Il tema della funzione, del destino e del «nome» del padre attraversa l’intero arco del pensiero occidentale, e da sempre sollecita l’esercizio di saperi e discipline differenti, non ultime la psicoanalisi, l’antropologia e le altre scienze sociali. Nella sua ricerca appassionante e rigorosa, Yan Thomas sceglie di mantenersi nei confini della storia del diritto romano: la «morte del padre» che dà il titolo alla sua indagine non è in questo caso né una metafora né un’allegoria ma la nuda, cruda e letterale uccisione del padre, quella ingombrante figura che a Roma poneva in stato di soggezione politica, personale e patrimoniale ogni uomo che si trovasse nella condizione di figlio. Essere figli maschi di un genitore maschio ancora in vita implicava infatti l’integrale dipendenza dalla sua autorità, da quella patria potestas che comportava il diritto di vita e di morte; di qui la tentazione di ottenere l’indipendenza nella maniera più estrema e radicale. Questo libro non è, in ogni caso, un catalogo di efferatezze, ma un’inchiesta storico-giuridica sulla sovrapposizione tra un rapporto di dominio stabilito giuridicamente e il legame biologico della filiazione. Ponendo al centro della ricerca le operazioni giuridiche, Yan Thomas propone un’archeologia delle tecniche costruite e prodotte dai giuristi per garantire la trasmissione dei patrimoni e la continuità delle generazioni. Roma, nelle pagine di Yan Thomas, è una città dominata tanto dalla paura dei padri almeno quanto dalla violenza dei figli. Il parricidio è conseguentemente il crimine eminente del diritto romano: non un affare privato, relegato a un diritto penale «ordinario», ma il reato politico per eccellenza, un vero e proprio crimine di Stato. In esso e attraverso esso i domini, apparentemente separati, della famiglia e della politica si indeterminano, pubblico e privato si confessano indissolubilmente intrecciati.
(dal risvolto di copertina di: Yan Thomas, "La morte del padre". Quodlibet, a cura di Valerio Marotta. Prefazione di Maurice Godelier - pp.368, €24)
Tu quoque fili mi
- di Roberto Esposito -
Su un punto storici, letterati, giuristi romani sembrano concordare: a Roma antica i padri temevano costantemente di essere uccisi. Non da nemici, avversari, schiavi in rivolta. Ma da propri figli, sotto il proprio tetto, magari nel proprio letto. Come si spiega simile ossessione? Dove nasce e come si radica nel cuore della società romana? Una risposta, suggestiva e convincente, la troviamo adesso nel testo postumo del grande giurista francese Yan Thomas, tradotto da Quodlibet col titolo "La morte del padre. Sul crimine del parricidio nella Roma antica", a cura di Valerio Marotta e Michele Spanò e con una prefazione di Maurice Godelier. Per penetrare di questo enigma dobbiamo spogliarci del presupposto moderno che il parricidio sia un semplice delitto, magari più odioso degli altri perché infrange un rapporto di sangue. Non è così. A Roma la vita umana non è una categoria unica che riguarda tutti allo stesso modo, dal momento che la società è divisa in stati assai differenti che determinano il destino degli individui in una soluzione insolubile tra funzione famigliare e ruolo politico.
Per intendere il significato pubblico del parricidio, dobbiamo vedere in esso l'immagine rovesciata del diritto di vita e di morte che il padre romano esercitava sui figli maschi. Un diritto unico, assoluto, riscontrabile nel mondo antico solo a Roma. Non bisogna confonderlo con il dominio che il capofamiglia esercitava sugli altri membri della casa - oltre che sugli schiavi, sulla moglie e le figlie femmine. Certo, anche la moglie poteva essere uccisa dal marito, ma solo se sorpresa in flagrante adulterio, così come le figlie se in compagnia di un amante. E non era raro che gli schiavi, considerati alla stregua di oggetti d'uso, potessero essere soppressi, anche per futili motivi. Ma l'esecuzione del figlio maschio era altra cosa. Incondizionata perché decisa secondo l'insindacabile volontà del padre, che poteva anche venderlo e ripudiarlo, privandolo di ogni bene. Avendogli fatto la grazia di vivere, quando lo aveva innalzato al grado di cittadino romano, poteva anche togliergliela, precipitandolo nella morte.
Per strapparsi da questa condizione di assoluta dipendenza giuridica, ed anche economica, il figlio poteva decidere di liberarsi dal potere paterno nell'unico modo possibile - sostituendosi a lui. In questo modo cruento il figlio afferrava il proprio destino, anticipando il passaggio biologico dalla dipendenza all'autonomia. Morto il pater, tale titolo passava direttamente a lui, che diveniva non solo persona a tutti gli effetti, ma "erede di sé stesso". Come spiega assai bene Valerio Marotta, per accedere allo status di padre a Roma non occorreva avere dei figli. Bastava non avere più padre, ereditando così le sue prerogative. Sul piano giuridico poteva essere pater anche un bambino impubere, a condizione che il padre fosse morto. L'accecante potenza del diritto romano sta in questa logica formale inesorabile, che noi moderni non riusciamo a concepire. E che pure è alla base di un'organizzazione dei rapporti sociali le cui risonanze, nonostante i duemila anni di distanza, ancora avvertiamo.
In particolare sul rapporto tra uomini e donne. Sappiamo che Bachofen ha distinto, e contrapposto, un ordine delle madri - il cosiddetto matriarcato - a quello dei padri, immaginando che si succedessero nel tempo. In verità, essi, pur differenziati in maniera rigidissima, vivevano all'interno dello stesso regime giuridico. La cosa più singolare è che questa divisione passava non solo nella società romana, che sottometteva le mogli ai mariti, ma nello stesso corpo delle donne, quando queste erano incinte. L'embrione che portavano dentro apparteneva ad esse sul piano biologico, ma al padre su quello giuridico. Ciò spiega il doppio nome che lo definiva - partus e venter. Mentre il primo si materializzava al momento del parto, il secondo traeva origine dal concepimento. Da quel momento il figlio era di diritto del padre, anche se viveva nel corpo della madre. Questo valeva anche se il padre fosse morto prima della sua nascita, visto che il nutrimento del nascituro derivava dal patrimonio paterno. Ciò - questa linea patrilineare rispetto alla quale la madre non poteva rivendicare alcun diritto - consentiva ai parenti del padre di esercitare un controllo sul corpo della madre vedova, vietando l'aborto. Quel figlio, reso cittadino dal padre nel momento in cui lo aveva concepito, apparteneva alla città di Roma.
A questa straordinaria architettura del potere romano - trasmesso dal padre al figlio - attentava il parricida. Perciò era punito con un supplizio tanto orrendo - era gettato nel Tevere vivo in un sacco insieme a un serpente e a un gallo - da dover essere purificato con un rito collettivo per lavare una macchia impressa nel corpo stesso del res pubblica.
- Roberto Esposito - Pubblicato su Robinson del 22/7/2023 -
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