Che cos’è l’arte? Qual è la sua forza? Queste le domande che Alfred Gell solleva in Arte e agency, convinto che le statue di Michelangelo e i tatuaggi maori pongano i medesimi problemi e sollevino alcune delle più importanti questioni che l’antropologia deve discutere. L’origine del potere che gli oggetti artistici esercitano su di noi dipende dal modo in cui vengono realizzati: veniamo incantati dalla tecnica con cui uomini diversi da noi forgiano i materiali. Il marmo e la pelle incorporano i gesti che li hanno modificati, le intenzioni di coloro che li hanno trasformati, e agiscono come persone in carne e ossa. Sono agenti sociali. Testo all’avanguardia all’epoca della sua stesura, torna a esserlo oggi tanto per comprendere processi artistici à la Damien Hirst e installazioni che mettono in scena corpi viventi, artefatti d’uso comune e dispositivi tecnologici, quanto per dialogare proficuamente con posizioni filosofiche come le teorie dell’embodiment e della mente estesa, i nuovi materialismi e l’estetica contemporanea.
(dal risvolto di copertina di: Alfred Gell, "Arte e agency. Una teoria antropologica". Raffaello Cortina editore)
Quei capolavori sono totem
- di Simone Verde -
Nel gennaio del 1997, pochi giorni prima di morire, Alfred Gell, uno dei più brillanti e geniali antropologhi britannici riuscì nella sfida più grande della sua vita. Consegnò completo alla Oxford University Press il suo capolavoro dattiloscritto: Art and Agency, an anthropological theory. Possiamo ipotizzare con buona approssimazione quanto Gell si aspettasse da questo suo sforzo estremo. DI sicuro polemiche a non finire, tanto ne era stato abituato durante tutta la sua originalissima carriera accademica. Ancora di più questa volta, visto che il volume si apriva con l'attacco a una delle più acclamate antropologhe del momento, Sally Price. Ciò che Gell non poteva forse immaginare, però, impegnato con una cieca corsa contro il tempo per via di una fine che sapeva imminente, è che il testo sarebbe stato salutato da ampia parte della comunità degli studiosi come un autentico capolavoro. E che avrebbe fondato un filone di studi e di pratiche tanto longevo che questa prima traduzione italiana per i tipi dell'editore Cortina suona - a ventitré anni di distanza - come una riavvenuta rivelazione.
Il rimprovero a Sally Price con cui Gell introduce la sua opera costituisce il senso generale del testo e riguarda una questione essenziale: che senso ha trattare le creazioni delle culture extraeuropee secondo i concetti di bello artistico tipici della tradizione europea? Nessuno. Neanche quando si trattasse, come proponeva Price, di ridiscutere le categorie dell'arte a contatto con l'alterità di quei popoli, e di «ampliare l'esperienza estetica oltre i ristretti confini culturali della nostra visione» di occidentali. Partendo dal presupposto che l'unico sapere universale che riguarda l'uomo è l'antropologia, Gell tracciava invece una strada mai suggerita: piuttosto che estendere la teoria dell'arte con i precetti di tipo antropologico, bisognava verificare se in antropologia potesse darsi una teoria dell'arte. A partire da questo presupposto, lo studioso procedeva a una vera e propria tabula rasa in cui decadevano le categorie tradizionali dell'estetica e sparivano concetti come quelli di "capolavoro" e di "opera". Ritrovava, quindi, dinanzi a sé un mondo fatto di semplici artefatti, realizzati secondo specifici processi sociali e che, al cospetto della natura, rappresentano vettori di antropizzazione.
Pensiamoci bene, a questa rivoluzione e ai suoi innumerevoli risvolti. Guardandola da vicino persino lo statuto dei nostri musei ne risulta stravolto. Più che scrigni di oggetti esemplari, risultano, come già li aveva voluti la rivoluzione francese e la sua visione illuminista, raccolte di documenti che illustrano le forme culturali con cui differenti comunità hanno voluto rappresentare sé stesse e la loro progettualità nel mondo. Per Gell, in effetti, tutti gli artefatti - e tra questi anche le occidentali opere d'arte - sono un "indice", una espressione delle intenzioni di chi li ha creati. Una volta distaccatisi dalla mano di coloro che li hanno eseguiti e una volta che la società se ne sia appropriata, essi continuano a costituire un agente di trasformazione della realtà. Da qui, il titolo "Arte e Agency", ovvero - come hanno tradotto alcuni, arte e "intenzionalità", oppure "agire intenzionale" in cui l'artefatto è da considerarsi emanazione della volontà dell'artista, del committente, dell'ispiratore, insomma di colui che ne ha formulato il disegno e la progettualità.
Con questa struttura, Gell riuscì in un vero e proprio capolavoro, ovvero a rimescolare a tal punto le categorie da rendere "artistiche" le creazioni dei popoli extraeuropei ed "etniche" quelle degli occidentali, private della loro supposta universalità. Se una canoa trobriandese può essere considerata un'opera d'arte - in senso antropologico ben inteso - in quanto espressione di una visione del mondo dotata di un progetto, una pittura rinascimentale è dotata di una tale "intenzionalità" da rassomigliare quasi a un totem, a una rappresentazione in cui la società celebra sé stessa e la sua capacità di imporre un ordine - culturale - alternativo a quello della natura. La prosa di Gell, è vero, risulta a tratti di difficile lettura, eccessivamente schematica in alcuni passaggi per via di una certa tendenza a scimmiottare il linguaggio della filosofia analitica, tanto di moda al tempo della rocambolesca redazione del saggio. Ma resta uno dei capisaldi da cui partire per uno studio non ideologico o etnocentrico dell'arte, tanto più in società multietniche e multiculturali come quella del nostro tempo.
- Simone Verde - Pubblicato sul Sole del 27/2/2021 -
2 commenti:
Leggendo queste recensioni mi domando perché non è mai indicato il prezzo dei testi di cui si tratta ...
Sarà un complotto??!!??
stai bene!
Franco
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