La storia dei vampiri "veri", uomini e donne risorti, prima del mito letterario. Quando la resurrezione era una sciagura. C'è stato un tempo in cui i vampiri popolavano l'Europa centrorientale ed erano pronti a invadere il resto del continente. Così, almeno, dichiaravano i giornali, per i quali nel Natale del 1731 i morti sarebbero risorti e avrebbero deciso di muovere guerra ai vivi. Come un fulmine, la paura si diffuse in ogni dove, moltiplicando le testimonianze di aggressioni perpetrate da cadaveri animati, che venivano poi scoperti indecomposti nelle tombe. Unica soluzione era allora trafiggerne il cuore, tagliarne la testa e affidarne i resti a roghi purificatori, i quali avrebbero rischiarato le angosciose notti invernali d'Europa per ancora un ventennio. Fino alla primavera del 1755, quando, piuttosto che con la forza, quei personaggi infernali sarebbero stati sconfitti con l'astuzia. Il vampiro sarebbe, così, entrato nel mito letterario, che dopo quasi un secolo e mezzo di incubazione, avrebbe dato forma alla figura di Dracula. Risalendo il corso del tempo, questo libro indaga le origini europee della credenza nei vampiri, della quale gli eventi del XVIII secolo furono solo una tardiva manifestazione. Da tal punto di vista, se essi e le successive rielaborazioni letterarie corrispondono alla preistoria del vampirismo 'à la Dracula', il volume rivela la preistoria della preistoria di Dracula. Un passato remoto, ma, per alcuni versi, tremendamente prossimo. Si fa presto a dire «vampiro», cancellando le differenze tra i personaggi che per secoli hanno popolato i nostri incubi. Donde la scelta, in questo volume, di optare per una personale versione di un genere letterario capace di intrecciare narrazione e spiegazione: una storia naturale, dunque, che ripercorra le principali figure dell’immaginario notturno dell’Europa centrorientale. Non un semplice dizionario infernale ma una vera e propria caccia vampirica, che, partendo dal tardo autunno del 1731, quando emersero le prime inquietanti notizie, segua il morire e il riaffacciarsi a vita della natura e dello spirito, conducendo alla primavera del 1755, allorché si intervenne per porre fine all’ondata di panico. Dal buio alla luce, dal freddo nelle ossa al tepore sulla pelle: l’affondo sulle singole tipologie di presenze occulte è chiave per ricostruire, con taglio storico-critico, alcuni momenti dell’evoluzione del nostro modo di pensare e di essere. Per modellare, cioè, una storia epistemologica, la quale, piuttosto che interrogarsi su enti che oggi saremmo indotti a considerare reali, si sviluppi intorno a creature ormai rubricate come fantastiche. Questo volume è quindi, paradossalmente, scritto intorno al nulla: la storia di oggetti inesistenti e di ciò che essi rivelano di noi. Sebbene, per citare H. P. Lovecraft, «non esista una netta distinzione tra il reale e l’irreale, e […] tutte le cose devono la loro apparenza soltanto ai fallaci mezzi mentali e psichici di cui l’individuo è dotato, attraverso i quali prende coscienza del mondo».
(dal risvolto di copertina di Francesco Paolo de Ceglia, "Vampyr. Storia naturale della resurrezione". Einaudi, pagg. 416, € 34)
Attenti ai vampiri nell’Europa dei lumi
- Tra verità & leggenda. Nel Natale del 1731, racconta Francesco Paolo de Ceglia, divampò da un paesino dei Balcani la paura di figure assetate di sangue: un fenomeno da indagare.. -
di Luigi Mascilli Migliorini
Anche i vampiri, gente dal rapporto assai disinvolto con il tempo, hanno una storia. Ce la racconta Francesco Paolo de Ceglia, storico della scienza di cui vale la pena di ricordare il libro sul Segreto di San Gennaro, non meno insolito e non meno intrigante di quello che ora racconta fatti e soprattutto misfatti di Dracula e della sua, non esigua compagnia. Come per ogni storia che si rispetti abbiamo una data e un luogo di nascita: il Natale del 1731 a Medvedja, un oscuro villaggio della Serbia quasi ai confini del Kosovo, che – come tutti i villaggi da quelle parti – aveva diritto oltre al suo nome di matrice albanese, ad un nome tedesco Mettwett, e ad uno serbo Medveda. Comunque lo si scrivesse e lo si pronunciasse il nome di quel paesino sperduto nei Balcani, così sperduto che i primi che ne raccontarono i terribili eventi accaduti che vi si erano svolti si confusero e lo collocarono in Ungheria, significava “luogo degli orsi”: sinistro, e in qualche modo profetico. Fu, qui, infatti che già dagli ultimi mesi del 1731 cominciò a circolare la storia di un tal Arnold Paole, un soldato venuto a contatto con un vampiro “nella Serbia turca”, che, dopo essere morto, era poi resuscitato vampirizzando a sua volta e uccidendo almeno quattro persone. Un paletto conficcato nel cuore di un cadavere che, all’esumazione, appariva stranamente incorrotto, e il conseguente cerimoniale consistente nella bruciatura del corpo fino a ridurlo in cenere, non parvero raggiungere i risultati sperati sicché, nei giorni appunto del Santo Natale, venne inviato a Medvedja un uomo di scienza, il chirurgo militare Johann Fluckinger. E da quel momento non solo non si arrivò ad una soluzione ma addirittura prese inizio, “l’anno dei vampiri”, una esplosione di morboso vampirismo che attraversò lungo l’arco di qualche decennio tutta l’Europa, ragionevole e composta, dei Lumi. E già, perché come spiega con grande intelligenza l’autore, non c’è niente di peggio che una scienza che si mescola all’universo opaco e inafferrabile del magico, tanto più quando si tratta di una scienza, che per quanto aggiornata e meticolosa potesse e volesse mostrarsi, essa pure operava con strumenti precari. Era, insomma, una scienza giovane, fin troppo fresca di acquisizioni teoriche e di sperimentazioni e fin troppo orgogliosa di quelle sue recenti e ancor precarie conquiste conoscitive.
Accadde, dunque, che tanto più sull’onda di quei primi inesplicabili avvenimenti, si volle nei mesi e negli anni successivi indagare quel “mondo magico”, come lo avrebbe chiamato poi Ernesto De Martino, antropologo giustamente caro a de Ceglia, abitato da figure le più diverse – vampiri, mezzi vampiri, vampiri neonati, mezzosangue e demoni meridiani – più queste figure uscivano dal limbo dell’incubo o del mistero e acquistavano il diritto all’esistenza. Insomma, più si studiava, si accumulavano informazioni di “resurrezioni” e di morti viventi, se ne proponevano tassonomie adatte a immaginare l’efficacia mirata di un possibile intervento, più quello che per secoli era rimasto ad attendere sul confine onirico tra sogno e realtà, sul limitare impreciso tra i vivi e i morti, varcato senza timore, quasi con dolcezza, da Ulisse come da Enea, da Persefone come da Creusa, entrava nel tempo binario dell’Europa della ragione e vi gettava orrore e scompiglio. È la ragione che genera mostri, scrive ad un certo punto l’autore, con un consapevole controcanto a Goya, e un diretto riferimento a Voltaire che, nell’accavallarsi da ogni parte di raccapriccianti notizie di vampiri, sogghignava: «più se ne bruciavano e più se ne trovavano».
A dar forza a questa indagine sul confine per eccellenza – la morte, la vita – aiutavano altre storie di confini, quelli che sempre l’Europa della ragione provava allora a fissare, con determinazione non meno caparbia, nei vasti spazi verso oriente, che il lento arretrarsi della potenza ottomana lasciava più liberi e più indeterminati. Il teatro della stagione dei vampiri, e della sua successiva tradizione letteraria e poi cinematografica è, infatti, soprattutto quello che chiamiamo Europa centrale o balcanica, tra Ungheria, Romania, Moldavia e dintorni. Si può, anzi definire una sorta di “geo-teologia” che divide il nostro continente non solo tra Est e Ovest, ma anche tra Nord e Sud, secondo stratificazioni di diverse e successive evangelizzazioni e ibridazioni religiose e lasciando – come si legge nelle pagine che la raccontano – ai latini (e dunque agli eredi più diretti del mondo classico e ai discepoli più vicini alla Cristianità in declinazione romana) il merito di aver meglio e da più tempo imparato ad addomesticare la morte. Perché, qualsiasi ne sia la geografia teologica, l’Europa di quel tempo è fatta di comunità assediate dai morti, troppo ignoto nelle cause e troppo presente nei modi essendo il passaggio ad un mondo altro. Come troppo buie e troppo lunghe erano le notti di uomini e donne incalzati, in quella oscurità, da fantasmi della paura e del dubbio: una infinita crisi della presenza, per riprendere ancora Ernesto De Martino, a cui i Lumi sembravano in quel momento aggiungere altre dubbi e altre paure. Oppure no? Perché forse, ma solamente forse, dietro quei Lumi ragionevoli fino alla rigidità, c’era anche la speranza di una luce vera e duratura.
- Luigi Mascilli Migliorini - Pubblicato su Domenica del 16/7/2023
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