lunedì 26 luglio 2021

Tecnicamente

La nuova normalità è un susseguirsi di fatti imprevedibili. Nei primi vent'anni di questo millennio il mondo ha già vissuto tre grandi crisi: quella terroristica del 2001; quella finanziaria del 2008; quella della pandemia da Covid-19 nel 2020. Dobbiamo e possiamo imparare a conviverci. Iniziamo da subito. Siamo entrati in un'era di turbolenza in cui le vicende dell'economia si mescolano con quelle della politica, con quelle militari, con le malattie, con i disastri ambientali e tanto altro, per formare una miscela esplosiva di cui è difficile capire sviluppi e conseguenze. Se abbiamo vissuto tre crisi epocali in vent'anni, è molto probabile che ne vivremo altre nei prossimi anni e che il nostro futuro sarà un succedersi di crisi che si sovrapporranno e interromperanno il corso della storia per reindirizzarlo verso nuove tendenze, senza mai raggiungere una fase di equilibrio, ma sempre transitando da un evento a un altro. Non dobbiamo preoccuparci di sapere in anticipo se e quale sarà la prossima crisi. Non lo possiamo sapere, perché tante possono essere le cause scatenanti e molte di esse possono non avere molto a che fare con l'economia. Ma sappiamo per certo che, se avremo rafforzato il nostro paese e se avremo a disposizione servizi pubblici adeguati e di buona qualità, qualunque sarà la prossima crisi, sapremo gestirla meglio e superarla per riprendere a vivere il più rapidamente possibile. È questa la nuova normalità del futuro.

(dal risvolto di copertina di: "La nuova normalità. Istruzioni per un futuro migliore", di Innocenzo Cipolletta. Laterza, €16)

Liberi dalla schiavitù del dover fare
- L'automazione realizza la nostra piena umanità e apre la strada all'era del welfare digitale -
di Maurizio Ferraris

Mai sprecare una crisi, diceva Churcill citato qualche giorno fa da Michela Serri. Aggiungerei: soprattutto, mai pensare che una crisi alieni la nostra umanità. È più facile che la riveli. Il lockdown ci ha insegnato che una forma di vita umana può svolgersi, sia pure con limitazioni, attraverso la mediazione di apparati tecnici. Quello su cui è necessario riflettere è che senza tecnica non ci sono esseri umani, ma solo animali particolarmente svantaggiati. Ecco perché il mondo ipertecnologico del lockdown era all'orizzonte da sempre, dal primo nostro antenato che abbandonando la condizione puramente animale, si dedicò a una attività tecnica, quella dello scheggiare una selce per trarne quello che gli antropologi chiamano, un po' curiosamente, «ascia da pugno».
Quel gesto antidiluviano, preceduto probabilmente dall'uso di un bastone, che però non si è conservato, diede avvio all'epopea dell'Homo faber, ossia dell'uomo che produce. Un'epopea che precede di molto quella dell'Homo sapiens, senza dimenticare che quest'ultima è punteggiata da enormi macchie di imbecillità, ossia, non dimentichiamolo, di mancanza di bastone, cioè di tecnica, giacché imbecillis viene da in-baculum, senza bastone. Se la vicenda dell'Homo sapiens non si è chiusa (c'è ancora molto lavoro da fare), probabilmente stiamo assistendo alla fine dell'Homo faber. Il mondo del lockdown ha rappresentato l'accelerazione di un processo di cui non abbiamo ancora preso le misure, e che va anzitutto compreso e governato, perché avvia una rivoluzione invisibile e silenziosa.
L'automazione ha fatto sì che noi umani non siamo più l'appendice delle macchine a cui forniamo energia e obiettivi, bensì semplicemente il loro destinatario. Riflettiamoci un istante: posso utilmente creare una macchina per produrre sushi, così come posso creare una macchina per distribuire sushi. In entrambi i casi, il vantaggio è evidente, perché le macchine non si stancano, non muoiono, non hanno diritti. Ma se inventassi una macchina per consumare sushi avrei creato la migliore approssimazione della macchina inutile. Perché le macchine esistono solo in funzione degli umani, dei loro bisogni, della loro mortalità, e questo vale in primo luogo per quella macchina universale che è l'intelligenza artificiale.
Questa «intelligenza» non ha nulla di diabolico né mai prenderà il potere, limitandosi ad archiviare e a elaborare forme di vita umane per capitalizzarle a fini di automazione, che altro non è se non il processo che abilita una macchina a comportarsi come un umano. Così era nell'ascia da pugno, che si limitava a potenziare la forza della mano, e così è, a molto maggior ragione, per il sistema di dettatura che adopero in questo momento. Tuttavia, diversamente dall'ascia paleolitica, dalla falce o dal martello, l'intelligenza artificiale non ha più bisogno della nostra forza; diversamente dagli aerei o dai fucili, non ha bisogno della nostra attenzione o perizia. Ciò di cui ha bisogno assoluto, pena la scomparsa istantanea (cosa sarebbe una intelligenza artificiale senza intelligenza naturale?) è la nostra umanità, le nostre astuzie e le nostre imbecillità, i nostri bisogni e i nostri sprechi, e tutto ciò che si condensa in una parola che ci sembra ovvia, e deprecabile, ma non è né l'una né l'altra cosa: ossia appunto «consumo».
Senza il consumo, cioè senza la molla della mobilitazione umana, quella che spingeva i nostri antenati a cacciare, poi a coltivare, poi a produrre industrialmente, e oggi a passare la vita sul web sia per rispondere ai bisogni sia per tenere a bada quel mostro delicato e squisitamente umano che è la noia, tutta la storia che ho descritto fin qui non avrebbe avuto luogo. Tranne - ecco l'evento che non dobbiamo lasciarci sfuggire - che i web ha introdotto un salto qualitativo: tradizionalmente, il consumo non lasciava tracce tolte le bucce, le ossa o le scatolette. Oggi, invece, il consumo, non solo materiale ma spirituale, ossia l'insieme delle forme di vita umana riversate sul web, è registrato, e produce valore: dati che vengono raccolti e sistematizzati dalle piattaforme che li trasformano in automazione, distribuzione, conoscenza, ricchezza.
Ed è proprio da questo salto ontologico, perché tocca la sostanza delle cose, che bisogna prendere l'avvio per la ripartenza. Non si tratta tanto di rimpiangere lavori che nella pandemia si sono rivelati fragili, ma di riconoscere l'implacabile produzione di valore, cioè l'enorme lavoro invisibile, che l'umanità esercita connettendosi al web, arricchendo le piattaforme invece che sé stessa, semplicemente perché non è consapevole di lavorare. Di qui la proposta politica: invece che sognare tasse sui patrimoni o biasimare le piattaforme per la loro ricchezza (è ovvio che una fabbrica che non paga i propri operai non può che arricchirsi) cerchiamo di ridistribuirla attraverso una tassazione equa, avviando un welfare digitale di cui la pandemia ha posto le premesse in termini di accelerazione tecnologica, ma che va preso concettualmente e orientato politicamente.
Le condizioni storiche sono favorevoli. Invece di lamentarci a vuoto del «capitalismo di sorveglianza» (il capitalismo non è interessato a noi e alle nostre idee, ma ai nostri soldi), osiamo immaginare l'enorme welfare che può derivare da una tassazione delle piattaforme, che - diversamente da ciò che è avvenuto nella Cina comunista, che le ha nazionalizzato decantando il suo miracolo economico e politico - resterebbero commerciali, cioè disinteressate alle nostre idee, ma ridistribuirebbero il loro plusvalore. E per farlo, come europei, non limitiamoci ad accettare la timida tassa di Biden, che ha per scopo la creazione di un'area anti-cinese, ma procediamo a una tassazione delle piattaforme più severa perché più motivata, giacché non si tassa la ricchezza, ma si retribuisce il lavoro che l'ha prodotta. Una tassazione, dunque, capace di far ripartire l'umanità come umanità, sostenendola nei suoi bisogni e facendola fiorire nella educazione e nella invenzione. Ecco ciò che per millenni è stato impossibile, e che si può e si deve fare, oggi, mettendo in soffitta, insieme all'homo faber, la più triste delle leggi della scienza triste, l'economia: quella che recita che «nessun pasto è gratis».

- Maurizio Ferraris - Pubblicato sulla Stampa del 22/6/2021 -

1 commento:

Anonimo ha detto...

Sicuramente l'economia è una scienza triste, tristissima, che ha imposto una certa visione del mondo...pero non si tratta solo di criticare l'economia e quindi il capitalismo dal punto di vista di una giusta distribuzione del plusvalore e sperare nel welfare state ...ma è dall'economia, forma totale della vita moderna, che bisogna uscire, è dalla logica della merce che bisognerebbe uscire.
Grazie franco per tutti questi interessanti articoli che ogni giorno ci proponi.

Salvatore