forniti proprio dalla WK, e in particolare da Robert Kurz in "La sostanza del capitale". Parleremo del perché è necessario pensare l'emancipazione dal proletariato, ossia, da un polo che si trova lontano dalle terre d'origine delle lotte teoriche.

La rivoluzione
Sebbene, come ci ricorda Kurz, il rapporto numerico si evolva a sfavore di quei lavoratori non sotto-retribuiti che si trovano nelle formazioni centrali del capitalismo (fenomeno della terziarizzazione [*1]), e nonostante il fatto che una parte del plusvalore non abbia altra esistenza se non quella virtuale sotto forma di anticipazione dei profitti futuri (finanziarizzazione, indebitamento, creazione di denaro a profusione), il proletariato viene comunque chiamato a svolgere un ruolo centrale. In primo luogo, perché dagli anni '70 il numero di lavoratori che svolgono un lavoro che produce plusvalore ha continuato ad aumentare; la sua diminuzione in certe zone dell'Europa e del Nord America non è sinonimo di una diminuzione assoluta su scala globale. Basti pensare al considerevole aumento della forza lavoro salariata in molte parti del mondo come Cina, India, Brasile e Indonesia. In secondo luogo, perché quello che noi chiamiamo proletariato continua a strutturare, intorno a sé e quasi ovunque nel mondo, un blocco sociale che pudicamente chiamiamo «le classi popolari», vale a dire i lavoratori e le lavoratrici che probabilmente svolgeranno, ad un certo punto della loro vita, un lavoro produttivo e riproduttivo, ossia un lavoro che genera plusvalore o che rende possibile tale creazione. Si tratta di una dimensione sociologica la cui importanza è riscontrabile in qualsiasi sequenza di conflitto sociale. Recentemente, lo abbiamo visto di nuovo con i Gilet Gialli, tra i quali i settori di attività legati all'istruzione e ai servizi alla persona erano ben rappresentati. Ragion per cui, anche se non sono sempre lavoratori produttivi in senso stretto, o proletari sottomessi all'estrazione del plusvalore, tutti i membri delle classi lavoratrici condividono un medesimo destino, che è quello di essere i più penalizzati dal modo di produzione.
Oltre tutto, tra chi riceve un salario in eccesso ci sono anche delle lavoratrici produttive, e che pertanto appartengono alla classe media. Abbiamo già detto, in precedenza, come il fatto di essere coccolati possa essere scambiato con una maggiore lealtà, e con una forma di conservatorismo politico pseudo-progressista (cittadinismo, ideologia meritocratica, ecc.). Ma non necessariamente. E di conseguenza anche il coinvolgimento di certe frazioni istruite della forza lavoro può ugualmente prendere parte all'emancipazione. Quindi, ovviamente, non è che in un dato momento A il proletariato - con i suoi alleati reclutati nelle frazioni più o meno declassate della classe media - vorrebbe ottenere a ogni costo la sua parte di torta in quanto «popolo» (ciò che noi descriviamo come populismo), o perché sarebbe in fondo questo potrebbe essere l'unico vero "pasticciere" in opposizione a una cricca di parassiti e di oziosi (la celebrazione del lavoro, propria del movimento operaio) e che poi, in modo meccanico e improvviso, da questo si passerebbe a un momento B nel quale si cercherebbe di sfuggire allo sfruttamento (il momento rivoluzionario). Il B si trova già presente in A (la violenza esercitata contro gli strumenti del lavoro e contro la dirigenza), e ci saranno senza dubbio delle recrudescenze di A anche quando sarà piuttosto B a prevalere (per esempio, milizie armate specializzate nella difesa dei territori conquistati dall'insurrezione). Il tumulto sociale porta alla superficie il meglio, ma anche il peggio. Un momento insurrezionale riunisce necessariamente tutte le soggettività del suo tempo. Nelle strade affollate del mondo, la gente potrà raccontarsi un sacco di cose intelligenti e interessanti, ma anche, senza dubbio, un sacco di stronzate.

Senza riserve
I  proletari sono innanzitutto gli agenti del lavoro salariato, dei lavoratori che possono produrre o meno plusvalore, e che sono costretti a farlo a partire dal fatto che è solo attraverso tale rapporto sociale che possono ottenere la loro sussistenza sotto forma di reddito. Si tratta quindi di un rapporto di dipendenza, e ciò li definisce tutti, senza riserve, che siano essi produttivi o meno: la necessità di affittare la propria forza lavoro per poter sopravvivere. Questa costrizione può essere vissuta più o meno male, ma il destino di coloro che si rifiutano di farlo, o che non riescono ad affittare le loro braccia (o il loro cervello) nonostante i loro sforzi, pende come una minaccia sulle loro stesse teste. Come dice Anselm Jappe, «essere sfruttati diventa quasi un privilegio, rispetto alla massa di coloro che sono stati resi "superflui"» [*2]. Infatti, bisogna sapere sapere che questi lavoratori inattivi non si trasformano in anatre selvatiche libere di volare verso altre «ontologie storiche». Essi vengono tenuti al guinzaglio. Il guinzaglio può essere notevolmente più lungo durante le vacanze (per coloro che possono permettersi di andare in vacanza, il che non è così per poco meno della metà della popolazione francese), ma quando poi arriva il momento di tornare al lavoro, un fremito li percorre - e la fatica riprende. Diversamente, esiste tutta una serie di maschere sociali di carattere poliziesco che sono lì per ricordarci che si deve lavorare. Quanto al superfluo, egli rimane dipendente dal capitale, dacché vive della quota di plusvalore totale che viene assegnata alle istituzioni sociali private e pubbliche di assistenza sociale, sotto forma di salario indiretto. Spesso, la vergogna e il senso di inutilità che derivano dall'ozio, li confina in una visione depoliticizzata della loro condizione.
Porre fine all'esistenza dei senza riserve implica porre fine al legame tra merce e lavoro, all'affitto forzato della propria forza lavoro, dal momento che questo vincolo è un rapporto ineguale che riproduce le sue proprie condizioni: bisogna lavorare per rendersi capaci di... continuare a lavorare. Porre fine alla costrizione  al lavoro-merce significa disfare tutto ciò che un tempo è stato realizzato con l'astuzia e con la violenza: l'istituzione della proprietà come separazione dei produttori dai mezzi di produzione. Questa funesta istituzione divide l'umanità in chi possiede e chi no. Coloro che impiegano e sfruttano la forza lavoro (posseggono i mezzi che rendono possibile la realizzazione di quel lavoro) e coloro che sono costretti a lavorare. Questi ultimi non posseggono altro che la propria forza-lavoro, e a volte quel po' di più (il surplus di salario) che permette loro di credere di essere diventati proprietari; e allora è proprio in questi ambiti, che poi sono quelli delle frange istruite dei salariati e, in particolare, della piccola borghesia intellettuale, che la teoria si adorna illusoriamente di quelle virtù che fecondano le lotte. Senza questa separazione, non ci sarebbe sfruttamento. E senza questo sfruttamento, la separazione non persisterebbe.  

Feticismo e subordinazione del lavoro
La fine della separazione non consiste in un'illusione politica o in una preferenza per la proprietà statale, non ha niente a che vedere con una «critica tronca», e quindi non è prigioniera del realismo capitalista. La fine della separazione è la fine del lavoro produttore di merci, è la fine del soggetto che si conforma a un tale lavoro, oltre a essere la fine della sottomissione del lavoro al tempo astratto. È anche la fine della produzione e dello scambio indicizzato sul valore, ed è la fine della merce. È la fine dell'economia. È il risultato dell'emancipazione operata da un soggetto collettivo che nessun teorico può sovrastare dall'alto della sua scienza. Tuttavia, la fine della separazione non è ancora la fine della nostra vicenda. Come dice Moishe Postone, il lavoro del quale dobbiamo liberarci è un lavoro che è diventato il necessario intermediario obbligatorio tra gli uomini. Per di più, esso media se stesso attraverso gli uomini, anziché essere un'attività consapevole volta a soddisfare i nostri bisogni. Tuttavia, questo lavoro può essere auto-mediante solo nella misura in cui esiste una forza lavoro che genera plusvalore; un lavoro che viene esso stesso socialmente ed economicamente valorizzato in relazione al libero lavoro riproduttivo, che rimane tuttavia una condizione necessaria della sua esistenza. Senza plusvalore, i capitalisti non possono (continuare ad) affittare la forza lavoro dei lavoratori, e quindi perpetuare la società della merce-lavoro. E il diritto al lavoro, ovviamente, non è altro che una sciocchezza di sinistra che si è aggrappata all'idea di "liberare il lavoro", invece di cercare di liberarsi dal lavoro. Il plusvalore necessita, non solo della separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione, ma anche della loro subordinazione ai capitalisti, avvenuta sotto forma di una socializzazione disciplinare, che tra due secoli sembrerà altrettanto inaccettabile del lavoro minorile nelle miniere di carbone. Detto in altre parole, Senza subordinazione non esiste alcuna società feticista, non ci può essere nessuna società organizzata intorno a un'istituzione «artificiale» ("feitiço", in portoghese), quale il lavoro-merce, . È solo a questa condizione che chi è «senza riserve» può entrare in un processo di combustione corporea umana, vale a dire realizzare «(un dispendio di energia) che possa essere espresso nei termini di un quantum di valore » [*3]. Pertanto, lo sfruttamento, in primo luogo, esiste in relazione al feticismo, e presuppone la subordinazione. Nell'ordine della causalità storica e logica, viene prima e apre la strada, come vedremo, alla concettualizzazione della rottura rivoluzionaria. Purtroppo, la WK non assegna la giusta importanza alla subordinazione. Vede solo il feticismo, e per di più lo fa assumendolo a volte in un senso traballante. Sì, il «soggetto automatico» ci tiranneggia, ma questa tirannia è basata necessariamente su un momento nel quale qualcuno che ha bisogno di lavorare si trova di fronte a qualcuno che ha bisogno, per produrre plusvalore, di un lavoratore o di una lavoratrice. Per produrre plusvalore, si richiede questo momento. E la produzione di questo plusvalore costituisce essa stessa la condizione per la riproduzione di questo rapporto. Il lato nascosto della dipendenza impersonale di tutti dal capitale è la co-dipendenza molto concreta tra i «senza riserve» (occupati o no) e i proprietari dei mezzi di produzione. Se c'è un feticismo delle relazioni sociali capitaliste, ciò accade perché è l'uomo che si è sottomesso alla costrizione del lavoro. 

La rivolta contro l'obbedienza
Questo vincolo si costituisce in delle condizioni particolari. La concorrenza tra i capitalisti impone loro di sfruttare il lavoro vivo il più intensamente possibile. Richiede anche di razionalizzare la produzione, di meccanizzare ciò che in tal modo potrà essere fatto in maniera più redditizia, di usare tecniche manageriali per controllare il tempo, le pratiche e i desideri dei lavoratori. Tutto ciò che contribuisce ad eliminare il superfluo, è buono. Questi imperativi vanno a costruire un vero e proprio regime disciplinare. La ricerca della produttività, è la madre instancabile della disciplina. L'altra madre severa della disciplina è la standardizzazione. Non si tratta infatti solo di produrre qualcosa il più rapidamente possibile. È necessario produrre, più a buon mercato, sempre più e sempre più velocemente della concorrenza, dei prodotti standardizzati (ma diversificati) che possano essere scambiati, venduti, e così permettere quindi di chiudere il circuito dell'accumulazione. La ricerca della produttività diventa così perciò, anche la costante ricerca di un prodotto standardizzato e reso autorevolmente desiderabile per tutti. Vediamo così che il «lavoro che crea valore viene concretamente formattato a tale fine» [*4];  il lavoro astratto non è per niente un'astrazione. Produttività del lavoro e normalizzazione del prodotto del lavoro si completano e si presuppongono a vicenda. Soltanto a queste condizioni il lavoro svolto e i prodotti scambiati, in una società molto grande, da produttori indipendenti, possono entrare in un regime di commensurabilità, vale a dire, laddove tra di essi ci sono solo differenze quantitative. Al contrario, se ciascuno lavorasse a modo suo, al proprio ritmo, per produrre un oggetto specifico con una gamma di utilità molto limitata (ma tuttavia non meno importante per la persona che lo usa, anzi) allora ecco che non si potrebbe più scambiare nulla, se non ore e ore di chiacchiere al fine di riuscire a concordare i termini dello scambio [*5]. Le persone dovrebbero parlare molto tra di loro, entrare in relazioni interpersonali, da un individuo all'altro. Sarebbe l'anarchia. Forse perfino l'anarchismo. Ma non sarebbe più il capitalismo. Per quest'ultimo, il mercato, in quanto intermediario obbligato degli esseri umani, deve essere imposto, e per imporlo deve esserci una separazione violenta, crudele e sempre rinnovata di una gran parte degli esseri umani e del mondo. Il momento originario di una simile separazione ha avuto luogo nella sfera della produzione, ed è avvenuto in modo che questa produzione si conformasse a un imperativo di produttività e di standardizzazione. Separare per poter realizzare quella «combustione sociale» che è la fonte del plusvalore; è così che il capitalismo si mantiene, ed è per questo che usa tutta la sua violenza. Ed è a queste condizioni che il valore si trova a essere già «prodotto» nella produzione privata, e che il prodotto del lavoro contiene in sé qualcosa di sociale. Viceversa, quando la classe del lavoro produttivo - e anche del lavoro improduttivo più strettamente subordinato - distrugge le condizioni di lavoro, e di conseguenza cessa di essere una classe di lavoro, distrugge in quello stesso movimento anche la socializzazione capitalista. Si potrebbe dire che il lavoro che viene più intensamente socializzato dal capitale, e il cui prodotto è il più in linea con le aspettative di accumulazione, dunque «lavora» alla sua propria scomparsa: il suo prodotto è l'impossibilità di accumulazione.  

L'insubordinazione
Il movimento di rivolta della classe subordinata comporta necessariamente la rottura con la disciplina, con la ricerca della produttività, con la norma, con l'assenza di qualità, con la separazione. Il suo movimento mira, potenzialmente (ma non necessariamente), alla distruzione di tutto ciò che rende possibile l'esistenza della sostanza del capitale, anche se quasi tutti i membri di questa classe non hanno mai sentito parlare di Robert Kurz e del suo libro, che si intitola appunto "La sostanza del capitale". Non dite mai «lotta teorica», dite «lotta di classe». Se questo movimento è vittorioso fin dal suo primo slancio, allora la lotta può trasformarsi in insubordinazione generale, in tutti i settori della vita. Da qui in poi, ci avviciniamo al quel crinale da dove cominciamo a vedere al di là del capitalismo. La famosa uscita dall'economia in senso moderno. Ed ecco perché, all'interno della contraddizione tra il lavoro sempre necessario e il lavoro sempre in eccesso, il proletariato continua a essere la classe più strettamente sorvegliata: al momento della sua insubordinazione, essa diventa anche la classe più pericolosa. L'inizio delle ostilità nei confronti del regime disciplinare della relazione di sfruttamento, segna la rottura con un modo di esistenza in cui la vita non viene realmente vissuta, ma piuttosto subita. È l'inizio della fine di una passività durata troppo a lungo. La gente si vendica degli affronti subiti. Inizia la riconquista dei territori del sogno e del potere di scrivere da sé soli le regole del gioco. Questa rottura apre un capitolo storico in cui, poco a poco, la «seconda natura» appare come una costruzione sociale obsoleta. Nel mentre che, simultaneamente, le categorie economiche, che prima venivano considerate «naturali», entrano in un irrimediabile processo di invecchiamento accelerato. La rottura, o spezza i legami più forti della comunità del capitale, oppure non rompe nulla. O è rivoluzionaria oppure è solo alternativista, o crea un altro mondo oppure organizza solo delle nicchie temporanee all'interno del mondo attuale per attutirne il declino. O trova in sé qualcosa che permetta di demolire il realismo capitalista, oppure semplicemente si limita a trovare nei libri qualcosa per poter criticare altre idee circa questo realismo. La rivoluzione, o è la figlia della lotta della classe preposta alla combustione sociale, o non lo è affatto.

Conclusione: Comunismo ? Barbarie ?
La migliore difesa che il capitalismo può opporre contro la sua propria stessa fine, è che nonostante tutto - nonostante lo sfruttamento, nonostante la distruzione del pianeta, nonostante le mutilazioni che infligge e perpetua nella sfera della riproduzione - si presenta a noi come un'immensa accumulazione di ricchezza. Ricchezza alienata e alienante certamente, ma assolutamente considerevole nel suo volume, senza precedenti nelle sue dimensioni in tutta la storia dell'umanità. Ricchezza che è sufficiente, almeno nelle formazioni capitalistiche centrali, a garantire la sopravvivenza di centinaia di milioni di persone «senza riserve» - una parte significativa delle quali è disoccupata. Questa ricchezza è diffusa ovunque. Fate una passeggiata lungo le vie dello shopping delle grandi città, tra gli scaffali dei supermercati: la torta è enorme. Naturalmente, questa ricchezza obbedisce alla sua propria legge, si produce nelle deviazioni della valorizzazione del capitale, attraverso la violenta riconversione della condizione dei «senza riserve». Eppure, tuttavia, ciò nonostante l'umanità vi rimane irrimediabilmente attaccata. Attraverso il gioco degli interessi. Attraverso la violenza. Ma anche perché ha paura della penuria. Sarà inevitabilmente così fin sulla soglia della rottura insurrezionale, o fino al collasso. O, più probabilmente, fino a uno scenario in cui normalità e collasso si ibrideranno in un continuum che andrà da un mezzo continente inghiottito dalla guerra civile a un distretto commerciale diventato un bunker. L'emancipazione presuppone una rottura insurrezionale. Abbiamo dimostrato che il centro nevralgico del dominio del capitale consiste nella subordinazione del proletariato. Ed è solo secondariamente, come un corollario di questa subordinazione, che la ricchezza si presenta sotto forma di valore in movimento, e il lavoro come auto-mediazione delle relazioni umane. L'insurrezione apre una breccia dove può finalmente accadere la fine brutale, imprevedibile ed esplosiva della subordinazione. Con essa inizia l'istituzione immediata, fin dai primi momenti della sua esistenza, di nuove relazioni sociali, in cui gli individui cercano di riparare la mutilazione originaria della separazione generalizzata. Come? È questa la domanda. 
L'insurrezione non è ancora arrivata, e purtroppo non è certo che arriverà mai. Ecco perché i nemici del soggetto automatico e dello sfruttamento si angosciano all'idea di non vedere mai la fine del capitalismo. La vita è troppo breve per aspettare. Quindi spesso affermano che se non hanno visto la fine, avranno almeno visto l'inizio della fine. Dicono che «le insurrezioni sono arrivate». Alcune anguille malaticce sono arrivate sulla spiaggia, dove hanno rosicchiato la suola dello stivale di un vecchio soldato trascinato dalla corrente, e poi sono morte. Ma il grande serpente di mare che farà un boccone del realismo capitalista, lui non è mai arrivato. In effetti, nessuno lo ha mai visto.
Se dunque la Grandissima Insurrezione viene, sarà essa che affronterà con tutte le sue forze, con tutta l'intelligenza dell'immenso cervello sociale insorto, le questioni pratiche che le si porranno. I guai possono anche arrivare da un posto minuscolo ed effimero, ma possono comunque sconvolgere l'ordine mondiale. Tuttavia, quel momento non dura sempre. Un'insurrezione vittoriosa inventa nuove relazioni sociali e una nuova forma di riproduzione. Questa novità comporta il superamento del vincolo temporale dell'attività produttiva. Vedremo allora, in maniera evidente, che la «mancanza di tempo» è in realtà specifica dell'accumulazione di valore, che è diventata fine a se stessa.  Questo dovrà anche comportare, a meno di riavviare un ciclo di dominazione, il superamento della paura della penuria; senza dubbio la più antica e radicata delle paure. Non esiste assolutamente nulla che supporti l'idea secondo cui la rottura insurrezionale costituisca una grande porzione della nuvola di probabilità; per usare l'immagine utilizzata da Kurz. E che anche perfino all'interno di questa ipotetica porzione di nuvola, le probabilità più numerose invece non puntino in una direzione che vedrebbe il ristabilirsi di comunità chiuse e gerarchiche. In effetti, non c'è alcuna garanzia che la fine dell'uomo universalizzato dal lavoro, senza altre caratteristiche che la produttività e la norma, coincida con una socializzazione meno brutale. Il ritorno di rapporti di dipendenza personale può anche coincidere, ovviamente, con il ritorno di dipendenze contrarie alla libertà. Potrebbe essere, come giustamente osserva Jappe a proposito del capitalismo, che «quando la fine arriverà, non rimarrà altro che una terra bruciata dove i sopravvissuti si batteranno sui detriti della "civiltà" capitalista.»[*6] In effetti, l'osservazione del nostro tempo ci ispira piuttosto la paura. Le "crisi" economiche, climatiche, ambientali, politiche e migratorie si sommano, e creano ovunque una mentalità di assedio. La paura della penuria ha chiaramente un futuro luminoso davanti a sé. Coloro che hanno delle riserve si aggrappano a ciò che hanno, e in cambio ovviamente saranno a loro volta posseduti sia dalle cose che da quella legge impersonale che controlla le cose di questo mondo. Difenderanno a tutti i costi una simile alienazione la quale, per quanto odiosa, è comunque preferibile ai loro occhi alla paura dell'ignoto. La barbarie, o la normalità del capitale, comunque la si voglia chiamare. È questo ciò che ci aspetta.

Fine. Novembre 2021

NOTE:

[*1]-Robert Kurz, Avis aux naufragés, Paris, Lignes&Manifestes, 2005, p.134.

[*2]-Anselm Jappe, « Politique sans politique », Mai 2012, http://www.palim-psao.fr/article-34525771.html

[*3]-Robert Kurz, La Substance du capital, Paris, L'Échappée, 2019, p. 54.

[*4]-Bruno Astarian, L'Abolition de la valeur, Genève, Entremonde, 2017, p.116.

[*5] -  A questo proposito, bisogna ricordare che «il valore d'uso non è una categoria trans-storica. Al contrario, il valore d'uso non è che il doppio opposto ma complementare del valore in senso capitalista, e sarà quindi esso stesso specifico della modernità capitalista». Benoit Bohy-Bunel, "Denaturalizzare il valore d'uso", aprile 2021, qui da me tradotto come: https://francosenia.blogspot.com/2021/11/lastratto-e-il-concreto.html

[*6]-Anselm Jappe, Crédit à mort, Paris, Nouvelles Éditions Lignes, 2011, p. 46.  

fonte: Stoff

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