domenica 7 novembre 2021

«Teorici critici»... «troppo vecchi per capire»...

La scelta  di tradurre e pubblicare questo lungo articolo (ne costituirebbe solo una prima parte, della quale però ignoro se ci sarà mai un seguito), deriva dal fatto che la Critica del Valore (WK) – c’è da dire che il suo sviluppo, la scissione-valore, viene bellamente ignorata) - è stata in questo scritto, come dire, «presa sul serio», nel senso che, per confutarne le conclusioni, non si trova niente di meglio da fare che accettarne tutti i presupposti della sua «critica categoriale», vantandone anche i meriti di un simile approccio.
Ma i vecchi vizi sono ... duri a morire. Ragion per cui, dopo una lunga e condivisibile esposizione di tutti i punti che hanno fatto della WK un bagaglio critico da utilizzare come «cassetta degli attrezzi», ecco che per «criticare la critica» non si trova niente di meglio da fare che aggrapparsi alla «politica», ultima spes, come se questa fosse invece nientemeno che l'unica vera «ontologia storica» umana rimasta, che dev'essere salvata, e da mettere così al posto della «seconda natura» del capitalismo, di modo che questa «seconda natura» stessa possa così continuare ad alimentare sé stessa, tirandosi su per i lacci delle proprie scarpe.
Qui, a questo punto, secondo i «teorici comunisti» di Stoff, la «critica categoriale» dovrebbe perciò abdicare e sottomettersi - e per convincersi di questo, cosa può esserci di meglio se non fare riferimento ad alcune «delusioni più o meno personali», da parte dei teorici della WK?, i quali, ovviamente sono tutti «piccolo-borghesi», anche e soprattutto lo stesso Kurz il quale, per quanto «proletarizzato», mantiene sempre l'antico vizio e peccato di voler pensare che non esista alcuna «supremazia della prassi». Assenza di primato, che invece ci viene dimostrato proprio in questi giorni in cui vediamo le piazze occupate proprio dal cosiddetto  dominio della prassi da parte di chi, troppo vecchio per capire - come ammoniva tempo fa il critico Guccini - non intende arrendersi di fronte all'evidenza (novelli colonnelli Buttiglione!!) del collasso imminente, e fa di tutto pur di poter fars sì che si continui ad alimentare quel lavoro, che del capitalismo rimane comunque l'unica sostanza, destinata a estinguersi. Eppure, ciò nonostante, Bruno Astarian e Gilles Dauvé continuano a rimanermi ... simpatici. In fondo, anche loro sono dei «teorici critici»!! 

F.S.

Sostanza del capitale e lotta di classe (I parte)
- da Stoff - Ottobre 2021 -

Preambolo
Nel campo ristretto della critica radicale della società esistente, la critica del valore (Wertkritik [e qui di seguito WK]), occupa oggi un posto importante, sia in Germania, dove ha avuto origine, che in Francia e in Brasile. L'attrazione che è riuscita a esercitare, è la conseguenza di una certa congiuntura storica nella quale l'orizzonte della lotte di classe è sembrato svanire dalla mappa politica. Ma anziché considerare la teoria come se fosse un semplice rifugio per un'avanguardia disorientata, la Wertkritik si è distinta per il ruolo decisivo che le attribuisce, in quanto unico mezzo per illuminare le coscienze al fine di poter dare finalmente inizio a delle lotte rivoluzionarie. Ora che le lotte sembrano essere ritornate, ma però purtroppo solo nel senso di quella che è una «critica tronca» del capitale, si tratterebbe ora di orientarle nella giusta direzione, attraverso la diffusione di una buona teoria. Qui non si tratta di intraprendere una critica sistematica della Critica del Valore, risalendo dalla sua teoria fondamentale delle categorie dell'economia politica, alla sua concezione della rivoluzione, passando poi per la sua analisi delle crisi. Più modestamente, si vuole solo rendere conto di quale sia l'orientamento generale di questo progetto intellettuale, a partire dalla lettura critica di una delle sue opere canoniche: "La sostanza del capitale" di Robert Kurz, recentemente tradotto in francese. Assumendo qui che la teoria del valore e l'analisi delle crisi che ne consegue possano essere vere, l'obiettivo è quello di mettere in discussione le conseguenze politiche che se ne deducono. Un punto ci interessa in particolare: la questione dell'emancipazione. Chi ci libererà dal capitalismo, e come? Il primato che viene dato alla teoria, vista come guida del nuovo soggetto di lotta, è la conseguenza dell'abbandono dell'idea di una società di classe. Se siamo d'accordo con la Critica del Valore circa il declino dell'identità dell'operaio in quanto soggetto di una lotta per e attraverso il lavoro, ciò non significa la fine della lotta di classe. Una lotta che, purtroppo, non sempre corrisponde agli interessi di classe del teorico. 

La WK e la critica categoriale
Prima di entrare nel vivo della questione, ricordiamo il contesto storico-politico da cui è emerso questo nuovo approccio teorico: Robert Kurz (1943-2012) è stato il principale teorico e fondatore della corrente chiamata Critica del Valore, o Wertkritik in tedesco (WK). Questa corrente marxiana si è sviluppata in Germania a partire dalla metà degli anni '80, producendo in Germania riviste come Marxistische Kritik, Krisis (dal 1990) e più tardi Exit! (dal 2004), o più recentemente Jaggernaut, nel mondo francofono. Il primo gesto di questo sforzo di teorizzazione, consiste nel distaccarsi definitivamente dai vari socialismi allora esistenti e dalla loro ideologia fossilizzata chiamata «marxismo tradizionale» e, più in generale, da quell'«anticapitalismo tronco» che caratterizzerebbe tutte le correnti della sinistra e dell'estrema sinistra (e anche di una certa destra ed estrema destra). Agli occhi dei teorici critici del valore, tutte queste tendenze sono caratterizzate dall'assenza di una critica delle strutture, di una critica delle "categorie" fondamentali del capitalismo. Cosa significa questo? Tutte quelle categorie, che si potrebbero credere neutre ed eterne, come il lavoro, la merce o lo Stato, lungi dall'essere messe in discussione, vengono rivendicate positivamente o criticate sempre in maniera superficiale. La cosa essenziale, secondo il canone marxista tradizionale, era che la borghesia, proprietaria dei mezzi di produzione, venisse soppiantata dal proletariato, e che al mercato succedesse la pianificazione, come modo "razionale" di organizzazione della produzione delle merci; una rivoluzione senza l'abolizione delle categorie capitalistiche, sarebbe allora consistita in un semplice trasferimento della proprietà dei mezzi di produzione dalle mani del borghese ozioso e parassita alle mani callose del lavoratore. È questo ciò che la WK - così come anche Moishe Postone - considera una critica del solo modo di distribuzione della ricchezza capitalista. La trasformazione sociale così ipotizzata - sia sotto forma di capitalismo di Stato che di consigli operai - finirebbe per accontentarsi solo di aggiustamenti di superficie che non toccherebbero il nucleo del capitalismo. Consisterebbe in una semplice presa del potere e dei mezzi di produzione, per conto proprio, da parte della classe operaia, considerata come esterna al capitalismo; e non in una distruzione delle strutture fondamentali del capitalismo. Viene rimosso anche qualsiasi dubbio relativo al carattere di «seconda natura» assunto dalla dinamica dell'accumulazione capitalista. Il marxista tradizionale dovrebbe forse occuparsi di categorie? Ma che importa, visto che sono loro che si occupano di lui. Per poter evitare questa trappola, dobbiamo pertanto procedere a una critica di queste categorie fondamentali. Una critica categorica. La Critica del Valore vuole quindi essere una critica categorica di tutte quelle che sono state le tradizionali e superficiali critiche marxiste al capitalismo, e in generale di tutte le teorie anticapitaliste che l'hanno preceduta.
Quando Robert Kurz scrisse i suoi primi articoli per la rivista Marxistische Kritik nella seconda metà degli anni '80,  per alcuni degli (ex) studenti e lavoratori radicalizzati dal ciclo di lotte del '68, l'impasse rappresentata dall'ideologia marxista canonizzata era già evidente da tempo. In particolare, ciò si è potuto vedere nell'emergere di un nuovo movimento di protesta in quella che è stata generazione del dopoguerra; molti dei quali erano studenti, ma non mancavano anche uomini e donne della classe operaia (si parla di prima della deindustrializzazione). A lato degli infiniti discorsi sulla lotta per il potere o per la liberazione - in cui si riciclava il leninismo con il suo programma, il suo partito, la sua propaganda, il suo avanguardismo, ecc. - si sentiva parlare anche della lotta contro il lavoro, e persino della lotta contro la condizione proletaria. A modo nostro, e seguendo l'esempio di questo articolo, dobbiamo dire che la lotta contro il lavoro non è la stessa cosa della lotta contro la condizione proletaria. A modo nostro, e seguendo rispetto a questo la Teoria Comunista, avremmo detto che allora stavamo entrando in un nuovo ciclo, dove l'obsolescenza delle forme e dei contenuti del ciclo precedente divenne gradualmente evidente; in particolare l'affermazione della classe operaia e della sua identità nella forma della celebrazione del lavoro, del suo ruolo storico come Soggetto, mediato dai suoi vari organi di lotta e di rappresentanza, che erano tutti entrati in una crisi da cui non si sono più ripresi. A partire da questi stessi cambiamenti, sulle rovine del programma proletario,  scaturì la necessità di una nuova elaborazione teorica.

La fine della lotta di classe?
La teorizzazione critica categoriale iniziò il suo cammino, ma ben presto si ritrovò sola, senza alcuna corrispondenza nelle lotte; cosa che non contribuì certo a moderare la sua inclinazione all'astrazione. Anche perché il nuovo slancio di protesta si era spento. Nel 1979, gli inglesi portarono al potere la Thatcher. Nel 1981, Reagan divenne presidente degli Stati Uniti. La controrivoluzione era iniziata. Ristrutturazione del processo lavorativo, globalizzazione della produzione, aumento della disoccupazione di massa, precarizzazione. Smobilitazione dei lavoratori. La disfatta sociale, economica, culturale e simbolica del movimento operaio organizzato. Si trattava del passaggio da «una società di integrazione di massa a un ordine sociale neoliberale di selezione e apartheid» [*1]. Un colpo talmente duro che gli intellettuali critici cui venne concesso di apparire nei mass media per 20 o 30 anni non avrebbero parlato altro che di «economia di mercato», anziché di «capitalismo». Il riflusso dopo il '68 dell'utopia e il «ritorno alla realtà» segnarono così l'ingresso nel letargo dell'idea rivoluzionaria. Il capitalismo diventava l'altro nome della realtà, la totalità della realtà. La sola e unica realtà. La seconda natura della nostra esistenza. E addirittura un'«ontologia storica», per usare i termini di Kurz [*2];  cui preferiamo il termine «realismo capitalista».
Il costituirsi nella società di una vasta classe media, era un'idea degli anni '60 diventata poi una certezza nel corso degli anni '80. Impossibile sfuggire al discorso sulle «classi medie», o sulla classe media in generale, secondo cui la classe media siete voi, siamo noi, siamo tutti; tranne il barbone che muore di freddo (gli esclusi) e il golden boy che fa il bagno nello champagne (l'1%). L'apparente trionfo della «classe media» costituisce così il rovescio della medaglia della liquidazione di un attore collettivo che fino ad allora era stato insopprimibile: il blocco sociale dei lavoratori, la classe proletaria come soggetto politico di riferimento, la cui vocazione storica era, secondo il dogma tradizionale, quello di soppiantare la borghesia. Si trattava di una sconfitta del proletariato che assumeva, prima, la forma della sua integrazione (del tutto relativa: i poveri ora posseggono una vasca da bagno, ma non hanno i mezzi per poterla riempire di champagne di qualità) nella cittadinanza del mercato, e, subito dopo, quella della sua pauperizzazione [*3]. Secondo Kurz, nel vincere la sua lotta per il riconoscimento, il movimento operaio si è trasformato in un soggetto borghese rinchiuso nella gabbia di ferro della socializzazione capitalista. Certamente, è rimasta una lotta tra lavoro e capitale: «un conflitto insanabile, finché esiste un modo di produzione capitalista»; ma ciò non significa, secondo Trenkle, «che esso debba continuare ad esprimersi costantemente come opposizione di classe.» [*4] Un salariato può benissimo continuare a brontolare a causa del fatto che non egli è l'unico a far parte di una classe a sé stante. Pertanto, un salariato può brontolare quando gli viene negato un aumento, e un manager può brontolare a sua volta quando i suoi subordinati cominciano a brontolare troppo forte, ma tutti questi brontolii non fanno sì che le classi divengano le agenti dell'emancipazione.
La lotta di classe ha finito per deludere le grandi speranze che alcuni - ivi compresa l'ultrasinistra - nutrivano in essa. Agli occhi di Kurz, sembrava corrispondere proprio a quella «ontologia storica», in seno alla quale si sarebbe poi trovata a partecipare alla modernizzazione di recupero dei capitalismi che si trovavano in ritardo sul piano industriale. «L'immanenza sistemica della lotta di classe condotta dal movimento operaio, consisteva per l'appunto nel fatto che essa era una "lotta per il riconoscimento" (...) sul terreno indiscusso del lavoro astratto.» [*5]. Lottate per un salario migliore? Volete più vacanze pagate? Delle pensioni decenti? Allora, non siete altro che ingranaggi di un automa (soggetto), siete le pedine del capitale nella sua forma-valore.
Abbiamo forse mai saputo fare qualcos'altro? Kurz evoca, esaminandole, tre sequenze storiche nel corso delle quali il macchinario avrebbe potuto essere mandato dallo sfasciacarrozze. In alcune pagine, brevi ma affascinanti, parla come di una «nuvola di probabilità» che si trova sempre ad aleggiare al di sopra delle nostra teste. In alcuni momenti della nostra storia, questa nuvola ha implicato anche la possibilità di un'uscita dal capitalismo: durante le guerre contadini tedeschi del XV e XVI secolo; nel corso dei movimenti sociali e delle rivolte avvenute a cavallo tra XVIII e XIX secolo; e, infine, il moderno movimento operaio che, «per quanto sia innegabile che avesse già ampiamente interiorizzato nella sua pratica il modello disciplinare del lavoro astratto, allo stesso tempo recava in sé -  in particolare, in virtù della sua ricezione della teoria marxiana (...) - anche la possibilità di una rottura cosciente.» [*6] Nella misura in cui era stato fecondato dalla teoria marxiana, il movimento operaio avrebbe pertanto potuto operare una rottura. Tutto questo appartiene ormai al passato. Secondo Kurz, il macchinario è oramai pienamente sviluppato, il suo schema di azione (la sua meccanica) è diventato implacabile. Potrebbe arrivare a spingere l'umanità verso la sua propria obsolescenza. Il proletariato, insieme alle sue lotte moderniste, finirebbe sul lastrico, mentre il capitalista continua a sguazzare nello champagne. La battaglia è stata combattuta, ed è stata persa. Al posto di questa lotta di classe, i teorici della Critica del Valore, di conseguenza, vorrebbero preferire una lotta emancipatrice senza classi, la quale germoglierebbe sul terreno di un «valore che sta morendo a causa delle proprie contraddizioni interne». [*7]. Ora, teorizzare una lotta emancipatrice senza classi implica, come vedremo, che la classe media - o quanto meno la sua frazione più illuminata,  quella più categorialmente critica - potrebbe emanciparsi anche senza l'aiuto del proletariato. O anche - chi lo sa? - contro quest'ultimo, qualora dovesse cedere alle sirene della cosiddetta critica tronca.
In tal modo, la teoria critica del valore non dovrebbe attaccare la borghesia, ma il "soggetto automatico", dovrebbe attaccare direttamente il valore, il quale «è diventato il proprio stesso fine in sé» [*8]. La crescita tautologica (vale a dire, quella che è essa stessa il proprio fine) della massa di valore governa e domina ogni essere e tutte le cose di questo mondo. Secondo la WK, qualsiasi attribuzione, o assegnamento di una qualsiasi figura umana alla quale imputare le cause e gli effetti di tale servitù non ha senso. Sì, certo, ci sono dei profittatori e ci sono dei perdenti, esistono coloro che sono redditizi ed esistono i non redditizi, ma tutti loro sono semplicemente nient'altro che gli addetti a un meccanismo sociale che si trova al di là di essi stessi. L'ingiustizia, lo sfruttamento e il dominio esistevano prima del capitalismo. La specificità del capitalismo consiste nel suo programma di attuazione: un movimento di accumulazione del valore che assume sé stesso come fine, e che minaccia il collasso, e insieme a esso agita lo spettro della barbarie. Ed è questo processo senza soggetto - nel senso che non è il prodotto di una classe, o di un gruppo di agenti, quanto piuttosto di una struttura impersonale - che ora alla fine comporta la produzione su larga scala di quelli che sarebbero in soprannumero; dei superflui.

Barbarie o civiltà?
Nella seconda parte del suo libro "La sostanza del capitale", Robert Kurz spiega come sia perfettamente possibile che un tuffo nella «barbarie» avvenga senza che questo provochi un contro-movimento verso l'emancipazione. Al contrario, gli esseri umani potrebbero in linea di principio emanciparsi senza dover aspettare il crollo del capitalismo. Ma se una cosa, secondo lui, è certa è che il capitalismo sta correndo verso l'abisso. Perché? Qui dobbiamo fare una rapida deviazione verso quella teoria della crisi su cui la Critica del Valore a sua volta si basa . Obbedendo alla sua stessa dinamica di automatizzazione dei processi lavorativi, il capitale espellerebbe sempre più «lavoro vivo», cioè lavoratori e lavoratrici, di quanto poi ne reintegrerebbe ulteriormente. Dal momento che questo lavoro vivo è la fonte del valore, e quindi del profitto, ecco che la diminuzione della sua quantità in proporzione al capitale investito nelle macchine, porterebbe inevitabilmente a una diminuzione del tasso di profitto. Ecco quindi che il capitale segherebbe il ramo su cui sta seduto, spingendo in tal modo sempre più lavoratori nell'abisso del superfluo. Per la Critica del Valore, ci troviamo pertanto in presenza di «un processo di desustanzializzazione, di scomparsa progressiva della sostanza del lavoro, e quindi di svalorizzazione del valore».[*9].
Il limite interno alla valorizzazione, rappresenterebbe quindi un limite insuperabile del capitalismo, e costituirebbe perciò la crisi come inerente al capitale, strutturale ed endogena al suo stesso processo di valorizzazione. Questa crisi non è dunque esterna e di origine politica o sociale, come credono il marxismo tradizionale (che incolpa la borghesia), la sinistra (che incolpa la rapacità delle multinazionali, i mercati, l'egoismo dell'1%) o una certa destra (che punta il dito contro gli immigrati profittatori, gli ebrei speculatori, i giovani che non vogliono lavorare). Questa crisi inevitabile, che è già iniziata, porterebbe a ciò che Kurz chiama «barbarie»: guerre civili più o meno latenti, Stati falliti dove non funziona più nulla, e il tutto in un contesto di disastro ambientale e climatico. Si tratta di un imbestialimento estremo della società, un mondo come quello di Mad Max o di The Walking Dead. Tuttavia, possiamo considerare, insieme a Michael Heinrich, che fenomeni di questo tipo appartengono al funzionamento abituale del capitalismo - una normalità barbara, insomma, una sorta di «civiltà della barbarie» (Aimé Césaire), la quale evoca non tanto un crollo, quanto piuttosto un tumore canceroso: «anche se il 90% del tumore viene distrutto, nulla impedisce lo sviluppo del rimanente 10%». Alla fine, anzi, questo avviene ancora più rapidamente». [*10] In ogni caso, secondo Kurz, a prescindere dal crollo, causato dal limite interno alla valorizzazione del capitale, rimarrebbe comunque la possibilità dell'emancipazione.

La possibilità dell'emancipazione
Per avvicinarsi alla prospettiva dell'emancipazione, è importante che venga posta in correttamente la questione della «mediazione soggettiva» dell'«oggettività sociale» - per dirla in maniera ricercata, bisogna che ci si illumini alla luce dell'emancipazione. L'oggettività sociale è costituita dalla società del capitale e dalle sue leggi, ed è diventata per noi come una «seconda natura». Cioè, come se fossero delle leggi naturali prestabilite, che funzionano indipendentemente dagli esseri umani. Una tale oggettività sociale si manifesta ovunque in tutte le opinioni più comuni, nella soggettività degli individui che abitano questa società così naturalizzata. Chiedete in giro,  e sentirete dire che l'unica cosa che la maggior parte della gente crede di sapere sul capitalismo è che esso esiste fin dall'inizio dei tempi. Secondo loro, l'uomo ha sempre cercato di trarre profitto sulle spalle dei propri simili, come vuole la sua natura, e per realizzare un simile profitto deve scambiare prodotti o servizi. L'uomo sarebbe dunque essenzialmente uno scambista approfittatore che vede nel suo simile un pollo da spennare. Il capitalismo non significherebbe altro che questa sorta di spoliazione universale dove - se seguiamo il senso comune - l'umanità si divide tra spogliatori e spogliati. La divisione in classi, o in gruppi gerarchici nelle società umane, obbedirebbe quindi anche a un fatto di natura che, come tale, non potrebbe mai essere sostanzialmente modificato. Per i perdenti della competizione, c'è solo il mondo ideale, il paradiso delle religioni, il comunismo celeste, per potersi consolare della durezza del mondo reale capitalista. Per fortuna, la sacra unione del progresso umano, dello stato di diritto, della democrazia e del movimento dei lavoratori permette di imporre dei limiti a questa pratica universale e immortale di scambio lucrativo! Comunque, nondimeno, i limiti dell'emancipazione sono un mondo a parte. Veniamo quindi all'emancipazione. Nel contesto dell'emancipazione, la «seconda natura» si incrina sotto i colpi delle lotte: esiste un nuovo sistema di pratiche e di rappresentazioni che si incarna nei soggetti e la sostituisce. Diremo che questi individui, che abbiano o no un programma rivoluzionario, danno corpo a una mediazione soggettiva (sotto forma di una classe in lotta, o di una minoranza teorica chiaroveggente, o di una cricca di astronomi-astrologi comunisti in contatto con universi lontani laddove risiede un'entità capace di emanciparci, ecc.; si tratta del genere di cosa che funziona come le corse dei cavalli, dove ognuno può scommettere sul Soggetto di sua scelta) che ci condurrà così dalla preistoria alla storia, per dirla in linguaggio progressista [*11].

L'illusione politica
Per il marxismo tradizionale, la mediazione soggettiva era e sarà sempre incarnata nel movimento operaio: in base a questo, non c'è dubbio che emancipandosi a partire da ciò che è, di ciò che questo modo di produzione ha fatto di esso, il proletariato realizza l'emancipazione universale. Ma agli occhi di Kurz, se il proletariato si definisce come un soggetto sociologico (non legge Libération) e come un soggetto politico (è membro di un partito o di un consiglio di fabbrica), ecco che allora questo non lo rende un soggetto emancipatore, poiché rimane prigioniero del rapporto lavoro/capitale. Non esplode, non mette in scacco, non spinge verso un epilogo che dovrebbe essere l'abolizione di uno dei due termini (se non di entrambi). No. Invece, piuttosto vorrebbe accompagnarlo nel suo sviluppo contraddittorio. Lungi dal realizzare il suo superamento, vorrebbe essere il semplice esecutore della sua logica impersonale. Così, anziché rompere il meccanismo della propria sottomissione, i lavoratori integrati nella società capitalista e sottomessi alle sue norme dominanti (per esempio, il movimento operaio, che trae la sua dignità e la convinzione della sua importanza storica a partire dal fatto di essere la classe del lavoro che è all'origine della ricchezza), fanno girare quella ruota che porta al collasso. Kurz ha assolutamente ragione su questo punto: affermare la possibilità di un superamento del capitalismo sulla base stessa delle categorie del capitalismo - lavoro, denaro, salario - e delle soggettività da esse plasmate - significa rimanere prigionieri proprio di quei modelli di azione che si sono stabiliti nel corso della nostra storia, e che conformano il nostro rapporto teorico e pratico con il mondo. Ecco perché, secondo Kurz, coloro che ignorano la critica categoriale soccombono inevitabilmente all'illusione politica. 

La Torta
Quello che Kurz chiama «politica», comprende tutto l'insieme delle lotte di potere assoggettate al realismo capitalista. Si tratta di una sfera che «presuppone in maniera positiva la valorizzazione del valore; la considera immanente al valore in quanto forma sociale» [*12]. Fondamentalmente, essa consiste nella distribuzione della ricchezza prodotta. O, più esattamente, è la redistribuzione delle quote rimanenti, dopo che l'essenziale è già stato distribuito a livello del processo lavorativo. Se immaginiamo la gigantesca accumulazione di beni e denaro come e fosse una Torta, vediamo che allora questa politica consiste innanzitutto nel condividere la torta. Tale condivisione sarebbe il tema principale posto dalle lotte per la conquista del potere da parte della sinistra e del marxismo tradizionale. Non importa se attraverso le elezioni o prendendo d'assalto il Palazzo d'Inverno: ci si vuole impadronire del ruolo più bello, che è quello di tagliare la Torta e determinare pertanto quali sono le condizioni della sua distribuzione (sia a livello di imprese che di Stato). Secondo questa visione pasticciera della ricchezza, il capitalista è un burattinaio, ed è lui che guida la mano dell'alto funzionario che poi procede al taglio. Sotto la maschera mistificante di un funzionario statale al di sopra della mischia, di uno Stato difensore dell'«interesse generale», un funzionario eletto darà molto a coloro che hanno molto, e quello che è appena  sufficiente a permettere la riproduzione della loro forza lavoro a coloro che hanno solo la loro forza lavoro. E naturalmente questo funzionario statale che è nelle mani del capitale si adopererà, grazie ai mezzi di repressione di cui dispone, a far sì che regni la pace sociale, affinché questa distribuzione ineguale continui all'infinito. Ma ben presto la conquista del Palazzo e lo schiacciamento dei parassiti che lo occupano, permetteranno ai lavoratori (nella persona dei loro rappresentanti probi e disinteressati, o da soli, se si riuniscono in consigli autogestiti) di procedere essi stessi a un'equa divisione. Tutto ciò evoca una liberazione del lavoro da parte dei lavoratori, una sorta di vittoria dei lavoratori, vista come base per la giustizia distributiva, per un'economia giusta, e naturalmente per una vera democrazia. In una seconda fase, poi, grazie alla pianificazione dei bisogni e della produzione, la coscienza rivoluzionaria, che alberga nello Stato proletario, sconfiggerebbe la cieca legge del valore.
Kurz demolisce una simile concezione pasticciera del comunismo. Non c'è alcun lavoro da liberare dalla dominazione borghese, spiega, ma è piuttosto del lavoro stesso che bisogna liberarsi. E allo stesso modo, non c'è spazio, o non c'è più spazio, per una «politica emancipatrice», nel senso di una «politica» definita come sopra. Ma al di là della constatazione di questa impossibilità di un nuovo comunismo operaio, ancora sottomesso, a sua insaputa, al realismo capitalista, la Critica del Valore difende una concezione del tutto nuova della lotta che dovrebbe condurci all'abolizione di questo valore-lavoro. Secondo Kurz, l'antagonismo lavoro/capitale non comporta più il suo stesso superamento; è qui che interviene un nuovo sapere teorico astratto, che si trova al di là della coscienza immediata di chi lotta, e che serve a permettere il superamento rivoluzionario. Si tratterebbe d'ora in poi di un superamento educato, persino colto. Il figlio di pochi cervelli, piuttosto che quello di molte pance. Non contento di criticare la forma e la sostanza del lavoro astratto - storicizzandolo, cioè rendendolo un semplice fatto storicamente situato, e quindi superabile - il critico categorico storicizza anche il soggetto di questo lavoro. Prende di mira il capitalismo, che sta crollando a causa del suo limite interno, così come lo fa con il cosiddetto soggetto (il proletariato, che non ci porterà mai oltre l'economia). Ed è per questo che Kurz può scrivere, ad esempio, che la classe operaia alla fine non ha mai smesso di indossare la maschera di carattere del capitale variabile.

L'illusione per cui la politica sarebbe solo un'illusione
Qui dobbiamo dissentire su un punto importante. Se è vero che le categorie del capitalismo non possono essere utilizzate per costruire un oltre rispetto al capitalismo, non è detto però che l'oltre del capitalismo presupponga necessariamente una critica categoriale. Secondo noi (ma non secondo Kurz, ovviamente) la politica, al di là della sua dimensione elettorale e istituzionale, non si riduce necessariamente a un'illusione. Certo, può essere questa illusione, anzi è molto spesso questa illusione, e diremmo addirittura che in modo disperato è quasi sempre tale illusione, ma - dacché esiste un ma - essa può essere qualcos'altro, o più di questa illusione. Infatti, pur partendo da una base categoriale che non viene criticata, la politica,  potrebbe tornarci sopra con la propria intelligenza, vale a dire con l'intelligenza di un cervello sociale collettivo insorto, piuttosto che con l'intelligenza di pochi cervelli ben modellati dalle letture di Marx e Postone. In sostanza, gli impiegati che si lamentano perché è stato loro rifiutato un aumento di stipendio possono anche decidere di lasciare il loro posto di lavoro. E nel processo, incontrare qualche manager che brontola contro i brontoloni. E distruggere il proprio posto di lavoro, ritenendolo fondamentalmente malsano, dal momento che il loro lavoro è nocivo per la società, e troveranno un modo per vivere diversamente. E alla fine inventare un modo per sfuggire alla costrizione del lavoro. In nessun caso, questi impiegati brontoloni scriverebbero su un cartello «aboliamo il soggetto automatico». Essi sono completamente dei soggetti politici, saturi di politica, e tutto quello che dicono, fanno, organizzano, è politico. Il loro movimento è politico, la loro soggettività rimane imprigionata nelle categorie del sistema, come quegli uccelli che restano bloccati a causa petrolio delle maree nere, eppure anche in simili condizioni così disastrose il movimento può trovarsi su un piano di conflitto dove l'illusione non regge più. Si credeva che la bestia del lavoro fosse ormai definitivamente bloccata nella sua ristretta bolla piena di a priori, intrappolata nel realismo capitalista, e invece no, vedete, essa sta già lanciandosi all'assalto del cielo; lo slancio che la anima è ancora quello della politica.
In realtà, la politica è assai più del modo in cui Kurz ha voluto descriverla. Se l'ha sottostimata, ciò è stato forse perché ha vissuto un periodo di fallimento politico che dopo Reagan e Thatcher ha prodotto Merkel e Blair. Ma la politica può anche indicare il luogo dove si decide la fine dell'impero dell'economia sulle nostre vite. Sia sotto forma di una distruzione cosciente dell'economia (lo scenario ideale), sia attraverso l'istituzione di un principio di dominio superiore all'imperativo della valorizzazione. Ed è per questo che la lotta di classe non deve mai essere ridotta, contrariamente a quanto pensa Kurz, a un momento di modernizzazione del capitale.

Rieccola, la classe media!
Chiudiamo la parentesi politica e torniamo alla critica di ciò che la WK descrive come «la lotta degli interessi categoriali inscritti nella logica del sistema» [*13]. La WK si concentra su quella che è la contraddizione interna della dinamica del valore, e questa analisi la porta a un'osservazione tanto brutale e repentina quanto ovvia: la marea della cattiva soggettivazione sale, sale sempre più, mentre si restringe il cerchio virtuoso. L'abisso in cui vagano le menti che soccombono alle «ipostasi delle identità culturali e religiose (anche in una sinistra postmoderna in decadenza)» [*14] si sta ripopolando. In simili condizioni, si può desiderare che l'emancipazione non dipenda più dal proletariato e dalla sua dubbia soggettivazione, ma dalla coscienza di un limite interno, a partire dal quale potrebbero dispiegarsi delle «lotte teoriche» che si situino al di là della contrapposizione prefissata tra «teoria» e «prassi» [*15]. Ammesso questo, una tale coscienza deve necessariamente incarnarsi in un gruppo. D'altra parte, abbiamo visto come la candidatura del movimento proletario organizzato, al ruolo di agente centrale dell'emancipazione, non può più, agli occhi della WK, essere giudicata in maniera favorevole. Ne consegue che bisogna trovare un altro candidato. Ma stavolta, la capacità di emancipazione di questi deve essere costruita, la momento che non viene più fornita insieme all'esperienza immediata dello sfruttamento. Non può più basarsi su qualcosa che è già stato affermato, e valorizzato, («positivizzato»), in quanto tale, nella relazione egemonica. Dovrà pertanto essere istruito dalla discussione e dalle letture: dall'assimilazione della critica del valore. Si tratta quindi di un superamento che non deve più passare attraverso la fabbrica, ma attraverso la scuola, per quanto sia una scuola assente.
Ma quando si tratta di scuola, non tutti sono sulla stessa barca. Esiste un'affinità strutturale tra la scuola e la piccola borghesia intellettuale - vale  dire, la frazione istruita e laureata della classe media, per quanto declassata (compreso l'ex studente Robert Kurz, sebbene venisse da un ambiente proletario, e che lo è diventato di nuovo). L'educazione statale garantisce a quest'ultima il monopolio della conoscenza legittima, e garantisce la sua posizione dominante all'interno della divisione gerarchica tra lavoro intellettuale e manuale. Naturalmente, come abbiamo visto, non si tratta più per la Critica del Valore di pensare l'emancipazione in termini di classi: il superamento dell'antagonismo lavoro/capitale risulterà dalle «lotte teoriche», e non dalla lotta di classe. Ma, di fatto, le «lotte teoriche» nascono e si sviluppano tanto in nessun luogo quanto all'interno della piccola borghesia intellettuale. Questa piccola borghesia si è perciò eletta come campione della nuova lotta post-classista, ma la saggezza non ci dice forse che si è buoni solo quanto lo sono i nostri propri sforzi? Si entra nella lotta perché l'utilità dei propri servizi non viene garantita a tempo indeterminato, soprattutto perché non si gioca un ruolo fondamentale. A determinare la classe media, è il fatto di essere una via di mezzo, caratterizzata dalla combinazione di attività, una via di mezzo che non corrisponde a nessuno dei due poli della contraddizione proletariato/capitale. Indipendentemente dalla funzione «produttiva» o «improduttiva» del suo lavoro, dal punto di vista della produzione diretta del plusvalore, una parte delle attività che essa svolge sono compiti delegati dai possessori (direzione/supervisione/organizzazione), e queste attività le conferiscono sufficiente autorità e remunerazione per rendere opaca, ai propri occhi, la realtà della sua subordinazione al capitale e/o al suo Stato. La piccola borghesia intellettuale, che qui identifichiamo come il protagonista designato delle «lotte teoriche», fa dunque parte di quegli strati della classe media che ricevono un surplus di salario in cambio delle loro attività di inquadramento (che include l'inquadramento ideologico), e che quindi hanno un interesse economico a perpetuare lo sfruttamento [*16]; fino a quando i padroni dello sfruttamento avranno interesse a perpetuare l'esistenza della classe media.  Abbiamo visto l'emergere delle casse automatiche dei supermercati e dei droni per le consegne a domicilio, e la tecnologia è già arrivata al punto di sostituire tutti i compiti che richiedono meno abilità. Questa tendenza non si fermerà qui, poiché la robotizzazione e l'intelligenza artificiale copriranno gradualmente altre parti della forza lavoro con un velo di superfluità. Le macchine di domani faranno giornalismo, insegnamento, poesia, film, gestione, consulenza legale, software. Faranno il lavoro dei dirigenti stressati. Forse un giorno riusciranno perfino anche a offrirci una critica convincente della critica tronca del macchinismo, o addirittura del capitalismo stesso.
Come dubitarne? I proprietari di questo mondo intendono fare a meno di questa piccola borghesia intellettuale. Considerano che il suo tempo sia finito. Ovviamente essa non è d'accordo. Di fronte all'oggettività del declino, i suoi elementi più avanzati comprendono che non possono resistere a lungo. Che non c'è salvezza nell'economia. Che devono quindi uscire dall'economia, visto che l'economia sembra così determinata a metterli fuori dal suo mondo. Ed ecco che allora la piccola borghesia intellettuale nel processo di declassificazione lotta, e lotta come sa fare, cioè prima con la testa, opponendo concetti ad altri concetti. Prigioniero delle proprie origini, combatte contro quelle stesse categorie che hanno assicurato dapprima la sua promozione sociale, e oggi la sua relativa proletarizzazione. Ma non lotta da solo, naturalmente, si trova ed essere quasi sempre affiancato da altri strati della classe media e del proletariato. Combatte contro un megaprogetto di aeroporto o di treno ad alta velocità, o contro l'impianto di un'industria inquinante, contro l'ultima riforma dello statuto dei dipendenti pubblici, contro la privatizzazione di un canale di informazione pubblica, contro la guerra in Iraq, contro i pesticidi, contro le politiche monetarie. In effetti, è diventato il nemico intimo dell'economia. La sua frangia più radicalizzata, talvolta proletarizzata (come i fondatori della WK in Germania), sogna di abolirlo e sviluppa pazientemente dei concetti per pensare questa abolizione.
Così, nonostante il suo declassamento, essa, che finora non ha fatto nulla di grande, compirebbe allora un compito storico, derivante dalla propria conoscenza della critica categoriale, cioè dalla sua critica radicale delle categorie capitaliste. Kurz ci ha avvertito: «Ogni lotta e ogni azione rimane nella morsa della falsa oggettività, finché non viene attraversata dalla critica delle forme e della sostanza del lavoro astratto.» [*17]. D'ora in poi, i nuovi movimenti emancipatori non possono che definirsi a partire da ciò che vogliono impedire, cioè «la distruzione della riproduzione sociale da parte della falsa oggettività degli imperativi dettati dalle forme capitaliste». Kurz aggiunge che «la loro comunità può essere solo la comunità degli obiettivi emancipatori, non la comunità di una mercificazione dettata dalla stessa relazione del capitale.»[*18] La comunità, pertanto, di coloro che sanno affermare questi obiettivi emancipatori nel quadro teorico della Critica del Valore.

Solitudine della teoria
Su questo punto, non condividiamo l'opinione di Kurz. Ma è anche vero che fino a quando un'insurrezione gigantesca, di intensità eccezionale, non imporrà nella coscienza degli sfruttati la contingenza storica della loro condizione, non potremo fare altro che teorizzare un'assenza: l'assenza dell'unica critica materialmente efficace, e questa critica sono le lotte che rompono con il recupero dei loro presupposti (il lavoro, il potere d'acquisto, lo Stato, ecc.). Infatti, contrariamente a quanto scrive Kurz, la teoria non è mai l'oggetto di una ricezione. Tra la pratica e la teoria si erge la barriera della specie, e il teorico (noi compresi) è troppo soddisfatto della propria importanza per pensare di poterla superare. L'attività concreta di rottura, è questa l'unica scuola degli insorti. Mentre la teoria esterna non esprime altro che l'esteriorità dei teorici rispetto alla lotta. In tempi di ritirata e di sconfitta, ci sono solo teorie esterne alle lotte, e quando arrivano le lotte decisive, nessuno sa cosa farsene delle teorie di oggi. Per dirla in breve, nessuna idea può portarci al di là della pasticceria esistente, ma solo al di là delle attuali idee sulla pasticceria. E allora, perché esiste la teoria, e perché ostinarsi a farla? «Perché per quanto sia irrisorio, esistono individui che non possono fare a meno di pensare alle condizioni del superamento del modo di produzione capitalista.»[*19] Questi isolati e pochi individui non sono gli unici ad avere la capacità di pensare. Questi isolati e pochi individui non hanno alcuna importanza dal punto di vista di una lotta che porti all'uscita dal realismo capitalista. La loro vocazione non può essere, in ogni caso, quella di costituirsi come nucleo dirigente della rivoluzione mondiale. Bisogna prenderne le parti. Altrimenti, bisogna fondare un partito.

Fine della prima parte

NOTE:

[*1] - Collectif Jaggernaut, « Editorial. Crises, champagne et bain de sang », Jaggernaut, n°2, 2020, p. 7.
[*2] - Robert Kurz, «La rupture ontologique», Jaggernaut, n°2, 2020, p. 197.
[*3] - Si veda «Populisme. Une trajectoire politique de l’humanité superflue », Stoff, n°1, p. 10-39.
[*4] - Norbert Trenkle, « Lutte sans classes », Jaggernaut, n°1, 2019, p. 36.
[*5] -  Robert Kurz, «La Substance du capital», Paris, L'Échappée, 2019, p. 184.
[*6] - Robert Kurz,  op. cit., p. 232.
[*7] - Gilles Dauvé, « La Boulangère et le théoricien (sur la théorie de la forme-valeur)», mai 2014, https://ddt21.noblogs.org/?page_id=81
[*8] - Christian Höner, «Qu’est-ce que la valeur ? De l’essence du capitalisme», janvier 2014, http://www.palim-psao.fr/article-35929096.html
[*9] - Robert Kurz, op. cit., p. 183.
[*10] -  Michael Heinrich, «Effondrement du capitalisme ? Krisis et la crise», Octobre 2021, https://www.stoff.fr/materiau/chute-du-capitalisme-Krisis-et-la-crise
[*11] - Infatti, la distruzione di ciò che Kurz chiama «ontologia storica» capitalista, comporta necessariamente anche la scomparsa del vecchio schema progressista profondamente radicato nelle nostre teste. Secondo tale schema, saremmo - in quanto punto di arrivo di uno svolgimento storico virtuoso (anche se non senza alcune sequenze regressive) - necessariamente in una posizione migliore rispetto al nostro punto di partenza. Ma può essere anche che il capitalismo ci appaia, in retrospettiva, non tanto come un passato inferiore, ma come un altrove orribile o quanto meno incomprensibile.
[*12] - Robert Kurz, op. cit., p. 220.
[*13] - Krisis, Manifeste contre le travail, Paris, 10/18, 2004, p. 83.
[*14] - Collectif Jaggernaut, « Editorial. Crises, champagne et bain de sang », Jaggernaut, n°2, 2020.
[*15] - Anselm Jappe, « Politique sans politique », Mai 2012, tradotto in : https://francosenia.blogspot.com/2014/05/politicamente.html
[*16] - Prendiamo qui in prestito, per l'analisi della classe media, dalla rivista "Temps libre", n°2, 2021, così come da Bruno Astarian, "L'Abolition de la valeur", Ginevra, Entremonde, 2017. Aggiungiamo che man mano che si sale nella gerarchia sociale, l'attività di esecuzione si mescola con l'autonomia, con il controllo e la decisione. Al vertice c'è il potere: la fantasia, il capriccio, il marchio che l'individuo può mettere sulla propria attività. Questo è il lusso di pochi in un mondo standardizzato. Più si sfugge alla meschina contabilità poliziesca, alla standardizzazione routinizzante, alla disciplina ottundente, più il lavoro recupera qualche pezzetto di particolarità, e lo conferisce al lavoratore, il quale si ritrova nobilitato. Il lavoro può allora adornarsi di tutte le virtù di cui è stato spogliato altrove: ai livelli più alti della piramide sociale, ridiventa umanizzante. È lì, dunque, che conserva le sue truppe più fedeli, i suoi campioni del merito, i suoi leader di larghe vedute, i suoi grandi e piccoli borghesi umanisti che si batteranno sempre per prolungare il regno dell'economia al solo scopo di passare per essere gli spiriti più critici.
[*17] - Robert Kurz, op. cit., p. 213.
[*18] - Robert Kurz, Avis aux naufragés, Paris, Lignes & Manifestes, 2005, p. 137.
[*19] - Bruno Astarian, « Solitude de la théorie communiste », Août 2016, https://www.hicsalta-communisation.com/textes/solitude-de-la-theorie-communiste

fonte: Stoff

1 commento:

BlackBlog francosenia ha detto...

Proprio in questo momento, arrivato a metà traduzione della seconda parte di questo documento, mi sono reso conto di quanto stessero diventando ridicoli gli argomenti proposti a sostegno del fatto che «la lotta di classe deve continuare», a partire deal fatto che per mille che cessano in quanto inutili, ce ne sarà - dicono loro - almeno una che diventerà critica categoriale (!) Ho già detto che Astarian mi sta simpatico, ma perdere tempo e spazio per proporre simili baggianate (almeno così le giudico nella loro seconda parte) mi sembra un sacrilegio. Ad ogni modo chi vuole se lo può leggere in francese: https://www.stoff.fr/au-fil/substance-capital-lutte-classes2