Attualità di Carlo Levi
- di Giorgio Agamben -
L’apparizione di Paura della libertà nella cultura italiana dell’immediato dopoguerra ha qualcosa di inspiegabile, simile a quei blocchi erratici di granito che i ghiacciai, ritirandosi, abbandonano in posizioni così inaspettate che gli uomini non riescono a considerarle senza sospetto e stupore. Non s’intende certo giustificare, con questo, il silenzio e la stolida ostilità che – con qualche rara ma significativa eccezione – accolsero il libro che, scritto fra il 1939 e 1940 nella solitudine delle spiagge atlantiche di Le Baule a sud del Finistère, fu pubblicato solo nel 1946, un anno dopo il successo di Cristo si è fermato a Eboli. E non è certo un caso se La paura non fu mai ristampata come libro a sé dopo la seconda edizione del 1964, sebbene l’autore avesse esplicitamente dichiarato che questo «poema filosofico» era «il più importante» dei suoi libri e Calvino avesse ricordato che questo «libro raro nella nostra letteratura» era anche quello «da cui deve cominciare ogni discorso su Carlo Levi». Quando non fu semplicemente ignorato, esso fu usato per denunciare l’“ideologia” di Levi e poi, surrettiziamente, come un’arma per demolire l’altrimenti inattaccabile testimonianza di Cristo si è fermato a Eboli. È difficile leggere oggi senza imbarazzo, ancora in una monografia pubblicata nei primi anni Settanta, che l’opera di Levi «è priva di ogni originalità quanto ad analisi politica» e «tutta condizionata da una visione mistica e decadente… che sceglie, fra le direzioni possibili aperte a un intellettuale borghese, quella di un’opposizione anarcoide e libertaria, un mitico ritorno alla natura e alla spontaneità, nel quale si proietta il bisogno di una redenzione, di fatto individuale e solitaria, dei guasti di una civiltà moderna svalorizzata nella sua globalità». L’imbarazzo diventa disagio, quando si scopre che, già venti anni prima, una delle voci più autorevoli della cultura marxista italiana aveva potuto scrivere che «tutto nel Levi si riduce ad una spiegazione metafisica, misticheggiante, alla ipostatizzazione della “entità” campagna e della “entità” città» e che la sua visione del mondo contadino non è che «l’enunciazione di una serie di tesi senza consistenza teorica, nelle quali si rivela chiaramente come sia estraneo al Levi ogni proposito di spiegare storicisticamente le ragioni dell’inferiorità sociale del Mezzogiorno e quindi di individuare le forze storiche che, oggi, possono spingere a soluzione la questione meridionale».
Non si sa se sia qui da biasimare l’ignoranza (l’uso degli aggettivi “decadente” e “misticheggiante” come categorie critiche) o, piuttosto, la malafede – cioè l’inaccettabile consapevolezza che il pensiero di Levi era costitutivamente e implacabilmente politico. In ogni caso, è probabilmente a entrambe le ragioni che si deve la mancanza, nella ricezione di Paura della libertà, di ogni indagine filosoficamente e filologicamente attendibile: le fonti sono suggerite a casaccio e senza alcuna documentazione: di volta in volta Jung, Lawrence, Bergson (in genere nella formula stereotipa «vitalismo bergsoniano»), Huizinga, Spengler (cioè il repertorio del fantoccio irrazionalista confezionato dalla cultura italiana progressista) e poi i nomi, più ovvi, di Gobetti, di Salvemini, di Giustino Fortunato, di Gramsci. Non molto più sottile è la lettura di Levi in un libro che fu incautamente salutato come una innovativa rottura rispetto alla tradizione marxista: se l’autore, che non menziona mai Paura della libertà, riconosce al Cristo il merito di «collocare opportunamente dentro una prospettiva sociologicamente estremamente concreta» il mondo contadino, le categorie critiche che orientano l’analisi non sono meno grossolane: «decadente superomismo» e «fortissima carica estetizzante e irrazionale». L’alterità e quasi la ripugnanza (nel significato etimologico del verbo repugnare: resistere combattendo) del pensiero di Levi nella cultura italiana del suo tempo sono, insieme, irrecusabili e difficili da motivare. Un esempio istruttivo: Levi ha dichiarato più volte il suo debito rispetto a Piero Gobetti, che ha frequentato intensamente a Torino, collaborando, in verità molto saltuariamente, alla sua rivista «Rivoluzione liberale». Basta tuttavia sfogliare i primi numeri della rivista per notare che non vi è qui nulla o quasi che sia possibile ritrovare in Paura della libertà o in Cristo si è fermato a Eboli. Un confronto fra i nomi che compaiono nel Manifesto di «Rivoluzione liberale» e quelli sparsi nel testo del poema filosofico di Levi è eloquente: da una parte, nell’ordine, Machiavelli, Alfieri, Luigi Ornato, Santarosa, Balbo, Giovanni Maria Bertini, Bertrando Spaventa, Gioberti, Mazzini, Marx, Lassalle, Giolitti; dall’altra: Dante, Boccaccio, Giotto, Petrarca, San Paolo, Vossler, Cézanne, La Bruyère, Alain, De Maistre, Milton, Cimabue e, citati senza nominarli, Campanella, Lope de Vega, Éluard. Non che non si possano riconoscere in alcuni dei punti programmatici di Gobetti (la critica dell’astrattismo dei demagoghi in nome di un «esame dei problemi presenti nella loro genesi e nelle loro relazioni con gli elementi tradizionali della vita italiana» – ma non certo la rivendicazione di una «coscienza moderna dello stato» fondata sulle «formule del liberismo classico all’inglese») e ancor più in quelli certamente più radicali della rivista fondata da Carlo Rosselli a Parigi nel 1929, «Giustizia e libertà», cui Levi collaborò, dei temi per lui sensibili; tuttavia è come se l’autore li guardasse da un altro luogo – remoto e, insieme, vicinissimo, arcaico e tuttavia urgente nel cuore stesso del presente. Questo luogo è la testimonianza. È stato Calvino il primo a segnalarne puntualmente il toponimo: «Levi è il testimone di un altro tempo all’interno del nostro tempo, è l’ambasciatore di un altro mondo all’interno del nostro mondo». Se si lascia da parte la metafora, certamente infelice, dell’ambasciatore, ciò significa che compito preliminare a ogni lettura di Levi è una buona definizione della testimonianza. Che cosa significa testimoniare? E di che cosa e per chi Levi testimonia? Come precisa subito Calvino, di un altro mondo, «di un mondo che vive fuori della storia di fronte al mondo che vive nella storia»; ma il fatto è che, per Levi, tutti i tempi e tutti i mondi sono contemporanei ed egli identifica anzi in questa «contemporaneità dei tempi» il carattere fondamentale della cultura italiana: «la presenza e persistenza in essa, nella sua vita attuale, nel suo più quotidiano e fuggevole presente, di tutti i tempi, di tutta la storia, e di quello che è prima della storia stessa».
È singolare che, negli stessi anni in cui escono i suoi libri, un altro omonimo ebreo torinese, Primo Levi, pubblichi Se questo è un uomo. I due libri, apparentemente lontani, coincidono in un punto essenziale: opera di non letterati (medico e pittore Carlo, chimico Primo), sono entrambi integralmente testimonianze – di un mondo così intimo e interno al nostro mondo da suscitare scandalo e intolleranza (Se questo è un uomo fu rifiutato nel 1946 dall’editore Einaudi, su parere di Natalia Ginzburg). Un anno prima della morte, in un libro che è forse il suo capolavoro, I sommersi e i salvati, Primo Levi torna a interrogarsi sulla sua testimonianza e ne fornisce una definizione paradossale. Il vero testimone, egli scrive, è il musulmano (così si chiamavano, nel gergo di Auschwitz, i deportati che, appena entrati nel campo, avevano perduto ogni umana consapevolezza e ogni capacità di sopravvivere), colui che in nessun caso potrebbe testimoniare è l’unico possibile testimone. Si rifletta sul rigore di questo paradosso: testimoniare, per Levi, può soltanto significare: portare alla parola un’impossibilità di parlare, parlare per coloro che non potevano né possono parlare. Il soggetto della testimonianza è, cioè, costitutivamente scisso: egli deve, come uomo, portarsi al di qua dell’umano, testimoniare di un tempo o di un luogo in cui non era umano. Non si potrebbe dare una migliore definizione del gesto di Carlo Levi. Le parole, tante volte citate, che egli mette sulle labbra dei contadini di Aliano («Noi non siamo cristiani, non siamo uomini») vanno prese alla lettera: la sua grandezza è che egli, come il suo omonimo a Auschwitz, è riuscito a testimoniare per questi non-uomini, ha toccato quella terra che nemmeno Cristo aveva toccato, ha portato alla memoria e alla lingua un immemorabile mutismo. Anche Paura della libertà è, a suo modo, una testimonianza. È Levi stesso, nella prefazione, a indicarcene l’oggetto: «Fu allora che la crisi che aduggiava la vita d’Europa da decenni, e che si era manifestata in tutte le scissioni, i problemi, le difficoltà, le crudeltà, gli eroismi e la noia del nostro tempo, scoppiò verso la sua soluzione in catastrofe». Sulla spiaggia di Le Baule, mentre le divisioni corazzate tedesche corrono le pianure della Polonia e si preparano a invadere la Francia, l’autore trentasettenne cerca di fissare lo sguardo su una crisi giunta alla sua apocalisse, cioè alla rivelazione estrema e folgorata di una civiltà che sta per scomparire nell’abisso, inghiottita dalle sue stesse contraddizioni. Se riesce così arduo rintracciarne le fonti, è perché il libro ha dovuto innanzitutto farne piazza pulita: esso si situa non alla sorgente, ma alla foce, la sua acqua freatica sgorga e bulica dal nulla e nel nulla. In questo senso occorre prendere sul serio la definizione del libro come un «poema filosofico», che unisce la freschezza e la densità dei frammenti presocratici alla quasi barocca philosophia sensibus demonstrata di Campanella (con Alain, il solo filosofo citato nel testo). Il progetto era ambizioso, inteso a proporre – come suggerisce Calvino – «le grandi linee d’una concezione del mondo, d’una reinterpretazione della storia». «Vi doveva essere» ricorda l’autore nella prefazione «una parte introduttiva, che mostrasse le cause comuni e profonde della crisi, e le ricercasse, più che in questo o quell’avvenimento particolare, nell’animo stesso dell’uomo; e molti capitoli o libri sui singoli argomenti, dalla politica (con un’analisi critica delle ideologie liberali e socialiste) all’arte (con una storia dell’arte moderna), alla scienza, alla filosofia, alla religione, alla tecnica, alla vita sociale, al costume ecc.». Circostanze esterne, tra cui l’invasione tedesca della Francia e la fuga di Levi in Italia nel 1941, impedirono la conclusione del progetto; ma gli otto capitoli portati a termine, all’incirca la parte introduttiva dell’opera progettata, anticipano e condensano in una sorta di ricapitolazione sommativa l’intero disegno. Come ricorda l’autore nella prefazione, «c’era una teoria del nazismo, anche se il nazismo non è una sola volta chiamato per nome; c’era una teoria dello Stato e della libertà; c’era una estetica, una teoria della religione e del peccato». E tutto questo era scritto “dal di dentro”, in una sorta di discesa all’inferno («avevo cercato di penetrare nell’interno di quel mondo che descrivevo, di immergermi in quell’ambiguo inferno»). Tanto più necessario sarà provarsi a fissare, in questa materia contratta e bruciante, dei picchetti o dei punti di riferimento per orientare il lettore in quella che Calvino ha definito, con una metafora dantesca, «una selva di figure allegoriche, di animali, di simboli». Levi parte, quasi a apertura di pagina, da un’opposizione certamente non scontata: quella fra il sacro e il religioso. «Non potremo intendere nulla di umano se non partiremo dal senso del sacro… né potremo intendere nulla di sociale se non partiremo dal senso del religioso, questo figlio poco rispettoso del sacro». L’opposizione acquista il suo senso solo se la si riconduce a quella, più vasta, fra l’esperienza inesprimibile dell’indifferenziato preindividuale e quella, più astratta e socialmente articolata, del differenziato e dell’individuale. «Esiste un indistinto originario, comune agli uomini tutti, fluente nell’eternità, natura di ogni aspetto del mondo, spirito di ogni essere nel mondo, memoria di ogni tempo del mondo». Se il sacro è «il senso, e il terrore, della trascendenza dell’indistinto», la religione è «la sostituzione all’inesprimibile indifferenziato di simboli, di immagini reali e concrete, in modo da relegare il sacro fuori dalla coscienza». In essa il sacro si fa legge, l’anarchia diventa organizzazione e tirannide. Con un’intuizione certamente nutrita non dalla lettura di Jung o di Spengler, ma da quella dei grandi sociologi francesi, da Mauss a Durkheim, Levi identifica nel sacrificio il dispositivo fondamentale della religione. «Qual è il processo di ogni religione? Mutare il sacro in sacrificale: togliergli il carattere di inesprimibilità, trasformandolo in fatti e parole: far dei miti, riti; dell’informe turgore, un uccello sacramentale; del desiderio, matrimonio; del suicidio sacro, omicidio consacrato». Come Hubert e Mauss avevano affermato nel loro Essai sur la nature et la fonction du sacrifice («Non esiste religione in cui le modalità del sacrificio non siano compresenti»), anche per Levi non vi è religione senza sacrificio: «i due termini potrebbero addirittura considerarsi come equivalenti… poiché sacrificio significa insieme atto sacro e uccisione del sacro».
Attraverso il sacrificio, la religione tende essenzialmente alla creazione di idoli. «Al sacro indistinto la religione sostituisce un nome e una forma divina che ci impediscono di perderci in esso, ci vietano il suicidio e l’anarchia, ci consentono di vivere». Ma il prezzo da pagare è l’uccisione sacramentale, che ci rende il dio estraneo e lontano, lo trasforma in un idolo: «La forma divina e adorata perde, pel fatto stesso dell’adorazione, i suoi contorni e la sua efficacia, e ritorna là donde fu originata. Perché il dio viva, è necessario che il distacco dal sacro avvenga in modo reale; che il dio stesso venga non solo creato e adorato, ma odiato e ucciso. Solo l’uccisione sacramentale del dio permette al dio di esistere: egli sarà tanto più reale quanto meno si confonderà con noi, ma sarà separato, lontano, estraneo, straniero. E non v’è altro modo di renderlo tale, che uccidendolo secondo un rito. Per questo, quando un dio appare in veste umana è sempre sotto quella di uno straniero, di un viandante, di un uomo d’altra terra; per questo gli stranieri sono dèi per quelle genti a cui essi si rivelano per la prima volta. Per questo l’ospite è sacro e non si può chiedere il suo nome, e il nemico, lo straniero, è anche sacro, ma nell’opposto senso, e dev’essere ucciso. Hostis e hostia sono una cosa sola. Tutto è ambiguo in questi atti, perché il rapporto col sacro, da cui essi nascono, è l’ambiguità stessa». È probabile che Levi traesse questa consapevolezza della costitutiva ambiguità del sacro non soltanto da Durkheim (un intero capitolo delle sue Formes élémentaires de la vie religieuse è dedicato alla «ambiguità della nozione di sacro»), ma anche e non meno dalla sua esperienza di etnologo sul campo fra i contadini di Aliano, custodi di una religiosità primigenia. Ma l’impareggiabile attualità di Levi sta nel fatto che i termini delle opposizioni che egli mette in gioco (sacro/sacrificio; indifferenziato/differenziato) non sono per lui sostanze, ma processi, non «entità», come nelle parole del suo malevolo critico, ma correnti che percorrono in senso inverso il campo di tensioni dell’umano. Ciò significa che, in ultima analisi, veramente umani non sono mai gli estremi – o i due poli – dell’opposizione, ma solo ciò che si tiene fra di essi in un precario, decisivo equilibrio. «Ogni uomo nasce dal caos, e può riperdersi nel caos: viene dalla massa per differenziarsi, e può perdere forma e nella massa riassorbirsi. Ma i soli momenti vivi nei singoli uomini, i soli periodi di alta civiltà nella storia, sono quelli in cui i due opposti processi di differenziazione e di indifferenziazione trovano un punto di mediazione e coesistono nell’atto creatore». Con un termine che egli distingue tanto dalla «natura» indifferenziata che dall’«azione» individuale, Levi definisce «avvenimento» (Diano parlerà qualche anno dopo di «evento») «il prodotto dell’attività umana in quanto creatrice, ricca cioè nello stesso momento di differenziazione e di indifferenziazione, di individualità e di universalità, tanto più universale quanto più singola e intensa, libera insieme e necessaria – comprensibile a tutti per loro comune indistinta natura; trascendente a ciascuno in quanto distinto e individuale – ma a cui tutti, nella loro individuazione, liberamente partecipano e portano a coscienza». E, con un’espressione che ricorda gli affetti spinoziani e anticipa la teoria dell’emozione che Gilbert Simondon avrebbe svolto qualche decennio dopo, egli chiama «passione» il punto di contatto fra l’individuo e l’universale indifferenziato. Per questo «non serve essere liberi dalle passioni, ma liberi nelle passioni». È di questa appassionata libertà che gli uomini hanno innanzitutto paura, cercando rifugio nell’informe comunità o nell’astratto individualismo, nell’idolatria o nell’ateismo, entrambi mortali. Perfettamente solidale del processo sacrificale che culmina nella creazione degli idoli, è quello che sfocia nella costruzione dell’idolo sociale per eccellenza: lo Stato. A questa critica sono dedicati, oltre a buona parte del primo, due interi capitoli: Schiavitù e Massa. La divinizzazione dello Stato (e la servitù che ne risulta) è «il segno insieme del bisogno di rapporti umani veri, e della incapacità a istituirli liberamente – della natura sacra di questi rapporti e dell’incapacità a differenziarli senza inaridirli: è il segno soprattutto del terrore dell’uomo che è nell’uomo. Terrore di sé, che ne fa la più radicata delle idolatrie, poiché la fonte ne è sempre presente, la più mostruosa perché tutta umana». Per questo l’idolatria statalista «durerà finché non sarà finita l’infanzia sociale, finché ogni uomo, guardando in se stesso, non ritroverà, nella propria complessità, tutto lo Stato, e, nella propria libertà, la sua necessità». Il polo opposto di questa servitù, altrettanto sterile, è quello che Levi chiama l’individualismo astratto, «dove è perso ogni senso di comunità e non solo lo Stato non è deificato, ma neppure esiste, poiché non esistono passioni». La schiavitù, che tanto scandalizza i moderni quando la vedono istituzionalizzata nel mondo antico, non è un episodio nella storia dell’umanità, ma è consustanziale allo Stato e, come tale, continua a esistere ovunque in forme e modalità diverse: «lo Stato-idolo non può esistere se non attraverso un processo di alienazione e di sacrificio sociale, se non attraverso la schiavitù. Schiavitù e divinità dello Stato sono una cosa sola: la divinità dello Stato è schiavitù, e la schiavitù non potrebbe esistere senza divinità dello Stato: poiché il dio e la vittima coincidono».
Ogni movimento di liberazione, che non sia consapevole di questo nesso inscindibile fra idolatria statuale e schiavitù, è condannato al fallimento: «questa» scrive Levi con una intuizione preziosa «è la debolezza vera dei movimenti proletari, che hanno talvolta amato, non senza ragione, intitolarsi, con nome ben poco augurale, spartachiani: e, in genere, di tutti quei movimenti, radicalissimi d’apparenza, ma che non escono dai limiti religiosi della civiltà a cui cercano di contrapporsi». Lo stesso nesso che lega lo Stato alla schiavitù, lo unisce inseparabilmente alla guerra: «Sempre il senso idolatrico dello Stato richiede la guerra, totale e continua, una con lo Stato e la sua esistenza, inscindibile dalla vita del Dio. Solo lo stato di libertà, è stato di pace: dove è la vera pace, là è la vera libertà, perché gli idoli non vivono senza guerra, ma gli uomini vivono soltanto nella pace». Strettamente connessi allo Stato e alla guerra sono due fenomeni che raggiungono il loro estremo sviluppo nella modernità: la massa e le grandi città. Con una consapevolezza che manca nelle ricorrenti critiche della società di massa, Levi vede nella guerra il nucleo originario della massa. «La guerra, opera di uomini, ma staccata dagli uomini e incomprensibilmente divina, sacrificio necessario alla divinità dello stato, non soltanto rompe certi determinati rapporti umani, ma tende a riportare gli uomini alla indifferenziazione che precede tutti i rapporti… Le grandi guerre creano di per sé la massa: riformano massa di quello che già era determinato, e ridanno vita informe a quello che era cristallizzato. Ogni uomo esce dalla sua casa, abbandona un suo mondo unico, si identifica con tutti gli uomini e, perduta ogni personalità, si riduce a quello che è comune e indistinto: il sangue e la morte». A differenza dei paesi e dei comuni che hanno segnato la storia italiana, le grandi agglomerazioni sviluppano e riproducono questa massa senza forma. Simile all’immagine del Leviatano di Hobbes, la grande città «vive di una vita sua, della vita di una persona enorme, con un suo grande corpo dove scorre un sangue fatto di uomini inconsapevoli… Le strade, le case non finiscono, ma confinano con terre altrettanto indefinite: è il luogo di una gente senza storia e senza ricordi, sradicata da ogni determinazione, e dal preciso colore di una particolare speranza». E la massificazione non investe soltanto la forma delle città: «Anche il lavoro si divinizza, in tecnicismo e organizzazione. La fabbrica ingigantita diventa inconoscibile a coloro che ne vivono, fatti, di collaboratori, strumenti. La tecnica, che è l’arte del fare e dell’inventare umano, diventa tecnicismo segreto, non più arte, magia». E, in ultimo, anche la lingua si trasforma: «la massa, di per sé ineffabile e silenziosa, può, in verità, solo esprimersi attraverso lo Stato… in luogo della spontanea lingua politica e poetica, fatta di infiniti gesti e parole, e di rapporti sempre rinnovati, nasce un linguaggio sacro, di manifestazioni di folla, sull’altare delle piazze, sotto le are degli arenghi, dove, come nelle classiche preghiere, la folla adorante si limita alle risposte cadenzate… Dove la massa è veramente anonima, cioè incapace di nominarsi e di parlare, la lingua sacra dello Stato sostituisce ai nomi che hanno perso il loro senso, i suoi nomi religiosi e simbolici: e sono numeri, tessere, bandiere, bracciali, divise, insegne, galloni, decorazioni, carte d’identità, espressioni rituali della fondamentale idolatrata uniformità e della idolatrata uniforme organizzazione». Ciò che i suoi critici non potevano accettare non era tanto la condanna dello Stato-idolo, ma il fatto che Levi contrapponesse a questo un’altra idea di stato, lo «stato di libertà» (scritto significativamente con la minuscola). Che questa non fosse per lui una formula generica, risulta con chiarezza dalle pagine che precedono immediatamente la conclusione del Cristo e in una serie di articoli pubblicati in quegli stessi anni. Qui egli si rende lucidamente conto che, se non si fosse messa in questione l’idea stessa di Stato, l’antifascismo avrebbe ricostruito senza modificarlo quel mondo da cui il fascismo era nato. «In un paese di piccola borghesia come l’Italia, e nel quale le ideologie piccolo-borghesi sono andate contagiando anche le classi popolari cittadine, purtroppo è probabile che le nuove istituzioni che seguiranno al fascismo, e anche le più estreme e rivoluzionarie fra esse, saranno riportate a riaffermare, in modi diversi, quelle ideologie: ricreeranno uno Stato altrettanto, e forse più, lontano dalla vita, idolatrico e astratto, perpetueranno e peggioreranno, sotto nuovi nomi e nuove bandiere, l’eterno fascismo italiano… Bisogna che noi ci rendiamo capaci di pensare e di creare un nuovo Stato, che non può essere né quello fascista, né quello liberale, né quello comunista, forme tutte diverse e sostanzialmente identiche della stessa religione statale. Dobbiamo ripensare ai fondamenti stessi dell’idea di Stato: al concetto di individuo che ne è la base; e al tradizionale concetto giuridico e astratto di individuo, dobbiamo sostituire un nuovo concetto, che esprima la realtà vivente, che abolisca la invalicabile trascendenza di individuo e di Stato».
E qui si vede quale fosse la lezione, genuinamente politica e tutt’altro che «misticheggiante», che Levi aveva tratto dalla sua esperienza degli anni di confino in Lucania: «Questo capovolgimento della politica, che va inconsapevolmente maturando, è implicito nella civiltà contadina, ed è l’unica strada che ci permetterà di uscire dal giro vizioso di fascismo e antifascismo. Questa strada si chiama autonomia. Lo Stato non può essere che l’insieme di infinite autonomie, una organica federazione. Per i contadini, la cellula dello Stato, quella sola per cui essi potranno partecipare alla molteplice vita collettiva, non può essere che il comune rurale autonomo… Ma l’autonomia del comune rurale non potrà esistere senza l’autonomia delle fabbriche, delle scuole, delle città, di tutte le forme della vita sociale». Un articolo pubblicato su «La nazione del popolo» (11 giugno 1945) precisa senza possibile equivoco la radicale trasformazione che Levi ha in mente, il cui modello va cercato nella tradizione dei consigli operai e della democrazia diretta, e non in quella della democrazia rappresentativa. Egli vede nei Comitati di liberazione nazionale, allora, ancora per poco, vivi e funzionanti, lo strumento possibile di questo stato autonomistico: «I Comitati di liberazione nazionale, per essere vitali, devono corrispondere a una collettività umana ben differenziata e limitata: CLN di azienda, di fabbrica, di fattoria, di comune rurale, di comune cittadino, di scuola, di provincia, di regione, su su fino agli organismi centrali: ma in essi non hanno posto o senso altre forme di organizzazione, per sé ottime, a carattere orizzontale o verticale, come i sindacati di categoria, i combattenti, le associazioni dei giovani e delle donne, le associazioni professionali, assistenziali ecc., i cui compiti e la cui natura sono diversi, e non si identificano con una determinata cellula dello Stato, né si legano a un luogo né a un’attività o tradizione collettiva specifica. Sulla molteplicità differenziata dei CLN, rappresentanti della vita reale del popolo nei luoghi stessi della sua attività, si deve costruire organicamente, fin da oggi, lo Stato di domani. Questa è la sola via per risolvere, con la presente crisi di governo, l’antica crisi dello Stato italiano». Dopo la caduta del governo Parri nel dicembre del 1945, puntualmente descritta ne L’Orologio, i partiti politici e il potere economico si mossero in una direzione esattamente opposta a quella proposta da Levi: uno Stato centralizzato e sindacati e associazioni di categoria altrettanto centralizzati. Quanto ai contadini, le cui sorti gli stavano così a cuore, il problema fu risolto nel modo più veloce e violento possibile: non con l’autonomia dei comuni rurali, ma con la loro deportazione in massa verso le fabbriche del Nord. L’Italia, che Levi aveva intravisto e così mirabilmente descritto nelle pagine dei suoi libri, è esistita solo forse per pochi mesi – ma, proprio per questo, essa non ha perso nulla della sua attualità. Negli stessi anni in cui Levi pubblicava le sue riflessioni, in un piccolo paese del Friuli, Casarsa, un giovane ventiduenne fondava una singolarissima istituzione, l’Academiuta di lenga furlana e dava privatamente alle stampe i quattro numeri di uno stroligut (piccolo almanacco o lunarietto) interamente scritto in friulano. Nei testi programmatici in prosa che si alternano alle poesie, il friulano è rivendicato non come un dialetto vernacolare, «non per scrivere due o tre stupidate per far ridere, o per raccontare due o tre vecchie storie del suo paese, ma con l’ambizione di dire cose più alte, magari difficili: se qualcuno, insomma, credesse di esprimersi meglio con il dialetto della sua terra, più nuovo, più fresco, più forte che non la lingua nazionale imparata nei libri (pi nouf, pi fresc, pi fuart si no la lenga nasional imparada tai libris)». Anche l’italiano – continua il manifesto intitolato Dialet, lenga e stil – è stato un tempo un dialetto del latino, fino a quando Dante decise di scrivere in volgare i suoi versi. Si rifletta alla sobria, incomparabile novità del gesto del giovane Pasolini, che in una regione percorsa dalle armate tedesche in fuga e bombardata dall’aviazione alleata, decide di guardare ostinatamente non alla lingua nazionale, ma al dialetto, non alla politica statuale che cominciava appena a organizzarsi nelle grandi città, ma ai ragazzi e ai contadini di Casarsa. Egli sta facendo sul piano della poesia e della lingua, esattamente quello che Levi propone per la società italiana nel suo insieme. Non stupirà, pertanto, di trovare anche qui la stessa professione di autonomia, intesa come «coincidenza del Friuli con la propria natura»: «al di là di tutti i pretesti economici, geografici, storici, patriottici, ecc. ecc. qui si viene a parlare di civiltà. I fini pratici di un decentramento si rivelano come il mezzo per sfruttare non solo le risorse economiche di ogni regione, ma anche il patrimonio di coscienza che ogni Regione coincidente con una propria civiltà possiede». Di fronte alla cecità di una classe dirigente che, tanto a destra che a sinistra dello schieramento politico, continua a muoversi servilmente nella direzione indicata dallo sviluppo capitalistico, è possibile che le parole di Levi e del giovane Pasolini, allora decisamente intempestive, trovino proprio oggi l’ora della loro leggibilità.
- GIORGIO AGAMBEN - Prefazione a "Paura della libertà", di Carlo Levi, Neri Pozza, 2018
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