Il mondo contemporaneo è terrorizzato dalla sofferenza. La paura del dolore è così pervasiva e diffusa da spingerci a rinunciare persino alla libertà pur di non doverlo affrontare. Il rischio, secondo Han, è chiuderci in una rassicurante finta sicurezza che si trasforma in una gabbia, perché è solo attraverso il dolore che ci si apre al mondo. E l’attuale pandemia, argomenta il filosofo tedesco-coreano, con la cautela di cui ha ammantato le nostre vite, è sintomo di una condizione che la precede: il rifiuto collettivo della nostra fragilità. Una rimozione che dobbiamo imparare a superare. Attingendo ai grandi del pensiero del Novecento, Han ci costringe, con questo saggio cristallino e tagliente come una scheggia di vetro, a mettere in discussione le nostre certezze. E nel farlo ci consegna nuovi e più efficaci strumenti per leggere la realtà e la società che ci circondano.
(dal risvolto di copertina di: Byung-Chul Han, "La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite". Einaudi Stile Libero)
Viva la pelle d'oca
- Il dolore rende umani -
di Marco Ventura
Nato nel 1959 a Seul, Byung-Chul Han ha studiato Filosofia, Germanistica e Teologia a Friburgo e Monaco e ha insegnato Filosofia e Studi culturali nella berlinese Universität der Künste. Autore celebrato dalla grande stampa occidentale, Han si è imposto per la sua critica della contemporaneità, in particolare del neoliberismo e della trasformazione digitale, Nel 2020 ha dedicato al tema della sofferenza un volume che parla alla generazione della pandemia. Con il titolo "Palliativgesellschaft: Schmerz heute" («La società palliativa. Il dolore oggi») il libro denuncia una società che si autodistrugge mentre cerca di trasformarsi in «oasi permanente ottenibile per via medica». In un testo che a molti suonerà assai discutibile, Han propone una critica fondamentale della priorità sanitaria nell'emergenza pandemica e un'altrettanto fondamentale rivalutazione del dolore. Il volume esce da Einaudi Stile Libero con il titolo "La società senza dolore" e il sottotitolo "Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite", proprio mentre Nottetempo pubblica il precedente "La scomparsa dei riti". La Lettura dialoga a distanza con l'autore.
La società sarebbe dominata dall'algofobia, «paura generalizzata del dolore». Siamo «ipersensibili» come la principessa sul pisello, lei scrive, e tendiamo a vivere in uno «stato di anestesia permanente». In che senso allora la nostra è una società senza dolore?
«Non dico che viviamo in una società senza dolore. Oggi abbiamo addirittura un'epidemia di dolori cronici. Dico che il dolore ha una dimensione sociale e che quindi ogni critica della società deve confrontarsi con il dolore. Invece oggi il dolore viene ridotto agli aspetti medici e farmacologici. E se viene consegnato esclusivamente alla medicina, non lo capiamo».
In proposito, lei accusa il neoliberismo.
«Nella società postmoderna neoliberale aumentano le tensioni psichiche attraverso la pressione per l'efficienza o altre spinte, e ciò può portare a dolori cronici. Ho paragonato l'autosfruttamento neoliberale a un servo che prende la frusta dalle mani del padrone e frusta sé stesso per essere lui il signore, anzi per essere libero. Questa spinta neoliberale per la prestazione e l'autosfruttamento ci fa ammalare».
Il nostro problema con il dolore è legato alla solitudine?
«Nel libro accenno alla scena primaria della guarigione in Viktor von Weizsäcker. Quando la sorellina vede il fratellino nel dolore, conosce una via d'uscita. Lo tocca dove gli fa male. Il contatto seda il dolore. Oggi viviamo in una società afflitta da crescente solitudine, senza contato né dedizione umana. Il distanziamento sociale! Mi chiede se il dolore non sia il grido del corpo che chiede appunto vicinanza e dedizione, addirittura amore. La scienza primaria della guarigione non può essere surrogata da un antidolorifico.»
Lei denuncia una «società palliativa» complice di un'«ideologia del benessere permanente». Ma volersi liberare dal dolore, voler almeno limitare il dolore, non è forse uno scopo legittimo?
«Ogni esperienza intensa è dolorosa, anche l'amore intenso. Oggi noi evitiamo le intensità per paura del dolore. Anche l'amore oggi deve essere depotenziato in una formula rivolta al consumo e al godimento. Ogni intensa percezione è dolorosa. Dolorosamente bello non è una contraddizione. Noi percepiamo oggi il mondo attraverso lo smartphone, che rende tutto consumabile e disponibile e riduce ogni cosa alla dimensione dello schermo. Penso che lo smartphone sia un analgesico digitale».
Nel libro lei non parla della medicina palliativa.
«Uso l'espressione "società palliativa" in senso metaforico, per designare una società che non sa trattarer il dolore. La società palliativa non ha niente a che fare con la medicina palliativa. Per il resto, insisto che vicinanza, dedizione e contatto sono più importanti degli analgesici. Il reparto palliativo di una clinica non può rimpiazzare la dedizione e l'amore. Il racconto che il malato fa al medico all'inizio del trattamento guida il processo di cura. Quale medico può ascoltare di sé stesso che sa ascoltare? Oggi ascoltiamo sempre meno. Nel mio libro "L'espulsione dell'altro" (Nottetempo, 2017) ho dedicato un intero capitolo all'arte dell'ascolto. Il capito inizia con le parole: "In futuro ci sarà forse una professione chiamata l'ascoltatore. Qualcuno che dietro pagamento dedica ascolto all'altro. Si va dall'ascoltatore perché altrimenti non c'è nessuno che ascolti l'altro"».
La pandemia ha un ruolo non secondario nel suo libro.
«Ho scritto che la pandemia trasforma la società in una quarantena in cui la vita si irrigidisce in una sopravvivenza. La vita non è un sopravvivere. La pandemia acuisce delle tendenze sociali che sono già presenti. Tra queste c'è l'isteria della salute. Tutte le forze vitali vengono oggi impiegate per prolungare la vita. Anche nella pandemia non dovremmo ridurre la vita al sopravvivere. Malgrado tutto, dobbiamo trovare possibilità di festeggiare la vita: è importante, proprio nella pandemia. Trovo problematico che oggi la virologia venga prima di tutto. Nelle decisioni sul contrasto alla pandemia dovrebbero piuttosto essere coinvolti psicologi, pedagogisti, sociologi, teologi, filosofi e anche artisti. Si dovrebbe procedere a una vasta valutazione dei beni che sono in gioco nei diversi aspetti della vita, invece di assolutizzare la salute e la sopravvivenza, sacrificando loro tutto il resto».
Nella pandemia lei scrive, «la fede è stata sacrificata sull'altare della sopravvivenza» e «la virologia esautora la teologia», e ancora «la salute viene elevata a nuova divinità». Senza dolore non c'è più Dio?
«Trovo che gli esseri umani raggiungano il culmine della bellezza quando pregano. Per questo vado volentieri nelle chiese. Senza dolore non potranno pregare. Può darsi che un giorno vivremo in un mondo senza dolore. Il "mondo nuovo" dello scrittore Aldous Huxley non conosce il dolore. È una società palliativa, lo Stato distribuisce la droga chiamata soma per accrescere il senso di benessere. Ma una vita senza dolore non è umana. Per questo concludo il mio libro con le parole: "L'uomo si fa fuori per sopravvivere. Potrà forse raggiungere l'immortalità, ma al prezzo della vita"».
Secondo lei il dolore è «verità», «vincolo», «differenza», «realtà».
«Ho introdotto il libro con una citazione di Walter Benjamin: "Il dolore rappresenta per l'uomo una sorta di inesauribile corso d'acqua che conduce al mare. Il piacere si presenta ovunque l'uomo si sforzi di dargli un seguito, è come un vicolo cieco". Ogni dolore ci appare appunto come una via senza uscita, che in nessun caso si può evitare. Il mio libro l'attenzione con forza sul fatto che il dolore è costitutivo della vita umana. Dove le separazioni fanno soffrire, i precedenti legami si rivelano come veri. Solo la verità duole. Se le separazioni non fanno soffrire i legami non erano stati veri».
Al contrario del dolore, «la digitalizzazione è anestesia». Proprio qui, lei dice, si distingue il pensiero dall'intelligenza artificiale. Colpisce in proposito la sua affermazione «non ci saranno mai algoritmi del dolore».
«La prima immagine del pensiero è la pelle d'oca. L'intelligenza artificiale proprio per questo è estranea al pensiero, perché non ha mai la pelle d'oca. La pelle d'oca è espressione di commozione e brivido. La consapevolezza che non porta a rabbrividire equivale a ridurre a oggetto. È incapace di esperienza in senso empatico, che in sé è dolore».
Distrutta la «dimensione sociale del dolore», per lei resta solo una «società della sopravvivenza» che, come dimostrerebbe la pandemia, «si vedrà obbligata a rinunciare ai principi liberali». Non c'è più vita, solo «non morte». Non è esageratamente pessimista?
«Non sono pessimista. Al contrario, mi attendo dalla vita più della sopravvivenza. La società dominata dall'isteria della sopravvivenza è una società di "non morti". Dico spesso: siamo troppo vivi per morire, troppo morti per vivere. Quando siamo preoccupati solo di salute e sopravvivenza somigliamo noi stessi al virus, un essere non morto che si moltiplica, cioé sopravvive senza vivere».
Però così lei rischia di cadere nell'atteggiamento opposto all'algofobia, nella glorificazione del dolore quale via per una spiritualità superiore.
«Io non glorifico il dolore. Direi: la vita umana senza il dolore è incompleta. Dolore e felicità sono, come dice Nietzsche, due fratelli gemelli, che crescono insieme o insieme rimangono piccoli. Se il dolore viene inibito, la felicità si appiattisce su una sorda sensazione piacevole».
Insisto. Pare di avvertire l'eco di un «dolorismo» molto problematico da un punto di vista etico.
«Il dolore fa anche parte della nostra relazione con gli altri. Un capitolo del mio libro è dedicato all'etica del dolore. Oggi parliamo spesso della scomparsa dell'empatia. Mi sono chiesto: da dove deriva questa crescente perdita di empatia? Perché siamo sempre meno ricettivi per gli altri? Ritengo che noi oggi nel nostro Ego rendiamo l'altro un oggetto disponibile, pronto al consumo. L'altro come oggetto non prova dolore».
Invece la pandemia ci mette potentemente di fronte al dolore.
«La pandemia rafforza la scomparsa dell'empatia. L'altro è ora un possibile portatore del virus, dal quale è opportuno distanziarsi. L'ascolto, del quale ho parlato prima, presuppone che io mi esponga all'altro. L'accresciuta sensibilità per l'altro, il poter soffrire con l'altro, ha qualcosa di doloroso. L'amore come rapporto empatico con l'altro ci assale e ci ferisce. L'amore come consumo, invece, non comporta dolore. Senza dolore non abbiamo alcun accesso all'altro. Per questo parlo di dolore VERSO l'altro. Oggi abbiamo perso la capacità di percepire l'altro nella sua alterità. E l'altro, provato della sua alterità, si lascia solo consumare».
Intervista di Marco Ventura - Pubblicata su La Lettura del 23/2/2021 -
3 commenti:
agorafobìa s. f. [comp. del gr. ἀγορά «piazza» e -fobia]. – Timore ossessivo per l’attraversamento di una piazza o di uno spazio aperto [da Treccani]
Forse bisognerebbe sostituire agorafobia con algofobia [algofobìa (comp. di algo- e -fobia). – Timore ossessivo del dolore fisico, Treccani]
Credo che tu abbia proprio ragione. :-)
Non cerco scuse nella correzione ortografica; è colpa mia.
Grazie
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