giovedì 12 settembre 2024

Cercando un altro Egitto…

Anselm Jappe, in questo interessante e lungo testo, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, e ci racconta così la sua a proposito della "Scuola di Norimberga", e di cosa a partire da allora non avrebbe funzionato. Ovviamente, la prima a essere accusata è la "teoria della crisi"(chissà, magari è stato per codesto che Postone il posto nel Pantheon se l'è meritato, e Kurz invece no…) Poi si passa al secondo imputato, a quell'Illuminismo "dialettico" dipinto così male, su cui se ne sono dette troppe; forse bisognerebbe darsi una calmata… Ecco, sembrano soprattutto queste, le cipolle mal digerite, e sulle quali va riconosciuto a Jappe che non le tira fuori ora; ma l'ha sempre pensata così.Manca un punto, a mio avviso; forse il più importante in tutta questa contingenza. E riguarda il problema del "partito", e il fatto che non sembra sia passato per la mente quasi a nessuno (nemmeno a Kurz!) che per codesto bisognerebbe tornare a Marx (non solo a Karl, ma anche a Groucho!!), finendo pertanto una volta per tutte di liberarsi da Lenin e di Lenin, per sempre!

I vivi e i morti nella Critica del Valore
- Alcune tesi superficiali sullo stato della critica del valore oggi -
di Anselm Jappe

 

Sono passati 38 anni, da quando, nel 1986, usciva il primo numero di "Critica marxista" (più tardi ribattezzata Krisis) e aveva inizio lo sviluppo della critica del valore. Dapprima limitata solo a dei piccoli circoli, arrivava poi a una "svolta", anche agli occhi del pubblico, con la pubblicazione de "Il collasso della modernizzazione" (1991) di Robert Kurz. Ben presto, l'interesse crebbe rapidamente, non solo nei paesi di lingua tedesca, ma anche in altri paesi, inizialmente soprattutto in Brasile. Quando nel 1994 pubblicai i primi testi di Kurz su una casa editrice italiana [N.d.T.: "Il manifesto"], non mi sembrò esagerato affermare nella prefazione che quanto prima, in futuro, si sarebbe parlato di una "Scuola di Norimberga", allo stesso modo in cui, da tempo ormai, si parla della "Scuola di Francoforte". La mia previsione si è rivelata sbagliata. La critica del valore, ovvero la critica della scissione-valore, è rimasta ovunque in una situazione settaria, o vi è ritornata, simile a quella che, in Italia, può essere paragonata al “bordighismo”, o, in Germania, al "gruppo marxista". Vediamo che esistono diverse riviste specifiche della critica del valore in Germania, in Austria e in Francia, dove c’è anche una casa editrice che si dedica esclusivamente alla Critica del Valore, con libri e con molte traduzioni, soprattutto degli scritti di Kurz. Ma tuttavia appare ovvio che i "dinosauri marxisti" - della cui imminente estinzione i critici del valore erano già convinti negli anni '90 - continuano a dominare (o sono tornati a farlo) quella parte dello spettro della sinistra radicale che continua ancora a fare riferimento a Marx. A continuare a dominare i dibattiti, le riviste, i corsi universitari e le summer school sono sempre le vecchie glorie: e si parla sempre di Louis Althusser e di Jacques Rancière, di Toni Negri e David Harvey, di Slavoj Žižek e di Alain Badiou, di Operaismo italiano, o addirittura di Rivoluzione Russa; oppure di autori che non venivano considerati, o non si consideravano, marxisti, come Gilles Deleuze, Michel Foucault, Giorgio Agamben o Judith Butler. Perfino Michael Heinrich ha conquistato un suo pubblico internazionale. Così, ad esempio, chiunque sfogli la rispettabile rivista britannica "Historical Materialism" - la quale pretende di dare spazio a tutti i tipi di marxismo - e assista alle sue conferenze annuali, nel corso delle quali si tengono sempre centinaia di lezioni, non troverà quasi mai riferimenti alla Critica del Valore tedesca.Per converso, persino Moishe Postone mantiene lì una sua modesta cittadinanza modesta [*1]; ma non ce l'ha Kurz, né gli altri autori "Krisis" o di "EXIT!". [*2]   Fin dall'inizio, la critica del valore aveva esplicitamente definito sé stessa come un movimento non accademico. Tra i suoi fondatori, e in seguito tra i suoi più importanti esponenti, non c'erano professori universitari (a parte Claus Peter Ortlieb, il quale però insegnava matematica), e non c'erano nemmeno giornalisti, o persone che avevano influenza nei media e, naturalmente, non c'era nessun politico. Come ebbe a dire lo stesso Kurz: i critici del valore erano i "cani randagi" della critica sociale, e volevano esserlo. Ed è stata esattamente proprio questa autoimposta posizione esterna ad avere reso attraente per più di una persona la critica del valore. Quanto ha contribuito l'accademismo alla banalizzazione e all'“aggregazione” della critica sociale nel corso dei decenni! Com'è paradossale permettere allo Stato di pagarti per criticarlo, e costruire in tal modo delle carriere istituzionali basate sulla diffusione di contenuti apparentemente rivoluzionari, e usarli poi per valutare gli studenti in base alla loro comprensione della critica del capitalismo! È di certo un bene il fatto che la natura radicale dei contenuti non abbia nulla a che fare con lo Stato e con i media mainstream; dopo tutto, fino alla prima guerra mondiale e oltre - in quella che è stata la sua "età dell'oro" (Kolakowski) - il marxismo non esisteva affatto nelle università. Un altro esempio di come una teoria critica del capitalismo abbia potuto farsi sentire senza avere alcuna presenza nelle università, nelle istituzioni o nei grandi media, facendolo soprattutto grazie alla qualità delle sue analisi e delle sue eventuali azioni, è stato quello dell'Internazionale Situazionista (1957-1972) e del suo pioniere Guy Debord. Non ci si può costituire un proprio status, costruirci sopra una carriera, o ricevere finanziamenti attraverso una critica di valore, né 38 anni fa né oggi. Gli opportunisti hanno rapidamente voltato le spalle alla critica del valore. Ma per questo atteggiamento assolutamente corretto, la critica del valore ha pagato un prezzo assai alto. Vale a dire che questo ha fatto sì che sia andata perduta un'enorme opportunità di risonanza, a cui quasi nessun'altra corrente del marxismo ha rinunciato. Così, vediamo che nelle università, a difendere il proprio giardino, già in contrazione, e a non permettere alcuna competizione sul loro campo, sono spesso proprio i marxisti e altri "di sinistra"; tanto più che gli attacchi violenti al marxismo tradizionale hanno sempre fatto parte dell'equipaggiamento di base del Partito Democratico. La critica del valore ha di certo il potenziale per riuscire a diventare un nuovo paradigma per le discipline umanistiche; soprattutto in ambiti come la storia sociale, letteraria e culturale, ma anche rispetto alla storia del lavoro e la resistenza ad esso. Ma assai raramente questa possibilità si è concretizzata. Naturalmente, per la critica sociale, esiste una seconda possibilità di risonanza, che dovrebbe quanto meno essere assai più vicina a quelle che sono le sue forme radicali: i movimenti sociali di ogni tipo, l'attivismo, la lotta pratica contro il capitalismo. [*3] Affidare la teoria a delle persone che vogliono davvero fare la differenza era già intenzione di Marx ed Engels, i quali non tenevano seminari all'università, ma fondarono l'Associazione Internazionale dei Lavoratori. Ma fin dall'inizio, la critica del valore ha insistito sul fatto – e questo fa parte della sua essenza – che la teoria non dovrebbe essere la "serva" della prassi. In definitiva, non si tratta di accompagnare i movimenti sociali, e spiegare loro che cosa stiano già facendo, bensì, piuttosto e al contrario, far notare quali sono le loro inadeguatezze, e incoraggiarli a radicalizzarsi e a mettere in discussione tutta la socializzazione del valore, del lavoro e del denaro, per far dimostrare che questo approccio è corretto, importante e coraggioso. Non si può criticare la costituzione del soggetto plasmato dalla merce, se allo stesso tempo si crede di vedere una tendenza rivoluzionaria in ciascuno dei suoi movimenti, come oggi fanno quasi tutti i gruppi della sinistra radicale. Il guadagno narcisistico che quasi tutti i soggetti traggono dall'identificarsi con un "gruppo" - di solito un gruppo che ha subito grandi ingiustizie ma che è predestinato a emanciparsi se solo si impegna adeguatamente - rappresenta di certo un motivo essenziale per impegnarsi nell'attivismo. Permette di riuscire a gonfiare la propria "giustizia" - come la definiva Adorno - rendendola un positivo assoluto, addossando tutto ciò che è negativo sempre agli altri ("la borghesia", "i governanti", "gli imperialisti", "i colonizzatori", "gli omofobi", "i maschi", ecc.). Argomentare contro di loro che il capitale è una relazione alla quale partecipano tutti i soggetti capitalistici, sebbene con ruoli e vantaggi assai diversi, e che ogni critica sociale deve anche includere l'autocritica, ai soggetti capitalistici appare quasi sempre come un'imposizione, un sabotaggio o una provocazione. Riconoscere in anticipo il pericolo di un "populismo trasversale", è una delle conseguenze di questo approccio alla critica del valore. [*4]

Gli attivisti di ogni genere considerano sempre la critica del valore come qualcosa di distante, troppo difficile, troppo intellettuale, lontana dalla pratica, troppo radicale, non comunicabile, una critica da torre d'avorio – ma tutte queste obiezioni testimoniano solamente i limiti di questo genere di attivismo e la motivazione a criticarlo. La critica del valore non solo viene considerata impraticabile, ma anche pessimista, demoralizzante e scoraggiante. Ma il fatto che essa non diffonda illusioni, e non si aggrappi a nessuna goccia di speranza può essere solo ritenuto come un merito della critica del valore. Però resta il fatto che qualcuno deve pur ascoltare la teoria: ci deve essere un pubblico, in modo che non basti che i messaggi in una bottiglia vengano semplicemente inviati. [*5] È bene che la critica del valore non piaccia né al mondo accademico né al mondo del movimento. Ma così va a finire che non ha alcun pubblico. È facile scoprire che, pur condividendo l'analisi categoriale della critica del valore, non c'è davvero bisogno se si vuol parlare contro il nucleare o la chiusura degli ospedali, per difendere la biodiversità o l'accoglienza dei migranti, per sostenere che le piccole case di pietra sono meglio dei grattacieli di cemento, o per criticare lo stato di sorveglianza e la tirannia degli algoritmi. In tutti questi casi, si può sicuramente dimostrare che alla fine, se si va davvero a fondo delle cose, la socializzazione del valore ne è responsabile, e se non ne usciamo non ci sarà una vera soluzione. Ma se non si vuole aspettare, intanto si possono salvare i profughi in mare, oppure bloccare una fabbrica di cemento qui e ora, e questo lo si può fare senza ricorrere alla critica del valore, e farlo insieme a persone che non hanno mai sentito parlare di critica del valore. Nella migliore delle ipotesi, si può cercare di dissipare le loro illusioni circa il significato delle loro azioni, e impedire loro di candidarsi al parlamento... Ma se la teoria non è utile né dal punto di vista accademico né da quello dell'attivismo, essa allora riceve poca attenzione. Solo le persone veramente interessate alla conoscenza, senza alcun uso immediato per sé stesse o per la società, faranno lo sforzo di comprendere veramente la critica del valore. Ma purtroppo queste persone sono rare. Se la critica del valore, in qualsiasi momento del suo sviluppo, si fosse scagliata contro il pubblico accademico o attivista avrebbe tradito sé stessa e il suo carattere distintivo. Ma è proprio per questo che deve accontentarsi di un'eco assai ben lontana dal suo potenziale intellettuale. Non c'è dubbio che gran parte di ciò che la critica del valore ha prodotto, dal 1986 a oggi, rappresenta qualcosa tra le scoperte più importanti del nostro tempo. Ma purtroppo non basta averlo detto. Probabilmente, sarebbe questo il motivo "strategico" più importante che causa l'insufficiente diffusione della critica del valore. [*6] Ma va considerato anche l'aspetto dei contenuti: guardando indietro a quali sono i punti di forza e di debolezza della critica del valore. A tal proposito, si può dire che tutti i commenti sono necessariamente estremamente superficiali e meriterebbero un lungo libro! Quella che è stata la notevole importanza che ha avuto la riformulazione, fatta da Kurz, della critica dell'economia politica, vale a dire del suo rinnovamento delle idee di Marx, probabilmente non ha bisogno di essere spiegata in maniera più dettagliata. Da "Lavoro astratto e socialismo"(1987) a "Leggere Marx" (2000) e "La sostanza del Capitale"(2004)[*7], e fino alla sua ultima opera "Denaro senza valore" (2012) Kurz ha fornito una nuova lettura delle categorie di Marx che tutti gli altri approcci dell'ultimo mezzo secolo - compresa quella di Moishe Postone, che a lui è legata - non sono riusciti a fornire. I suoi studi sulle origini, sulla storia e sull'attuale situazione capitalismo, sviluppati in "Guerra di ordinamento mondiale" (1999), "Libro nero del capitalismo" (1991), "Ruolo del Soggetto nel Collasso della Modernizzazione" (1993) hanno delineato un enorme programma di ricerca. La sua critica del marxismo tradizionale e, soprattutto, quella riferita alla lotta di classe e al feticcio del lavoro, oltre che al suo ruolo storico che ha avuto in quanto aiuto allo sviluppo del capitalismo, costituisce un modello rispetto al quale ogni e qualsiasi forma di pensiero marxista deve – o meglio, "dovrebbe" – essere oggi valutata, dal momento che è stato proprio il bersaglio delle sue critiche ad aver organizzato un'efficace "congiura del silenzio" contro di lui. [*8] Ma esistono molti altri punti sui quali una revisione della critica del valore sembra essere assolutamente necessaria: vale a dire, delle due l'una, o l'approccio ha avuto fin dall'inizio dei punti deboli, oppure lo sviluppo progressivo della società di mercato richiedeva una modifica della teoria. Questo vale soprattutto per la teoria della crisi. È questo, il punto che di gran lunga ha attirato maggiormente l'attenzione, soprattutto nel momento in cui la Critica del Valore è stata ricevuta da un pubblico più ampio. Ciò è avvenuto dopo il collasso del blocco orientale e la "riunificazione" tedesca"; attenzione che si è poi riattivata ad ogni crisi. Così, negli anni '90, quando la situazione economica in Brasile rimaneva assai incerta, Kurz cominciava a godere di grande popolarità sui media brasiliani, e veniva visto come il "profeta dell'apocalisse", e non appena diceva che il mercato azionario o la valuta erano scesi di nuovo, il suo telefono squillava e all'atro capo c'era un media brasiliano che voleva un commento. Quando in Brasile, durante la prima presidenza di Lula (2003-2011) c'era stata una temporanea ascesa e si era diffusa la sensazione di "farcela", e di non essere più un paese del terzo mondo, l'interesse per la critica del valore era di nuovo aumentata, e alcuni dei rimanenti gruppi critici del valore avevano preso esplicitamente le distanze dalla teoria della crisi, la quale semplicemente non poteva più essere "comunicata", pena essere ridicolizzati (ma questo, dopo pochi anni, è poi cambiato di nuovo!). La teoria della crisi costituisce – anche se ciò avviene in modi diversi secondo le diverse direzioni della critica del valore (in EXIT! è, ovviamente, particolarmente "breve-ortodossa") – una base della Critica del Valore tedesca e delle sue ramificazioni internazionali; contrariamente alla critica del valore di Postone, la quale manca di una teoria della crisi, e a quasi tutte le correnti del marxismo. La concorrenza intra-capitalistica spinge costantemente a sostituire il lavoro vivo con il lavoro morto, e pertanto riduce la massa di valore, la quale viene creata solamente dal lavoro vivo. Questo processo, storicamente progressivo, avrebbe portato già da tempo al collasso della produzione di valore, e della società basata su di essa, se, a partire dagli anni '70 non fosse stato sempre più tenuto nascosto grazie all'espansione del "capitale fittizio", e da montagne di debiti sempre più giganteschi. È questa è la tesi di fondo che possiamo trovare già nei contributi a "Critica marxista". Negli anni '90, pertanto, "Krisis" considerava ormai imminente il crollo del capitalismo. In testi come "Rache" (1991) di Honecker, si sosteneva che l'annessione della DDR avrebbe completamente travolto il capitalismo della Germania Ovest, e alla fine lo avrebbe trascinato nell'abisso; cosa che, a sua volta, avrebbe causato il collasso dell'intera economia mondiale. Ne "Il collasso della modernizzazione", di quello stesso anno, Kurz affermava che c'era da aspettarsi che la società di mercato «prima della fine del XX secolo, sarebbe entrata in un'epoca oscura di caos e di disintegrazione delle strutture sociali, come non era mai stato visto prima [!] nella storia del mondo». [*9] Non si vorrebbero necessariamente attribuire simili affermazioni a Kurz, ma va notato che inizialmente la critica del valore aveva sovrastimato in modo significativo il ritmo della crisi finale. Invece, come risultato, si sono verificate tutta una serie di crisi che potrebbero essere viste come dei segni a partire dai quali il capitalismo stava effettivamente raggiungendo i suoi limiti interni: le crisi finanziarie in Messico nel 1994, nel sud-est asiatico nel 1997, in Russia nel 1998, in Brasile nel 1999, lo scoppio della bolla delle dot-com nel 2000, la crisi argentina nel 2002, la crisi globale dei subprime del 2008, la crisi greca del 2010. In ciascuna di queste crisi, il debito pubblico e privato è stato portato a dei livelli che prima venivano considerati inimmaginabili. Non c'erano altre alternative, poiché i problemi di fondo erano irrisolvibili, così come sosteneva la teoria della crisi della critica del valore, e quasi nessun altro, nemmeno a sinistra. Attribuire le crisi finanziarie al fatto che l'accumulazione del capitale era diventata impossibile, e la conseguente diminuzione della massa del valore, era un assunto di fondo del tutto corretto, che, come già detto, per la critica del valore costituiva l'unica base.  Ma il capitalismo non ha collassato. Inoltre, ciascuna di queste crisi si è fermata, almeno apparentemente, o quanto meno la sua intensità è diminuita. La Russia, contro ogni previsione, è tornata ad essere una potenza mondiale. Non si è sviluppata una spirale di crisi sempre più esacerbate. La crisi globale del Covid, almeno all'inizio, sembrava davvero l'occasione giusta per una crisi definitiva del debito: prima attraverso le severe restrizioni alla produzione e al commercio mondiale, e poi attraverso i giganteschi "pacchetti di salvataggio" finanziati dal credito. Ma anche questa volta non c'è stato alcun crollo. Nessun problema è stato risolto, ma tuttavia tutto continua.

E bisogna che tutto questo venga spiegato teoricamente. La teoria della crisi, in quanto tale, è corretta, ma tuttavia non riesce a spiegare perché non ci sia ancora stata una crisi finale. Continuare sempre a dire: «Se la grande crisi non arriva questa volta, allora la vedrai l'anno prossimo», diventa in realtà qualcosa che assomiglia alle profezie apocalittiche per mezzo delle quali i tuoi avversari hanno sempre voluto identificare i critici del valore. È vero che nei centri capitalistici, nella sua forma pura, il modello fordista di accumulazione è morto da decenni, che non è mai stato veramente esportato alla periferia, e che nessun altro modello di accumulazione è praticabile. La combinazione di economia di mercato e democrazia, piena occupazione e prosperità, compromesso di classe (cioè una riduzione dei divari di reddito) e bilanci in pareggio, vale a dire, il cosiddetto "miracolo economico", nel migliore dei casi ha dovuto richiedere alcuni decenni, e anche allora solamente in pochi paesi. Questa società, si considerava come se fosse una sorta di punto finale della storia, come la soluzione perfetta che era stata finalmente trovata, e che doveva solo essere estesa a tutto il resto del mondo. Può essere che sia apparso così anche a coloro che sono cresciuti in tutto questo (ivi compresi i fondatori della critica del valore!): come se si trattasse del capitalismo "reale", contro il quale  tutte le altre forme di capitalismo rappresentano solamente o dei precursori o delle forme di declino. Ma è davvero così? Piuttosto che ripetere costantemente che a un certo punto la barriera verrà raggiunta, forse sarebbe il caso che la critica del valore esaminasse quei numerosi modi, "non ortodossi", secondo i quali la società globale delle merci si muove, passando da una soluzione di emergenza alla successiva soluzione provvisoria. Il ruolo della Cina e delle altre "economie emergenti", da un lato, e il ruolo della digitalizzazione dall'altro, sono stati presi sufficientemente in considerazione? Di certo, non si tratta semplicemente - come sostiene l'economia borghese e quasi tutti i marxisti - di nuovi modelli che sostituiscono i vecchi centri capitalistici ("il secolo del Pacifico"!) o che sostituiscono la vecchia industria. Sembrano dare nuovamente un po' di respiro allo sfruttamento globale del valore, e, in ogni caso, il capitalismo non ha mai "chiesto" nient'altro. Lohoff e Trenkle, ne "La Grande svalorizzazione" (2012), hanno tentato di spiegare l'andamento della crisi finale per mezzo di categorie politico-economiche. Ma la loro complicata analisi sembra non abbia convinto nessuno. Ciò che è importante è che la critica del valore, in tutte le sue sfumature, ha dimostrato che le crisi finanziarie sono il risultato di una crisi di accumulazione reale, e non il contrario. Pertanto, è stata in grado di classificare qualsiasi critica unilaterale dei mercati finanziari, delle banche e della speculazione, vedendola come una critica stenografica del capitalismo che porta al populismo e al nuovo antisemitismo.  L'insistenza sul "limite interno" del Capitale, così caratteristica della critica del valore, e in particolare di Kurz, e che era quasi sempre estranea al marxismo tradizionale, è stata sempre diretta, in modo subliminale, contro l'assunto secondo il quale il capitalismo stesse mirando principalmente alle sue "barriere esterne". Questo ha significato, almeno dagli anni '70, principalmente alle barriere naturali, vale a dire, ai limiti ecologici. Fin dall'inizio, la critica del valore si è sviluppata esplicitamente in contrasto con il discorso ambientalista che si era diffuso in Germania negli anni '80 – "Commenti critici sulla nuova critica del potere produttivo e sull'ideologia della desocializzazione", era questo il sottotitolo del principale articolo di Kurz, "Il ruolo delle cose morte", su Marxist Critique No. 2 and No. 3 (1986-1987). Inizialmente, durante la crisi, c'era stata una vera e propria euforia nei confronti della tecnologia: lo sviluppo sempre crescente di tecnologie che risparmiavano lavoro, avrebbe privato il capitalismo delle sue fondamenta, e liberato così gli individui dal lavoro. Come questa ideologia del progresso – che fondamentalmente era solo una variante della tradizionale idea marxista delle forze produttive che fanno esplodere i rapporti di produzione – sia stata in seguito parzialmente corretta non verrà qui discusso più dettagliatamente (vedi il mio articolo "Sui Rimescolatori e sui darwinisti sociali"). Ma la questione della barriera esterna continuava ad essere in gran parte ignorata. Sebbene il raggiungimento del limite interno della valorizzazione del capitale richieda molto più tempo di quanto credessero i critici del valore, e venga interrotto da numerosi movimenti contrari, il movimento verso il limite naturale è praticamente inarrestabile, e sta accelerando costantemente senza alcun significativo momento di ritardo. Ci sono molte indicazioni che la barriera naturale verrà raggiunta più rapidamente di quella interna e pertanto, di fatto, innescherà una crisi globale fondamentale. Questo significa che - oggi, dopo quarant'anni - la critica del potere produttivo sia giusta rispetto alla critica del valore?  Non necessariamente. Solo la descrizione della logica della valorizzazione del valore - così come viene fornita dalla critica del valore - rimane in grado di rivelare quali sono le cause interne della folle coazione capitalistica a crescere. Nessuna varietà di discorso ecologico ha mai realmente affrontato questo problema, e anche quegli ecologisti che si classificano come radicalmente critici del capitalismo hanno sempre un'idea assai superficiale del rapporto esistente tra capitalismo e crisi ambientale (i ricchi, o le multinazionali, o le lobby sono sempre da biasimare per tutto). Uno dei contributi più importanti che la critica del valore può dare oggi è quello di mostrare che dalla catastrofe ambientale non c'è salvezza, a meno che la società mondiale non si ritiri dal lavoro astratto e dalla produzione di merci, dal denaro e dal valore. Ma questo tema ha ricevuto uno scarso trattamento nella critica del valore. E neppure l'autonomia delle tecnologie. Il feticismo moderno – il mondo che l'uomo stesso costruisce ma dal quale si trova a essere dominato – consiste essenzialmente di quelle che sono le due metà: il valore generato dal lato astratto del lavoro e la mega-macchina tecnologica. Storicamente, esse sono emerse insieme, senza che sia stata definita una chiara priorità. Per la ricerca futura, pertanto, esiste un ampio campo, che allo stesso tempo sarà anche di grande rilevanza per le azioni attuali. Citiamo brevemente alcune altre aree rispetto alle quali la critica del valore deve essere ulteriormente sviluppata, anziché rimanere pietrificata come un dogma.

La critica dell'Illuminismo, sviluppata dalla critica del valore a partire dalla fine degli anni '90, ha rappresentato anch’essa un duro colpo per “la piscina delle rane”. In pratica, tutta la sinistra si era sempre vista come l'erede di un Illuminismo che doveva essere completato, oppure che, al massimo, aveva accettato la "Dialettica dell'Illuminismo" come se fosse una spiegazione. L'alternativa all'Illuminismo non poteva essere altro che il contro-illuminismo, la reazione, il Romanticismo, con tutto ciò che ne era emerso, specialmente in Germania. Kurz e gli altri hanno dimostrato invece che, per molti aspetti, l'Illuminismo non aveva significato il superamento del dominio, quanto piuttosto l'interiorizzazione di esso, e costituiva pertanto un'affermazione delle categorie capitaliste. L'Illuminismo non era stato - come spesso si sostiene - in seguito pervertito nel suo opposto, ma semmai, proprio a partire dalle sue stesse fondamenta, aveva significato un'intensificazione del dominio; come dimostra il Panopticon di Bentham. Ma sebbene quest'ultimo fosse già stato denunciato come repressivo da altri autori, come Michel Foucault, la critica del valore ha scoperto un nucleo repressivo anche nel Santo dell'Illuminismo, in Immanuel Kant. Le citazioni di Kant, riportate nei corrispondenti scritti di critica del valore sono effettivamente in grado di farci riflettere sull'immagine diffusa del "filosofo della libertà", per il quale l'illuminismo significava l'uscita dell'uomo dalla sua immaturità autoinflitta. Sono state citate anche numerose dichiarazioni razziste, antisemite e misogine da parte di rinomati pensatori illuministi, e si è concluso che l'oppressione delle donne, degli ebrei e dei non bianchi – vale a dire il dominio del soggetto maschile bianco-occidentale (MWW, Male, White, Western), come lo ha descritto Kurz – c’è davvero stata. Solo che si è realmente affermata nella seconda metà del Settecento, nel momento in cui si è "basata" su delle forme più antiche. Ma qui è stato superato il limite. Questo ha di certo potuto essere giusto, ma all'inizio, quando serviva a distinguere una nuova teoria, rispetto alla solita confusione di considerazioni fatte di "entrambi/e", per mezzo di affermazioni drastiche in modo da evitare che ci si perdesse nel solito mercato di irrilevanti opinioni quotidiane. Ma in una fase successiva si sarebbe invece reso assolutamente necessario il passaggio a un approccio più sfumato. La lettura dell'Illuminismo, fatta da Kurz è – e questo è il minimo che si possa dire – altamente selettiva. Nella sua opera, i pensatori illuministi francesi non vengono menzionati, sebbene Denis Diderot, ad esempio, fosse decisamente un anticolonialista e un antirazzista (Addendum al "Viaggio di Bougainville", 1772). Il fatto che la Rivoluzione francese, tra le altre sue conquiste, abbia proclamato l'emancipazione degli ebrei e abolito la schiavitù nelle colonie non viene menzionato. E neppure l'abolizione della tortura e della pena di morte in alcuni paesi. Kurz, in realtà (così come fanno Lohoff e Lewed nei loro corrispondenti articoli sulla Crisi [*10]) si occupa solo di Kant. Le sue tendenze repressive vengono giustamente sottolineate. Ma Kant scriveva anche che: «Nel regno dei fini, tutto ha un prezzo o una dignità. Tutto ciò che ha un prezzo può essere sostituito da qualcos'altro, come equivalente; ciò che, invece, è al di sopra di ogni prezzo, e quindi non ha equivalenti, ha una dignità»; e questo viene volutamente ignorato. La mia obiezione non significa affatto che Kant fosse un filosofo della libertà, ma piuttosto che egli era ambivalente, come lo era in generale l'Illuminismo. Altre parti della critica illuminista risultano ancora meno convincenti. L'antisemitismo, il razzismo e il patriarcato dovrebbero essere una mera conseguenza dell'Illuminismo? Nella modernità capitalistica, questi fenomeni hanno assunto nuove forme, e sono stati spesso innestati su forme più antiche, ma non sono pure invenzioni della modernità. L'Illuminismo ha fornito sia le munizioni per la riforma, e spesso ha così esacerbato il razzismo, l'antisemitismo e il patriarcato, sia anche gli argomenti contro tutto questo. Una tale dialettica va sempre rammentata. Vent'anni dopo la Rivoluzione francese, nella maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale gli ebrei vennero formalmente emancipati. Nelle colonie, la schiavitù fu sempre più criticata e rapidamente abolita, e i diritti delle donne aumentarono (ad esempio, l'introduzione del divorzio durante la Rivoluzione francese). Certo, è vero che tutte queste libertà sono state accompagnate da nuove forme di schiavitù interiorizzata, come l'etica del lavoro. Ma ciò è sufficiente a farci vedere l'Illuminismo come se fosse solo uno slancio per l'affermazione della società dei valori, piuttosto che come un campo di battaglia? Anche la critica dell'Illuminismo ebbe inizio nella seconda metà del XVIII secolo, e spesso prese la forma del contro-illuminismo, vale  a dire del romanticismo, del tradizionalismo, dell'irrazionalismo e del ritorno alla religione. È chiaro che la critica del valore non ha assolutamente niente a che fare con ciò. L'Illuminismo e il Contro-Illuminismo sono stati trattati, un po' prematuramente, come fratelli nemici, come due poli dialettici che vanno superati insieme. Ma su quali basi? È questa la domanda che posi a Kurz nel 2003, nel mio articolo sulla crisi "Una questione di punti di vista. Commenti sulle critiche dell'Illuminismo". Se tanto il pre-moderno quanto il moderno non possono servire quale punto di partenza, su che cosa dovrebbe realmente basarsi la promessa di una "anti-modernità emancipatrice"? Non sembra del tutto sospeso in aria tutto ciò? Il focus sulla critica dell'Illuminismo, è andato di pari passo con Krisis, e poi, ben presto, con EXIT!, con un'attenzione sempre maggiore alla scissione-valore. In EXIT!, non si può più usare il termine "critica del valore"; bisogna che sia "critica della scissione del valore", e dacché questa parola è così difficile da gestire, ne è stata tratta l'abbreviazione WAK, nel più bel stile GDR. È difficile accettare un testo di EXIT! che non menzioni più volte la scissione-valore in ogni pagina [*11], e chi non lo fa appartiene senza dubbio a una "lega maschile".

E tuttavia, all'inizio, la scissione-valore era un'idea estremamente importante: il valore non comprende tutto; né ogni attività crea valore. La produzione di valore può avvenire solo perché numerose attività, soprattutto nel campo della riproduzione, si svolgono in modo non commerciale. Esse non rappresentano il "lavoro" nel senso capitalistico, ma non sono affatto esenti dalla forma merce. Costituiscono come un "lato oscuro" della produzione di valore, un prerequisito silenzioso. Coloro che lo fanno sono generalmente inferiori ed esclusi da quei "diritti" che la partecipazione alla produzione di valore fornisce, ad esempio, al lavoratore classico. Tutte queste attività vengono in gran parte svolte da delle donne, e nella società moderna la subordinazione delle donne si basa principalmente sul fatto che, finché sono attive nel settore riproduttivo, non svolgono "lavoro" e non producono "valore". La scissione-valore è stata presentata in diversi articoli chiave in Krisis (1992). [*12] Di conseguenza, questa idea non è stata sviluppata e differenziata, ad esempio, attraverso studi storici, ma piuttosto, nella sua versione originale, è diventata un dogma che è stato arbitrariamente supportato con dati empirici solo quando era appropriato. In tale forma, è stato poi utilizzato in scambi banali nelle controversie nell'ambito della critica del valore, passando spesso direttamente dall'apice dell'astrazione categoriale alle ostilità personali, e alle meschine lotte di potere. Soprattutto, però, è stata evitata la discussione di un punto di vista importante: sotto il capitalismo ci deve essere una produzione di plusvalore (livello categoriale), ma questa non deve necessariamente essere effettuata da un proletariato industriale impoverito, come è stato al suo inizio (a livello empirico), ma può verificarsi anche altrove, ad esempio con i lavoratori ad alta tecnologia (e questo è esattamente ciò che la critica del valore ha sempre sostenuto contro i marxisti tradizionali, che erano tutti alla ricerca di un successore del vecchio proletariato). Allo stesso modo, il valore ha bisogno di un'ampia sfera di attività senza valore per funzionare, ma questa sfera non è limitata all'attività delle donne in casa e in famiglia. Se da un lato tutto ciò continua a giocare un ruolo molto importante, dall'altro ci sono anche altre sfere prive di valore, senza le quali la produzione di valore collasserebbe. Ciò include, da un lato, l'addomesticamento (di entrambi i sessi), che ha continuato a essere diffuso fino alla metà del XX secolo, e, dall'altro, tutto ciò che la sociologia chiama "economia del dono", che include l'amicizia, l'amore e l'aiuto del vicinato, le associazioni, ecc.: tutte attività che non sempre sono del tutto "disinteressate", ma che comunque non sono basate su uno scambio di equivalenti (se invitiamo dei conoscenti a cena, speriamo che ci invitino di nuovo, ma non siamo "sicuri" di farlo – non è uno scambio). Spesso, questo "lato oscuro" della società dei valori ha una connotazione di genere – ma non sempre, e necessariamente. E avviene sempre meno. Sono poche le cose cambiate così tanto negli ultimi decenni, come la posizione delle donne nella società, soprattutto grazie alla loro libertà di non essere più vincolate dal ruolo di madre. La funzione categoriale di "donna", così come la funzione categoriale di "lavoratrice", è stata in gran parte staccata dai supporti empirici. Le numerose donne nello Stato e nel mondo degli affari non possono più essere definite come delle semplici "eccezioni". I termini "selvaggità del patriarcato" (come il titolo di un articolo di Scholz del 1998) e "casalinga degli uomini" riconoscono la discrepanza tra teoria ed empirismo, ma non affrontano realmente l'allontanamento della logica feticistica dai suoi portatori storici come una delle caratteristiche principali dell'ultima fase della socializzazione dei valori – come i marxisti che non riescono a dire addio al proletariato, e puntano trionfalmente ai "veri" proletari che riescono ancora a trovare da qualche parte. In questo modo, WAK riesce a definirsi, contemporaneamente, femminista mentre si pone al di sopra di tutte le femministe ordinarie che non raggiungono il livello di astrazione di WAK. Le polemiche sono rivolte in particolare ad autori come Silvia Federici o Maria Mies, che a volte suggeriscono comportamenti competitivi. In cambio, vengono presentate intuizioni rivoluzionarie, come la scoperta che esiste anche un "livello meso" tra il livello astratto delle categorie e il livello empirico. Chi l'avrebbe mai immaginato! Anche qui sono state soffocate le opportunità di diffondere idee di valore critico, e questo al di là dello stagno delle rane della sinistra radicale. Ci si potrebbe anche chiedere cosa Kurz pensasse veramente della WAK, non importa quanto ferocemente lo abbia difeso esternamente. È sorprendente come nel suo primo scritto significativo dopo la scissione di Krisis (che si suppone si basasse essenzialmente sul rifiuto della WAK da parte degli altri membri di Krisis), vale a dire "La sostanza del capitale", così come ne "Il Capitale mondo" (2005), pubblicato poco dopo, e infine nel suo ultimo lavoro, "Denaro senza valore", scritto otto anni dopo, la separazione dei valori non abbia quasi alcun ruolo. In questi scritti, in cui Kurz è senza dubbio nel suo elemento, e dà il meglio di sé, fa bene a fare a meno di questa categoria. In altri scritti, sembra quasi costringersi a metterla costantemente in gioco. C'è forse un corto tra essoterico ed esoterico?

Affrontiamo brevemente un altro problema: la questione del rapporto tra l'universalismo del valore e le particolarità delle singole culture (in senso lato). Come in particolare, Kurz ha più volte spiegato, oggi il valore prevale negli angoli più remoti del mondo e determina – direttamente o indirettamente - le azioni di tutti. Che uno sia un beduino nel deserto o un broker a New York, ormai la sua è solo come una "verniciatura" esteriore. Il valore ha creato un mondo unico. Ma è davvero così? Anche se la logica del valore ha avuto un impatto dalle montagne afghane alla giungla amazzonica, ci sono delle differenze significative nel modo in cui le singole culture reagiscono a essa. Sembra anche dubbio se davvero in realtà - come suggeriscono le analisi dell'Islam presentate principalmente da Rest-Krisis [*13] - le attuali manifestazioni di quelle che sono le vecchie ideologie, come l'Islam, vengano largamente influenzate dagli standard occidentali; o che rappresentino quanto meno una reazione ad essi. O che, per esempio, Ernst Jünger o Carl Schmitt abbiano più responsabilità per l'Islam politico, di quanto ce l'abbiano i wahhabiti o il testo del Corano. Tutto ciò, ricordando che dire, per esempio, quando si tratta di critica del valore, che la Cina di oggi può, in qualche modo, avere più cose in comune con la Cina del periodo T'ang, piuttosto che con gli Stati Uniti di oggi, viene subito considerato "culturalismo". Inizialmente, questo anti-culturalismo aveva anche delle buone ragioni. Nel suo importante libro, "La terza via alla guerra civile" (1996), Lohoff dimostrò in maniere convincente che il collasso della Jugoslavia e la crudele guerra civile che ne seguì non era stato - come le pagine tedesche ritraevano allegramente - una sorta di "guerra tribale", che andava avanti da secoli, tra popoli nemici l'uno dell'altro, alcuni dei quali erano civilizzati mentre altri erano "barbari". Lohoff ha mostrato quali sono state tutte le fasi del fallimento della "modernizzazione della ripresa" in Jugoslavia, e come le tensioni tra le diverse culture e lingue del paese - che avrebbero potuto esistere al livello pacifico della Svizzera - si siano intensificate fino al punto di assassinio. Ma anche in questo caso, l'enfasi, su un fattore che in precedenza era stato ampiamente ignorato dal pubblico, era necessariamente troppo unilaterale per poter essere ascoltata. Più tardi, nella sua "Guerra per l'ordine mondiale", Kurz ha certamente riconosciuto alle ideologie e alle religioni il loro peso; ma forse non abbastanza, soprattutto per quel che riguarda la forma concreta di barbarie e di decadenza legata alla crisi. Una certa sottovalutazione della sfera simbolico-culturale, potrebbe rappresentare un residuo invincibile del vecchio "materialismo" marxista. Così, se da un lato sopravvaluta l'omogeneità dei temi odierni legati alla merce, dall'altro lato, la critica del valore forse ne esagera l'assoluta differenza rispetto all'epoca premoderna. Un altro dogma da mettere in discussione è quello del rifiuto totale di tutti i cosiddetti concetti “ontologizzanti” o “antropologizzanti”. Questo finisce per mettere in discussione l'esistenza di costanti nella storia dell'uomo. Così come il corpo umano rimane sempre essenzialmente lo stesso a livello biologico, non esiste forse anche una struttura pulsionale, uno stato psicologico dell'essere umano che pur essendo molto plastico, lo è solo entro certi limiti? Come fare altrimenti a spiegare che praticamente, quelle che sono caratteristiche tra di esse simili appaiono ripetutamente in tutte le società (per esempio, le gerarchie sociali, le gerarchie di genere, le forme di religione, le forme indipendenti di mediazione (il feticismo, la guerra, la xenofobia)? E perciò, il rifiuto dell'ipotesi di un “fondamento della natura” - che viene condannato come “essenzialismo” - non è forse parte dell'illusione moderna secondo la quale l'uomo potrebbe creare sé stesso senza alcun limite, mentre invece egli trova i suoi limiti nella natura esterna o interna? Non è forse questa la famosa “illusione della vitalità”, così strettamente legata alla società di mercato? Ad esempio, l'aggressività e la distruttività, ivi compreso "l'istinto di morte", sono sempre e solo le conseguenze di una società repressiva - di per sé evitabile - oppure in parte nascono invece da un conflitto tra la struttura pulsionale istintuale individuale e la società in generale? Ed ecco che così, dopo 38 anni, sorge spontanea la domanda: la Critica del Valore ha costituito un approccio che, dopo un inizio brillante, è quasi scomparso dalla scena, e che alla fine ha avuto ben poca influenza sulla storia, oppure è proprio la Critica del Valore, dopo aver avuto alcuni limiti, come se fosse cresciuta troppo a causa di una malattia infantile, ora può finalmente sviluppare tutto il suo potenziale e occupare un posto saldo e duraturo nell'analisi critica della società?

- Anselm Jappe - Settembre 2024 -

NOTE:

1 -  Nel 2004 gli è stato dedicato un intero numero di "Historical Materialism".

2 - Per caso, ho appreso che Kurz non è "degno di citazione" neanche in una tesi di abilitazione tedesca in linguistica, quindi non è considerato serio; ma Postone ed io lo siamo! Si può solo invidiare il ruolo di "convitato di pietra" che è toccato Kurz, una non-persona a cui nessun accademico serio vuole stringere la mano!

3 - Molti pensatori della sinistra radicale, così come le loro scuole, cercano di coniugare questi due approcci, come faceva Michel Foucault, il quale si vantava di essere simultaneamente un «attivista politico e un professore al Collège de France». O Toni Negri, che insegnava "Dottrina dello Stato" all'Università di Padova mentre lottava contro lo Stato. Si tratta di una saggezza strategica per sfruttare ogni opportunità, o di uno sforzo opportunistico per giocare su tutti i campi? Il giudizio spetta a ciascuno di noi!

4 - Anche se a volte, quanto meno con "EXIT!" residuale, è questa che diventa quasi l'unica attività critica; denigrare costantemente qualsiasi attività pratica degli altri, dal momento che non corrisponde esattamente alla purezza della critica del valore – e nessuna attività lo è, né può esserlo – rappresenta un conforto narcisistico per il fatto di saperlo meglio di tutti gli altri, ma poi questo finisce per completare la propria emarginazione.

5 -  Assai spesso, la metafora del messaggio nella bottiglia viene associata alla teoria critica, soprattutto in relazione ad Adorno. Serve come consolazione a coloro i quali, per le loro idee, non vedono altra opzione se non quella di diffonderle come se fossero un messaggio in una bottiglia. Ma per Adorno - almeno in parte, e soprattutto nei suoi ultimi anni - si trattò come di una forma di flirt: fu lui stesso a far di tutto per dare alla sua teoria la massima risonanza possibile, e per decenni è stato uno degli autori socialmente critici più letti al mondo; e qui pertanto non si può più parlare di messaggi in bottiglia! Possiamo dire che, più che altro, è stato proprio il carattere "assai poco praticabile" della teoria critica a spingere i suoi protagonisti ad aver fiducia, in ultima analisi, proprio nell'università (o, come avvenne nel caso di Marcuse, nell'università e nell'attivismo).

6 - Tuttavia, non è affatto certo che  aver impedito la diffusione della critica del valore siano state le divisioni, le esclusioni, le controversie interne e le maledizioni; dal momento che abbiamo degli esempi storici di movimenti che invece hanno tratto forza proprio da tali pratiche.

7 - Articolo in due parti apparso sui numeri n. 1 (2004) e n. 2 (2005) di "EXIT!".

8 - La morte relativamente prematura di Kurz, avvenuta nel 2012 a causa di un errore medico, ha di certo contribuito anche al declino della diffusione della critica del valore, dato che - visibilmente - non c'era nessuno che in seguito sarebbe stato in grado di continuare la critica allo stesso livello. Soprattutto sul campo della critica dell'economia politica, e della sua applicazione all'analisi delle forme contemporanee della crisi del capitalismo, nessuno ha prodotto qualcosa di notevole. Questo ha portato a criticare a livello di apparenza, in maniera sempre più moralizzante e superficiale, i soggetti capitalistici. Il suo ultimo libro dimostra che il potere creativo di Kurz non conosceva sosta, e che avrebbe avuto sicuramente molto altro da dire. Ma i problemi qui menzionati erano già sorti molto tempo fa, ed essenzialmente erano inerenti ai punti di partenza della critica del valore. Gli aspetti discutibili della critica del valore che ho evidenziato nel resto di questo articolo, sono sempre stati esposti e portati avanti con particolare zelo da Kurz, in tutte le fasi del suo sviluppo.

9 -  Robert Kurz (1994): "Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale" Mimesis

10 - Si veda, Robert Kurz (2003): "ONTOLOGIA NEGATIVA. Gli oscurantisti dell'Illuminismo e la metafisica storica della Modernità" in: Krisis 26; si può leggere, in italiano in:
     https://francosenia.blogspot.com/2015/02/individui-identici.html e segg.

11 - Ho omesso di menzionare l'intraducibilità della parola in altre lingue.

12 - Roswitha Scholz (1992): "Il valore è l'uomo. Tesi sulla socializzazione dei valori e delle relazioni di genere", in: Krisis 12;
Robert Kurz (1992): "Feticismo di genere. Cenni sulla logica della femminilità e della mascolinità", in: Krisis 12


13 - Ad esempio, Norbert Trenkle (2015): Damn Modern. Perché l'Islam non può essere spiegato con la religione", Krisis


fonte: UTOPIAS pòsCAPITALISTAS

1 commento:

Anonimo ha detto...

Il mondo è predatorio: costringe ad evolvere per sopravvivere. Chi si aggrappa ai suoi altari è morto. Tutte le categorie capitaliste sono strumenti, né buoni, né cattivi. Chi li feticizza è morto. Feticizzare la WAK la uccide. Utilizzarla liberamente e creativamente è vitale. Vale anche per le altre categorie. Kurz ha avuto il coraggio di abbattere i suoi altari mentali ma non è andato fino in fondo. La sua scoperta è notevole, basta non farne un feticcio. Perché le scoperte davvero rivoluzionarie sono altre.
Accumulare capitale è impossibile? È una fake, finchè si crede nella sostanza del wertabspaltung. È ironico che proprio la WAK ci creda!
La WAK ha ragione, ma vede il debito, la moneta ed il valore dissociato come se fosse il male in sé!
Non è necessario far ritornare il dentrificio nel tubetto. Basta cambiare prospettiva radicalmente.
Te credo, che Jappe abbia eluso la questione del partito. Non sarebbe che dire, finchè rimane nel paradigma ottocento - settecentesco. Non c’è nulla da scoprire per la necessaria rivoluzione. Gli elementi per capire ciò che conta ci sono già. Il problema è cognitivo generazionale. Quando c’è una rivoluzione, come quella darwiniana, ci vogliono in media tre generazioni prima di prenderne davvero atto. La questione del partito è ottocentesca. Porsela rivela proprio il limite cognitivo.