Nata nel 2014 come rivista dedicata alla fantascienza di origine perlopiù nigeriana, Omenana si è presto trasformata in una piattaforma di riferimento per gli appassionati di narrativa speculativa proveniente tanto dall'Africa quanto dalla diaspora africana. In questa raccolta, i curatori hanno selezionato sedici tra i migliori racconti apparsi sulla rivista negli ultimi anni: storie di creature mitiche, vendicatori bionici, terre desertificate, città sotterranee, improvvisi superpoteri e maledizioni, in una tensione continua e rivitalizzante tra lontananze, assenze e ritorni. A uscirne è un caleidoscopio di voci provenienti da luoghi tra loro distanti come - oltre alla stessa Nigeria - il Kenya e il Sudafrica, il Gabon e lo Zimbabwe, in un viaggio tra futuri alternativi e mondi paralleli che attraversa fantascienza e realismo magico, orrore soprannaturale e leggende urbane, mitologie antiche e afro-futurismi prossimi venturi. Intoduzione di Mazi Nwonwu.
(dal risvolto di copertina di: AUTORI VARI, "Omenana. Racconti fantastici dal continente africano". Prefazione di Djarah Kan, introduzione di Mazi Nwonwu, traduzione di Giulia Lenti NERO Pagine 204, €20)
Fantafrica. Via dall'Occidente verso le stelle
- di Matteo Trevisani -
Una donna che ruba i corpi e le esistenze dei suoi amanti. Uomini che scappano — forse da sempre — dalla prigionia delle loro migrazioni, in un destino che li rincorre attraverso le generazioni. Una giovane donna che prega i suoi antenati di proteggerla dallo schianto, quando finalmente si lancerà da una rupe per dimostrare chi è davvero. Ragazze invisibili, intelligenze artificiali a uso degli scrittori, viaggiatori del tempo pieni di ripensamenti che dicono sempre la cosa sbagliata. Sono solo alcune delle trame che testimoniano la straordinaria ricchezza presente in Omenana. Racconti fantastici dal continente africano (traduzione di Giulia Lenti, Nero), libro che porta in Italia una nuova antologia di autrici e autori africani di fantascienza e, più in generale, di speculative fiction. Come ricorda Djarah Kan nella prefazione al volume, omenana (che è anche il nome di una seguita rivista letteraria nigeriana, fondata nel 2014 a Lagos, che ospita racconti di scrittori africani della diaspora e del continente) è una parola igbo che sta a indicare sia ciò che resta della tradizione dopo il passaggio del colonialismo sia il divino nelle sue manifestazioni soprannaturali. In effetti, posto che bisognerebbe parlare di culture tradizionali al plurale, data l’enorme varietà di lingue, religioni, mitologie e popoli del continente africano, il legame con l’antica storia culturale e con i suoi miti fondativi rende le fantascienze africane uniche nel loro genere, come se ci fosse, nel loro nucleo originario, già una predisposizione alla metamorfosi e alla mescolanza ontologica, al connubio tra reami diversi, tra i vivi e i morti, tra il passato e il futuro.
Leggere i racconti di Omenana offre uno strano senso di spaesamento: ci si ritrova catapultati, senza appigli, nel cuore pulsante e immaginifico di un continente intero. Superato lo stordimento iniziale si ha l’impressione che una storia comune sia il suo punto di partenza, che da lì si inseguano visioni di un futuro plurale. Sono racconti traboccanti, a volte caotici o paradossali, di leggi inviolabili e disobbedienze, mutazioni genetiche e rituali antichi, di un progresso tecnologico che non è mai salvezza, in cui l’Africa e il destino dei suoi popoli sono punto di partenza e sintesi ultima. Non è peraltro la prima volta che i lettori italiani hanno la possibilità di conoscere l’inventiva fantascientifica africana: Futuri uniti d’Africa (a cura di Francesco Verso, traduzioni di Stefano Ternavasio e Francesca Secci, Future Fiction) è un’antologia che due anni fa ha avuto il merito di far scoprire al pubblico italiano differenti voci dal continente molto diverse tra di loro per profondità speculativa, stile e argomenti.
Nell’introduzione alla raccolta, si evince come per l’Africa la fantascienza sia molto di più che un semplice genere letterario: lo scrittore Wole Talabi scrive di come la science fiction possa (e forse debba) giocare un ruolo decisivo nello sviluppo tecnologico dei Paesi africani, mettendo i giovani nella condizione di immaginare e desiderare un futuro originale, che non sia preso in prestito dall’Occidente e dalle sue narrazioni, che non sia cioè più usato come arma nei confronti dei popoli. La fantascienza avrebbe quindi il compito di formare i loro futuri scienziati e ingegneri. Il rapporto con l’Occidente e la colonizzazione è infatti il sottotesto doloroso da cui germogliano molti dei racconti delle autrici e degli autori, pure se non vivono e non sono nati in Africa. Anche se la storia coloniale getta la sua ombra sulle pagine, la possibilità stessa di una fantascienza africana indipendente dalle altre ha il potere di decolonizzarne l’immaginario, usando temi come quelli familiari — ben noti all’Occidente ma declinati in maniera differente — da cui possono emergere nuovi significati. In Futuri uniti d’Africa, uno dei racconti migliori dell’antologia, Istantanee virtuali della scrittrice motswana Tlotlo Tsamaase (originaria del Botswana, una delle autrici più conosciute in Italia), l’aldilà è un luogo computerizzato. Lì una figlia, nata da una «Struttura di Nascita» di vetro e acciaio che decide della vita e della morte di tutti, cerca di entrare in contatto con una madre che non la riconosce: la sua anima non ha abbastanza valuta da spendere per farsi ricordare, come se alcune delle maledizioni della vita possano proseguire anche dopo la morte. Temi familiari e riflessioni anticolonialiste sono presenti anche nella raccolta di racconti Totem nelle nostre ossa (traduzioni di Maria Michela Dichio e Roberta Loi, Future Fiction, 2022) e soprattutto nella novella Silenziosa sfiorisce la pelle (traduzione di Giulia Lenti, Zona 42, 2022), della stessa Tsamaase, in cui l’autrice mette in scena una storia di resistenza e oppressione mescolando realismo magico e surrealismo, con efficaci slanci lirici. La protagonista, che sta lentamente perdendo il colore della pelle, metafora della perdita dell’identità originaria, si trova con la sua compagna a dover salvare il treno che i morti del suo Paese usano per dire addio ai loro cari, messo in pericolo da una città che l’ha esclusa: «Combatterò la morte di cui è avvolto il mio nome. Salirò sul treno e diventerò ciò che siamo. È una menzogna, stare vicino ai morti non ci distrugge, ci sveglia, ci rende vivi».
È un farsi carico delle storie di quei luoghi per trasportarle nel mondo nuovo, al costo di sacrificare quanto abbiamo di più caro. È una responsabilità che investe anche il protagonista del racconto L’incantatore di satelliti di Mame Bougouma Diene (traduzione di Stefano Ternavasio, Moscabianca, 2022) che ascolta il grido di dolore della sua terra, un tempo continente lussureggiante, che viene trafitta da un raggio che ne depreda le risorse. Anche se nel mondo occidentale la fantascienza africana sta vivendo oggi un momento di grande visibilità, sarebbe un errore ritenerla soltanto un fenomeno recente. Sebbene le sue origini possano essere fatte risalire ai primi del Novecento, fu negli anni Settanta con la corrente dell’Afrofuturismo che nacque negli Stati Uniti l’esigenza di porre l’Africa al centro delle riflessioni sul futuro dell’umanità intera. Fu un momento di grande sperimentazione artistica, dove personalità eccezionali come la scrittrice Octavia E. Butler, il musicista Sun Ra e il pittore Jean-Michel Basquiat trasportavano preoccupazioni, identità e istanze propriamente afroamericane al centro del dibattito artistico occidentale, in un delirio psichedelico e performativo di assoluta libertà espressiva. Gli alieni e i robot della fantascienza classica entravano nel dibattito coloniale assumendo su di sé il ruolo dell’assolutamente Altro e dello schiavo, e il continente africano — con il suo immenso corpus di leggende tradizionali di divinità, spiriti della natura e antenati — tornava a essere la fucina di mitologie che per anni avrebbe forgiato le armi per gli artisti che ora raccolgono quell’eredità. Oggi, una delle scrittrici più conosciute e premiate del genere, l’americana Nnedi Okorafor, più che «afrofuturista» si definisce «africanfuturista», sottolineando il bisogno di spostare del tutto il baricentro delle narrazioni fantascientifiche dagli Stati Uniti all’Africa, decolonizzandone lo sguardo. E in effetti il romanzo Laguna (traduzione di Chiara Reali, Zona 42, 2017) nasce come reazione alla visione del film District 9 del regista sudafricano Neill Blomkamp, in cui la rappresentazione dei nigeriani non era stata, secondo l’autrice, all’altezza delle aspettative. Come nel film, in Laguna si descrive un’invasione aliena a Lagos, principale città nigeriana (la capitale è Abuja). La città, che coincide perfettamente con la laguna del titolo, è l’epicentro di una rivelazione che scuoterà tutto il pianeta. La protagonista è una biologa marina, Adaora, che entrando in contatto con le entità extraterrestri e con una loro manifestazione, a cui dà il nome di Ayodele, si fa portavoce delle loro istanze in una Nigeria in agitazione. È un romanzo polifonico e coraggioso sull’accettazione, il futuro e l’identità, il cui ritmo è quello sincopato di un testo hip hop che parla di alieni in cerca di una nuova casa e di antiche divinità yoruba dei crocevia. Il percorso contrario si trova a fare invece la protagonista che dà il titolo a Binti, altro romanzo di Okorafor, Premio Nebula e Premio Hugo nel 2016 (traduzione di Benedetta Tavani, Mondadori,2019), una ragazza di etnia himba che scappa dal suo villaggio sulla Terra per imbarcarsi su un’astronave verso la prestigiosa università galattica Oomza. Durante il viaggio si troverà ad affrontare le Meduse, una specie aliena determinata a distruggerla e da cui forse, alla fine, verrà accettata.
La nuova fantascienza africana si confronta con protagoniste e temi femministi, mostrando come sia possibile e addirittura necessario intrecciare il racconto della specificità africana con quello di altre narrazioni meno esplorate, avendo come orizzonte un’idea di modernità e di futuro che, finalmente liberato, non sia solo tecnologico o futuristico, ma anche sociale, ecologico e personale. Identità, spiritualità e cosmologie africane si intrecciano in Convergenza nell’architettura del coro (traduzione di Giusi Palomba, Zona 42, 2021), dell’autore queer nigeriano Dare Segun Falowo: è una favola mitica e onirica che racconta di Osupa, una comunità isolata nata «nella fuga dalla spada e dal fuoco della guerra», di un vascello d’osso che arriva dal cielo per rapire i suoi membri, e di due giovani, ostaggi dei loro stessi sogni. Grazie al lavoro pioneristico di alcune case editrici oggi i testi di speculative fiction di matrice africana stanno trovando lettori anche in Italia, anche se siamo lontani dai numeri delle altre pubblicazioni fantascientifiche non occidentali, come quelle cinesi o coreane: quelli citati sono solo alcuni degli autori tradotti in italiano o già presenti sul mercato anglofono, dove gli scrittori africani stanno trovando più possibilità espressive. Ora che, dopo essere migrata in Occidente, la fantascienza africana sta tornando a casa, non ha tanto senso chiedersi se oggi sia pronta per essere letta, ma soltanto se l’Occidente sia finalmente pronto a comprenderla.
- Matteo Trevisani - Pubblicato su La Lettura del 23/7/2023 -
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