Dalla guerra fredda alla pace calda
di Slavoj Žižek
Con l'invasione russa dell'Ucraina, stiamo entrando in una nuova fase della guerra e della politica globale. Oltre a un aumento del rischio di catastrofe nucleare, ci troviamo già in una tempesta perfetta di crisi globali che si rafforzano a vicenda: pandemia, cambiamento climatico, perdita di biodiversità e scarsità di cibo e acqua. La situazione evidenzia una follia di fondo: nel momento in cui la sopravvivenza stessa dell'umanità si trova a essere minacciata da fattori ecologici (così come da altri), quando affrontare tali minacce dovrebbe essere la priorità su tutto il resto, la nostra preoccupazione primaria si è improvvisamente spostata - ancora una volta - su una nuova crisi politica. Proprio nel momento in cui la cooperazione globale è più necessaria che mai, lo «scontro di civiltà» si ripresenta in tutta la sua forza.
Perché sta succedendo questo? Come accade assai spesso, un po' di Hegel può aiutare a rispondere a questa domanda. Nella "Fenomenologia dello spirito", Hegel descrive la famosa dialettica del padrone e dello schiavo, due «autocoscienze» che si affrontano in una lotta per la vita e la morte. Se ciascuno di loro è disposto a rischiare la propria vita per vincere, e se entrambi persistono in questo obiettivo, non abbiamo un vincitore: uno muore, ma per il sopravvissuto non c'è più nessuno a riconoscere la sua stessa esistenza. Ciò implica che tutta la storia e la cultura si basano su un compromesso fondamentale: nel confronto diretto, uno dei due «distoglie lo sguardo», senza avere la volontà di andare fino in fondo, rimanendo così schiavo.
Ma Hegel si affretterebbe anche a notare che non può esserci un compromesso finale o duraturo tra gli Stati. Le relazioni tra gli Stati-nazione sovrani si trovano in maniera permanente all'ombra di una potenziale guerra, dal momento che ogni epoca di pace non è altro che un armistizio temporaneo. Ciascuno stato disciplina ed educa i propri membri, garantendo la pace civica tra loro. Ora, questo processo produce un'etica che, in ultima analisi, esige atti di eroismo; richiede una disponibilità a sacrificare la propria vita per il proprio paese. Le relazioni selvagge e barbare tra gli Stati servono, in questo modo, da fondamento della vita etica che si svolge all'interno degli stessi Stati.
La Corea del Nord rappresenta l'esempio più chiaro di questa logica; e ci sono dei segnali che anche la Cina si stia muovendo in quella stessa direzione. Secondo degli amici in Cina (i quali devono rimanere senza nome), gli autori che scrivono sulle riviste militari in questo periodo si lamentano del fatto che l'esercito cinese non abbia avuto una vera guerra, per poter testare la sua capacità di combattimento. Mentre gli Stati Uniti testano continuamente il loro esercito, come hanno fatto in Iraq, la Cina non lo ha più fatto dal suo fallito intervento in Vietnam, nel 1979. Simultaneamente, i media ufficiali cinesi hanno cominciato a suggerire in maniera aperta - a fronte della diminuzione delle prospettive di integrazione pacifica tra Taiwan e la Cina - che si renderà necessaria una «liberazione» militare dell'isola ribelle. E come preparazione ideologica all'azione, la macchina della propaganda cinese ha cominciato a incoraggiare sempre più il patriottismo nazionalista, insieme al sospetto nei confronti di tutto ciò che è straniero, insinuando frequenti accuse secondo cui gli Stati Uniti sarebbero desiderosi di entrare in guerra per Taiwan. Nello scorso autunno, le autorità cinesi hanno consigliato ala popolazione di fare scorta di provviste che fossero sufficienti a sopravvivere per due mesi, «per sicurezza». Si è trattato di uno strano avvertimento, che molti hanno percepito come l'annuncio di una guerra imminente. Una tale tendenza contraddice l'urgente necessità di civilizzare le nostre «civiltà», stabilendo per i paesi un nuovo modo di rapportarsi con i loro vicini. Abbiamo bisogno di solidarietà universale e di cooperazione tra tutte le comunità umane, ma questo obiettivo è diventato molto più difficile da raggiungere a causa dell'aumento della violenza settaria, religiosa ed etnica «eroica». Assistiamo anche a una disponibilità a sacrificare sé stessi (e il mondo) combattendo per una causa specifica.
Nel 2017, il filosofo francese Alain Badiou aveva notato come fossero già distinguibili i contorni di una guerra futura. Egli ha previsto che « [...] da una parte, gli Stati Uniti e i loro partner occidentali con in più il Giappone, e la Cina e la Russia dall'altra, con armi nucleari da entrambe le parti. Qui, non possiamo fare a meno di ricordare un'affermazione di Lenin secondo cui: "o la rivoluzione impedirà la guerra, o la guerra scatenerà la rivoluzione". È quindi così che possiamo definire l'ambizione ultima del lavoro politico a venire: per la prima volta nella storia, deve avverarsi la prima ipotesi - la rivoluzione impedirà la guerra -, ma non la seconda - la guerra scatenerà la rivoluzione. Ed è stata effettivamente la seconda ipotesi quella che si è concretizzata in Russia nel contesto della prima guerra mondiale, e in Cina nel contesto della seconda. Ma a che prezzo! E con quali conseguenze a lungo termine! »
I limiti della realpolitik
Civilizzare le nostre «civiltà» richiederà un cambiamento sociale radicale; una vera e propria rivoluzione. Ma non possiamo aspettarci che essa venga innescata da una nuova guerra. Assai più probabilmente, il risultato di un tale processo sarebbe la fine della civiltà così come la conosciamo, con i sopravvissuti (se ci saranno) organizzati in piccoli gruppi autoritari. Non dobbiamo farci illusioni: in un certo qual modo, la terza guerra mondiale è già cominciata, sebbene per il momento si stia ancora combattendo principalmente per mezzo di intermediari.
Gli appelli astratti alla pace non sono sufficienti. «Pace» non è un termine che ci permette di tracciare una distinzione politica fondamentale che ora è necessaria. Gli occupanti desiderano sempre sinceramente la pace nel territorio che occupano. La Germania nazista voleva la pace nella Francia occupata, Israele vuole la pace nella Cisgiordania occupata, e il presidente russo Vladimir Putin vuole la pace in Ucraina. Come disse una volta il filosofo Étienne Balibar, «il pacifismo non è un'opzione». L'unico modo di evitare un'altra Grande Guerra, è evitare quel genere di «pace» che, per poter essere mantenuta, richiede continue guerre locali.
In queste condizioni, in chi possiamo riporre la nostra fiducia? Dovremmo affidarci agli artisti e ai pensatori, o addirittura ai pragmatici professionisti della realpolitik? Con gli artisti e i pensatori, il problema è che essi riescono a porre simultaneamente anche le basi per la guerra. Ricordatevi del verso assai appropriato di William Butler Yeats: « (...)e i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi; cammina leggera perché cammini sopra i miei sogni ». La lezione contenuta in queste righe, andrebbe applicata ai poeti stessi. Quando essi diffondono i loro sogni sotto i nostri piedi, dovrebbero farlo con attenzione, poiché la gente reale leggerà, e agirà di conseguenza. Ricordiamoci che lo stesso Yeats flirtava continuamente con il fascismo, al punto da arrivare, nel 1938, a esprimere la sua approvazione per le leggi antisemite tedesche di Norimberga. La reputazione di Platone continua a soffrire a causa della sua dichiarazione secondo cui i poeti dovrebbero essere espulsi dalla città. Eppure, tuttavia, questo rimane un consiglio piuttosto sensato, a giudicare dall'esperienza degli ultimi decenni, quando il pretesto per la pulizia etnica ci è stato servito da dei poeti e dei «pensatori» come Aleksandr Dugin, l'ideologo di Putin. Senza poesia, non avremmo più pulizia etnica, visto che viviamo in un'epoca presumibilmente post-ideologica. E dal momento che le grandi cause secolari non hanno più la forza di mobilitare le persone alla violenza di massa, si rende necessario allora un motivo più sacro. La religione, o l'appartenenza etnica svolgono perfettamente questo ruolo (gli atei patologici che commettono omicidi di massa per diletto, sono delle assai rare eccezioni).
Anche la realpolitik, poi, non sembra essere una guida migliore. È diventata un mero alibi per l'ideologia; cosicché quest'ultima evoca spesso qualche dimensione nascosta dietro il velo delle apparenze, in modo da oscurare il crimine che viene apertamente commesso. Questa doppia mistificazione viene spesso annunciata, a partire dalla descrizione di una situazione di conflitto che viene vista come «complessa». Un fatto ovvio - ad esempio, un caso di brutale aggressione militare - viene relativizzato per mezzo dell'evocazione di uno «sfondo molto più complesso». L'atto di aggressione viene presentato realmente come se fosse un atto di difesa.
Questo è esattamente ciò che sta accadendo oggi. La Russia ha ovviamente attaccato l'Ucraina; di conseguenza, sta ovviamente prendendo di mira i civili, causando in questo modo lo spostamento di milioni di persone. Eppure i commentatori e gli opinionisti cercano avidamente la «complessità» dietro tutto questo. C'è complessità, naturalmente. Ma la cosa non cambia il fatto fondamentale che la Russia ha invaso l'Ucraina. Il nostro errore è stato quello di non aver interpretato alla lettera, a un livello sufficiente, le minacce di Putin; pensavamo che stesse solo praticando un gioco di manipolazione strategica, guidato dall'intemperanza. Ricordiamoci della famosa barzelletta che una volta venne raccontata da Sigmund Freud: « Due ebrei si incontrarono in un vagone di un treno in una stazione della Galizia. "Dove stai andando?" - chiede uno di loro. "A Cracovia" - risponde l'altro. "Che bugiardo che sei!" - lo contraddice il primo. "Se dici che vai a Cracovia, è perché vuoi farmi credere che vai a Norimberga. Ma io so che in realtà tu stai andando a Cracovia. E allora perché mi stai mentendo?" ». Putin aveva annunciato un intervento militare; all'epoca, avremmo dovuto intenderlo alla lettera, quando diceva che il motivo era quello di pacificare e «denazificare» l'Ucraina. Invece, la censura attuata da strateghi delusi ma «profondi» ha equivalso a sostenere: « Perché mi hai detto che stai per occupare Lviv, quando in realtà vuoi davvero occupare Lviv? » Questa doppia mistificazione evidenzia la fine della realpolitik. Di regola, una simile posizione si contrappone all'ingenuità che collega la diplomazia e la politica estera a dei principi morali o politici. Tuttavia, nella situazione attuale, è la realpolitik a essere ingenua. È ingenuo supporre che anche l'altra parte, il nemico, punti a un accordo pragmatico limitato.
Forza e libertà
Al tempo della Guerra Fredda, le regole di comportamento delle superpotenze venivano chiaramente disegnate a partire dalla dottrina della distruzione reciproca assicurata (MAD, mutual assured destruction). Entrambe le superpotenze potevano essere certe che se avessero deciso di lanciare un attacco nucleare, l'altra parte avrebbe risposto con tutta la sua forza distruttiva. Di conseguenza, nessuna delle due parti poteva iniziare una guerra contro l'altra parte.
Del resto, quando il nordcoreano Kim Jong-un parla di assestare un colpo devastante agli Stati Uniti, non si può fare a meno di chiedersi come egli veda la propria posizione. Parla come se non sapesse che anche il suo paese verrebbe distrutto. È come se egli stesse giocando un gioco completamente diverso, chiamato NUTS (Nuclear Utilization Target Selection), nel quale le capacità nucleari del nemico possono essere distrutte chirurgicamente, prima che questi possa contrattaccare.
Negli ultimi decenni, gli Stati Uniti hanno oscillato tra MAD e NUTS. Sembra che, mentre agiscono come se continuassero ad affidarsi alla logica MAD, nelle loro relazioni con la Russia e la Cina, di tanto in tanto avviene che sognano una strategia NUTS; almeno in relazione all'Iran e alla Corea del Nord. Con il suo delirio, circa la possibilità di lanciare un attacco nucleare tattico, Putin segue il medesimo ragionamento. Il fatto stesso che due strategie direttamente contraddittorie vengano mobilitate simultaneamente dalla stessa superpotenza, ne attesta il carattere fantasioso.
Purtroppo per il resto di tutti noi, la follia esiste ed è ben presente. Le superpotenze si stanno testando l'un l'altra sempre più, e mentre cercano di imporre la propria versione di regole globali sperimentano l'uso di intermediari. Il 5 marzo scorso, Putin ha definito le sanzioni imposte alla Russia come «equivalenti a una dichiarazione di guerra». Ma da allora ha poi ripetuto più volte che gli scambi economici con l'Occidente devono continuare, sottolineando che la Russia mantiene i suoi impegni finanziari e che continua a fornire idrocarburi all'Europa occidentale. In altre parole, Vladimir Putin sta tentando di imporre un nuovo modello di relazioni internazionali. Invece della guerra fredda, dovremmo avere una pace calda: uno stato di guerra ibrida permanente dove gli interventi militari vengono dichiarati con il pretesto di missioni umanitarie e di mantenimento della pace. Così, il 15 febbraio, la Duma (il Parlamento russo) ha rilasciato una dichiarazione in cui esprime «il suo sostegno inequivocabile e consolidato per delle misure umanitarie appropriate, volte a fornire sostegno ai residenti di alcune aree delle regioni di Donetsk e Lugansk dell'Ucraina, che hanno espresso il desiderio di parlare e scrivere in russo». Vogliono che la libertà religiosa venga rispettata, dicendo che non appoggiano le azioni delle autorità ucraine che violano i loro diritti e libertà. Quante volte, in passato, abbiamo sentito argomentazioni simili per interventi che venivano guidati dagli Stati Uniti in America Latina, o in Medio Oriente e Nord Africa? Mentre la Russia bombarda le città, mentre lancia razzi su un ospedale di maternità in Ucraina, il commercio internazionale deve continuare. Fuori dall'Ucraina, la vita normale deve continuare. Questo è ciò che significa avere una pace globale permanente sostenuta per mezzo di infiniti interventi di mantenimento della pace in zone isolate del mondo.
Si può essere liberi in una situazione simile? Seguendo Hegel, bisogna fare una distinzione tra libertà astratta e concreta. La libertà astratta è la capacità di fare ciò che si vuole, indipendentemente dalle regole e dai costumi sociali; mentre la libertà concreta è la libertà conferita e sostenuta da regole e costumi. Posso camminare liberamente in una strada trafficata solo quando posso essere ragionevolmente sicuro che gli altri sulla strada si comporteranno in modo civile nei miei confronti; che gli automobilisti rispetteranno le regole del traffico e gli altri pedoni non mi deruberanno.
Ma ci sono momenti di crisi in cui deve intervenire la libertà astratta. Nel dicembre 1944, Jean-Paul Sartre scriveva: « Non siamo mai stati così liberi come sotto l'occupazione tedesca. Avevamo perso tutti i nostri diritti e, in primo luogo, il nostro diritto di parola. Ci insultavano apertamente. [...] Ed è per questo che la Resistenza è stata una vera democrazia; per il soldato, come per il suo superiore, era in agguato lo stesso pericolo, la stessa solitudine, la stessa responsabilità, la stessa libertà assoluta nella disciplina ». Sartre stava qui descrivendo la libertà astratta, non la libertà concreta. Quest'ultima è stata stabilita allorché si è verificata la normalità del dopoguerra. Oggi, in Ucraina, coloro che combattono contro l'invasione russa sono liberi e stanno lottando per una libertà senza restrizioni. Ma ciò solleva la questione circa quanto tempo può durare la distinzione. Cosa succede se altri milioni di persone decidono che devono infrangere liberamente le regole per proteggere la loro libertà? Non è forse questo che ha portato una folla "trumpista" a prendere d'assalto il Campidoglio degli Stati Uniti il 6 gennaio 2021?
Un gioco non così tanto buono
Ci manca ancora un termine adeguato al mondo di oggi. Da parte sua, la filosofa Catherine Malabou ritiene che stiamo assistendo all'inizio della «svolta anarchica» del capitalismo: come descrivere questo fenomeno di decentralizzazione delle monete, della fine dei monopoli statali, dell'obsolescenza del ruolo mediatore delle banche, della decentralizzazione degli scambi e delle transazioni? Questi fenomeni possono sembrare attraenti, ma con la graduale scomparsa del monopolio statale, scompariranno anche i limiti imposti dallo Stato allo sfruttamento e al dominio spietato. Sebbene l'anarco-capitalismo miri alla trasparenza, dall'altra parte, esso «autorizza contemporaneamente l'uso su larga scala, opaco, dei dati, il "dark web" e la fabbricazione di informazioni». Per evitare questa caduta nel caos, osserva Malabou, bisogna far sì che le politiche seguano sempre più un percorso di « "evoluzione fascista"; attraverso di essa si crea inoltre un clima di eccessiva sicurezza insieme a una crescita del potere militare. Simili fenomeni non contraddicono un impulso verso l'anarchismo. Al contrario, indicano proprio la scomparsa dello Stato protettivo; e una volta eliminata la sua funzione sociale, l'obsolescenza della sua forza viene sostituita dall'uso della violenza. L'ultranazionalismo segnala in questo modo l'agonia della morte dell'autorità nazionale ».
Vista in questi termini, la situazione in Ucraina non è quella di uno Stato nazionale che sta attaccando un altro stato nazionale. Piuttosto, è come se l'Ucraina venisse attaccata in quanto paese la cui identità etnica viene negata dall'aggressore. L'invasione si giustifica in termini di sfere di influenza geopolitica (le quali spesso si estendono ben oltre le sfere etniche, come avviene nel caso della Siria). Per la sua «operazione militare speciale», la Russia si rifiuta di usare la parola «guerra», non solo per minimizzare la brutalità del suo intervento, ma soprattutto per chiarire che la guerra nel vecchio senso di un conflitto armato tra Stati nazionali qui non si applica.
Il Cremlino vuole convincerci che l'esercito russo non sta facendo altro che garantire la «pace» in quella che considera la sua sfera di influenza geopolitica. Di fatto, sta già intervenendo per procura in Bosnia e in Kosovo. Il 17 marzo, l'ambasciatore russo in Bosnia, Igor Kalabukhov, ha spiegato che « se [la Bosnia] decide di diventare membro di una qualche alleanza [come la NATO], questi allora sono affari nostri. E da parte nostra ci sarà una risposta. L'esempio dell'Ucraina mostra quello che ci si deve aspettare. In caso di minaccia, risponderemo ».
Inoltre, il ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, è arrivato persino a suggerire che l'unica soluzione possibile sarebbe quella di smilitarizzare l'intera Europa; con la Russia e il suo esercito che mantengono la pace attraverso occasionali interventi umanitari. Sulla stampa russa, abbondano idee simili a questa. Come ci ha spiegato il commentatore politico Dmitry Evstafiev, in una recente intervista rilasciata a una pubblicazione croata: «Nasce una nuova Russia che ci fa sapere in maniera chiara che non vede, voi, l'Europa, come un interlocutore. La Russia ha tre interlocutori: gli Stati Uniti, la Cina e l'India. Voi, per noi, siete un trofeo da ripartire tra noi e gli americani. E non l'avete ancora capito, per quanto ci stiamo avvicinando rapidamente a questa realizzazione».
Dugin, il filosofo di corte di Putin, ha impostato la posizione del Cremlino a partire da una strana versione del relativismo storicista. Nel 2016, aveva detto: « La postmodernità dimostra che ogni presunta verità è una questione di fede. Così perciò crediamo in quello che facciamo, crediamo in quello che diciamo. Ed è questa l'unica maniera per poter definire la verità. Pertanto, abbiamo la nostra speciale verità russa che voi dovete accettare. [...] Se gli Stati Uniti hanno smesso di dare inizio a una guerra, bisogna riconoscere allora che gli Stati Uniti non sono più quell'unico padrone che erano. E [con] la situazione in Siria e Ucraina, la Russia sta dicendo: "No, non sei più il capo". Si tratta della domanda su chi governa il mondo. Solo la guerra può deciderlo veramente ».
Ciò pone un'altra domanda ovvia: che ne sarà dei popoli della Siria e dell'Ucraina? Non possono scegliere anche loro la loro verità e le loro credenze? O sono solo un parco giochi - o un campo di battaglia - dei grandi "boss"? Il Cremlino risponderebbe che nella grande divisione del potere, loro non contano. All'interno delle quattro sfere d'influenza, esistono solo interventi di mantenimento della pace. La guerra vera e propria ha luogo solo quando i quattro grandi capi non riescono a mettersi d'accordo sui confini delle loro sfere - come avviene nel caso delle rivendicazioni della Cina su Taiwan e sul Mar Cinese Meridionale.
Un nuovo non allineamento
Ma se siamo motivati solo dalla minaccia della guerra, e non dalla minaccia al nostro ambiente, la libertà che otterremo se vinciamo potrebbe non bastare. Ci troviamo davanti a una scelta impossibile: se per mantenere la pace scendiamo a dei compromessi, alimentiamo l'espansionismo russo, che può accontentarsi solo di una «smilitarizzazione» di tutta l'Europa. Ma se accettiamo il fronteggiamento totale, corriamo il forte rischio di scatenare una nuova guerra mondiale. L'unica soluzione che abbiamo è quella di cambiare le lenti attraverso le quali vediamo la realtà. Per quanto l'ordine globale liberal-capitalista si stia ovviamente avvicinando a una crisi a più livelli, la guerra in Ucraina viene, falsamente e pericolosamente, semplificata in maniera eccessiva. Problemi globali, come il cambiamento climatico, non giocano alcun ruolo nella banale narrazione secondo cui ci sarebbe uno scontro tra paesi barbari e totalitari e l'Occidente libero e civilizzato. E tuttavia le nuove guerre, e i conflitti tra le grandi potenze sono anche delle reazioni a questi problemi. Se la questione è quella della sopravvivenza su un pianeta in difficoltà, allora bisogna garantire una posizione più forte rispetto a quella degli altri. Anziché essere il momento in cui viene chiarita la verità, quello in cui appare l'antagonismo fondamentale, la crisi attuale non è altro che un momento di profonda delusione. Allo stesso tempo in cui dobbiamo sostenere fermamente l'Ucraina, dovremmo anche evitare quel fascino della guerra, che si è chiaramente impossessato dell'immaginazione di coloro che stanno spingendo per un confronto aperto con la Russia. È necessario qualcosa come un nuovo movimento dei non allineati, ma non nel senso che i paesi dovrebbero essere neutrali nella guerra in corso, quanto piuttosto nel senso che dovremmo mettere in discussione l'intera nozione di «scontro di civiltà».
Secondo Samuel Huntington, che ha coniato il termine, il palcoscenico per lo scontro di civiltà è stato allestito alla fine della Guerra Fredda, allorché la «cortina di ferro» dell'ideologia occidentale è stata sostituita dalla «cortina di velluto della cultura». A prima vista, una così tetra visione potrebbe sembrare l'opposto della tesi della fine della storia, avanzata da Francis Fukuyama in risposta al crollo del comunismo in Europa. Cosa potrebbe essere totalmente diverso dall'idea pseudo-hegeliana di Fukuyama? Per lui, il miglior ordine sociale possibile che l'umanità potesse concepire, si era infine rivelato essere la democrazia liberale capitalista!
Ora possiamo vedere come le due visioni siano pienamente compatibili: lo «scontro di civiltà» è la politica che arriva alla «fine della storia». I conflitti etnici e religiosi sono la forma di lotta che più si addice al capitalismo globale. In un'epoca di «post-politica» - in cui la politica vera e propria viene gradualmente sostituita da un'amministrazione sociale specializzata - le uniche fonti legittime di conflitto che rimangono sono quelle culturali (etniche, religiose). Lo scatenarsi della violenza «irrazionale» deriva dalla depoliticizzazione delle nostre società.
Entro questo orizzonte limitato, l'unica alternativa alla guerra diventa quella di una coesistenza pacifica di civiltà (quella delle differenti «verità», come ha detto Dugin, ovvero, per utilizzare un termine oggi più popolare, quella dei diversi «modi di vita»). La cosa implica che i matrimoni forzati, l'omofobia o lo stupro delle donne che hanno il coraggio di uscire in pubblico da sole sono tollerabili solo se avvengono in un altro paese, a condizione che questo paese sia pienamente integrato nel mercato globale.
Il nuovo non allineamento deve ampliare l'orizzonte, riconoscendo che la nostra lotta deve essere globale; senza smettere di opporci in ogni modo alla russofobia. Dobbiamo offrire il nostro sostegno a coloro che all'interno della Russia stessa stanno protestando contro l'invasione. Queste persone non appartengono ad alcune cerchie astratte di internazionalisti; sono loro i veri patrioti russi, sono le persone che amano veramente il loro paese e che dal 24 febbraio si vergognano profondamente. Non esiste un detto che sia più moralmente ripugnante e politicamente pericoloso di quello de « è il mio paese, giusto o sbagliato». Purtroppo, la prima vittima della guerra in Ucraina è stata l'universalità.
Slavoj Žižek - Lubiana, 25/3/2022 - Testo pubblicato originariamente su Project Syndicate
fonte: Project Syndacate
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